Visualizzazione post con etichetta narrativa americana. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta narrativa americana. Mostra tutti i post

10/09/22

LIBRO DEL GIORNO: "Bruciare i giorni" di James Salter

 



James Salter, in vita, è stato sempre considerato un outsider. 

Soltanto negli ultimi anni, prima della morte avvenuta a Sag Harbor il 19 giugno 2015, a 90 anni, egli cominciò a ricevere riconoscimenti per la sua opera di scrittore. 

Alle spalle aveva già parecchie vite vissute: nato James Horowitz a New York nel 1925, Salter era entrato giovanissimo all'Accademia Militare degli Stati Uniti, a West Point, e nel 1945 era entrato nell'Air Force, dove prestò servizio per dodici  lunghi anni tra il Pacifico, l'Europa, gli Stati Uniti d'America e la Corea, dove partecipò a diverse missioni sul suo caccia. 

Lasciato l'esercito con parecchi rimpianti - diversi tra i suoi ex compagni piloti, tra cui Buzz Aldrin finirono nel programma Apollo della NASA - a partire dal 1956 Salter cominciò a scrivere e a pubblicare, con lo pseudonimo che aveva scelto. 

I suoi romanzi non avevano successo. O almeno, non quello che Salter sperava o si aspettava. Ripiegò sul cinema. Scrisse sceneggiature per diversi film, ne diresse perfino uno, con la giovane Charlotte Rampling protagonista, si intitolava Three, nel 1969, che fu un totale fiasco. 

Nel frattempo però si era trasferito con la famiglia nella vecchia Europa e, muovendosi tra Londra, Parigi e Roma, tra gli anni '60 e '70 frequentò il bel mondo di allora, avvicinò i grandi, a volte lavorò con loro, conobbe molte donne, le amò, tornò a scrivere. 

Alla fine la sua opera letteraria consiste in un pugno di romanzi, e in un paio di libri di racconti. In Italia Guanda sta meritatamente traducendoli tutti: The Hunters, 1957 (Per la gloria, 2016) A Sport and a Pastime, 1967 (Un gioco e un passatempo, 2015) Light Years, 1975 (Una perfetta felicità, 2015) Cassada, 2000 (La solitudine del cielo, 2017) Last Night, 2005 (L'ultima notte,  2016) All That Is, 2013 (Tutto quel che è la vita, 2014) The Art Of Fiction, 2016 (L'arte di narrare, 2017) Burning the days, 1997 (Bruciare i giorni, 2018) Dusk and other stories, 2011 (Crepuscolo e altre storie,  2022).

Bruciare i giorni è dunque la sua ultima opera-romanzo, prima dei racconti finali del 2011. Ed è  un grande, corale riassunto della sua vita.  Un romanzo cioè "memoriale", che esprime bene la filosofia di Salter riguardo la letteratura (e la vita): soltanto ciò che viene ricordato, e dopo essere stato ricordato viene scritto, solo questo, viene salvato. 

Salvato dall'oblio e dalla insensatezza della vita. I poeti, gli scrittori, i saggi e le voci del loro tempo, scrive a un certo punto, formano un coro, l'inno che condividono è lo stesso: grande e piccolo sono uniti, il bello vive, il resto muore, e niente ha senso a parte l'onore, l'amore e quel poco che il cuore conosce. 

Il memoriale di Salter raggiunge livelli di compulsività e di ossessione: le quattrocentosedici pagine sono un carosello rutilante di incontri, di vissuto, di giorni bruciati, appunto, che si susseguono in fila nei ricordi dello scrittore, senza apparente soluzione di continuità. 

C'è una urgenza di salvare il salvabile, di cementare (per quello che possono fare la letteratura e i libri) la memoria di una vita vissuta, fortunata e piena. 

E l'operazione riesce ad essere avvolgente e ipnotica per il lettore, per merito dello stile di Salter, che si può apprezzare anche negli altri suoi romanzi e che ha portato il Washington Post a definirlo come "il romanziere contemporaneo più amato e apprezzato dagli scrittori." 

Salter, come il John Williams di Stoner, è un distillatore di parole. Ciascuna frase sembra cesellata nell'essenziale. Un rigo basta a descrivere uno stato di vita, un fallimento, una perdita, la ferita di un paesaggio, l'ebrezza di un lungo incontro. 

Il libro è praticamente diviso in due grandi parti: nella prima, Salter racconta la sua vita di cadetto a West Point, e di pilota, la sua vita che in quegli anni è tutta concentrata sul volo. 

Nella seconda, il racconto si incentra sulla scrittura, gli incontri, il cinema: New York, Robert Redford e Polanski, Parigi vista con meraviglioso disincanto da espatriato, fino alla Roma di Pasolini e Laura Betti. 

Salter rivela, evocandone il ricordo, come avviene parzialmente anche negli altri romanzi, tutto quel che può essere la vita, a saperla e volerla raccontare. Una musica sincopata, che a tratti accarezza come vento poetico, e a volte, il più delle volte, strugge. Il senso, se c'è, è altrove. Basta, per ora, il racconto.   

12/06/22

Il grande Saul Bellow, uno dei più grandi narratori americani: perché ci manca


 

Saul Bellow, di cui due giorni fa, il 10 giugno, ricorrevano i centosette anni dalla nascita e il 5 aprile i diciassette dalla morte, è una figura che non farà che prendere spazio nella prospettiva storica della letteratura americana di cui ha rappresentato un legame con la grande tradizione e, assieme, il momento di rottura, di innovazione.
Dopo i libri cesellati e minuziosi degli inizi, come L'uomo in bilico o La vittima che derivano dalle indagini sullo stile e la scrittura di Henry James, si propose di scrivere un libro del tutto americano, "libero dalla schiavitù autoimposta e arbitraria dei modelli inglesi", e nacque il suo primo grande romanzo, Le avventure di Augie March.

Premio Nobel per la letteratura nel 1976, Bellow (1915-2005) è considerato quindi uno dei grandi della letteratura americana, forse il più grande dal dopoguerra, che va ben oltre il ricco filone della produzione ebraica americana e leggerlo essenzialmente legandolo a quella sua intima e evidente matrice sarebbe un errore, una limitazione.
Figlio di immigrati ebrei russi, nato in a Lachine, nel Quebec (Canada), il 10 giugno 1915, Bellow è cresciuto a Chicago negli anni '20 e '30 ed ha avuto una vita sentimentale movimentata, con cinque mogli (e quattro divorzi), oltre a numerosissime amanti.

Uno scrittore diventato punto di riferimento essenziale con opere, per fare solo tre titoli, come Herzog (1964), Il pianeta di Mr. Sammler (1970), Il dono di Humboldt (1975) in cui predomina, sullo sfondo di una curiosità onnivora e prettamente umanista, la descrizione dello spaesamento intimo, che nasce da radici fisiche e culturali (l'ebraismo) e diventa universale e metaforico dei nostri tempi, sotto la continua minaccia di una realtà sempre più incomprensibile, in un mondo che ha perso chiarezza, in cui bene e male si confondono e le eterne domande sul senso dell'esistenza, restano dolorosamente senza risposta.
Augie March riprende il tema caro alla letteratura americana del ragazzo libero e dalle avventure picaresche (il modello sono Le avventure di Huckleberry Finn di Mark Twain), col protagonista che racconta di sé e si interroga sul proprio destino, mischiando energia vitale e comicità, brutale solitudine e feroce lotta col mondo nel tentativo di non essere schiacciato e di non perdere i brandelli della propria individualità, rifiutando di essere conglobato e omologato, in difesa della propria umanità.

E quest'ultimo è il tema di fondo dell'opera di Bellow e delle altre sue opere, da Humboldt l'intellettuale che interrogandosi sui mali del Novecento, si chiede come sia potuto accadere tutto e finisce per chiudersi in se stesso, a Mr Sammler, un anziano che guarda con amara coscienza alla propria vita alienata e pressata dalle ingiustizie, dal razzismo, della società americana, come una condanna senza uscita.
I suoi eroi, con i loro lunghi, scintillanti monologhi interiori, sono esuberanti, innamorati, intellettuali, capaci di guardare con autoironia alla propria incapacità a sottrarsi alle seduzioni femminili (spesso rappresentate da donne virago, assetate di sesso e di conto in banca), in un'epoca in cui la famiglia ha perso il suo valore e va disintegrandosi.

Perdenti che non soccombono, e che rielaborano e destrutturano i miti della frontiera e del sogno americano, infranti sulla soglia della modernità.

Una lucidità di pensiero, prima che di scrittura, ineguagliabile. Che aiuta a districarsi nel caos e si ostina a dare voce alla ragione e alle ragioni del cuore. Ultimo grande lascito di una grande letteratura che aiutava non poco a comprendere (e a dare un nome) al mondo.

"La colonna vertebrale della letteratura americana del Novecento - disse Philip Roth alla morte di Bellow - è stata fornita da due romanzieri, William Faulkner e Saul Bellow. Insieme sono i Melville, gli Hawthorne e i Twain del ventesimo secolo".

Fabrizio Falconi - 2022

Fabrizio Falconi

02/03/22

Le domande a un cane che sta per morire. Il meraviglioso "questionario" immaginato da David Leavitt

 



E' una delle cose più belle e alte e toccanti che abbia letto a riguardo dei rapporti con l'animale più amato, il cane, il proprio cane. David Leavitt lo ha scritto, e in italiano lo ha tradotto Fabio Cremonesi. 

Sei settimane fa a Toby, il nostro adorato Bedlington terrier, è stata diagnosticata una massa tumorale nell'addome con metastasi ai polmoni. Dato che Toby ha nove anni e il cancro è in uno stadio così avanzato, abbiamo deciso di risparmiargli un'operazione e la chemioterapia e passare direttamente alle cure palliative

Ci è stato detto che sarebbe morto nel giro di poche settimane, forse di giorni. Mentre sto scrivendo, sta bene, molto meglio rispetto al momento della diagnosi. 

Come percepisci il tempo? 
Percepisci il tempo? 
Pensi di doverci proteggere? 
Pensi che siamo noi a dover proteggere te? 
Se la tua risposta è sì a entrambe le domande, questo ti provoca angoscia esistenziale? 
Quando andavamo allo stagno a vedere le anatre e tu abbaiavi, come le vedevi? Come amiche? Nemiche? Prede? (Di solito tu gli uccelli non li guardi nemmeno). E ora che le anatre sono partite e nello stagno non ce ne sono più, senti la loro mancanza? 

Perché abbai quando l'automobile di un estraneo si ferma nel vialetto di casa, ma quando è la mia macchina a fermarsi nel vialetto non abbai? 
È perché riconosci il rumore del motore della mia macchina? O perché la mia macchina ha un odore tutto suo? 
È per il ritmo dei miei passi quando mi avvicino alla porta? 
Cosa ti passa per la testa quando senti le parole «giro in macchina»? 
Cosa ti passa per la testa quando senti la parola «bocconcino»? 

Perché quando sei nel nostro letto, dormi rivolto nella direzione opposta rispetto a noi? 
Come hai fatto a scoprire come si apre la maniglia della porta del bagno? 
Perché bevi l'acqua dal water anziché dalla tua ciotola? 
Pensi che il water sia una fonte? 
Come fai a sapere quando manca un'ora al momento della pappa? 

Lo capisci dalla luce che cambia? Dal mio umore che cambia? Dalla posizione del sole e della luna che cambia? Com'è per te la sensazione di fame? 
Perché sradichi sempre i gigli? È qualcosa che ha a che fare con i gigli in sé? È qualcosa che ha a che fare con il cane che c'è dall'altra parte della recinzione accanto a cui sono piantati i gigli? È qualcos'altro? 

Capisci che la mia mente è dentro la testa? 
Mi consideri assurdamente lungo? Ti consideri più proporzionato di me? Come percepisci l'età? Sai quanto sei invecchiato rispetto alla prima volta che ci siamo visti? Sai quanto sono invecchiato io rispetto alla prima volta che ci siamo visti? 

Capisci che siamo destinati a invecchiare a velocità diverse? Ti confonde il fatto che, dopo essere stato più giovane di me per tutta la vita, adesso ti ritrovi a essere più vecchio di me? 
Ti sembro tragico? Comico? Volgare? Intelligente? Indolente? Noioso? Poco collaborativo? Affettuoso? Negligente? Patetico? Capisci cos' è la morte? 

Capisci che tra chi hai conosciuto, ci sono persone che rivedrai e altre che non vedrai più, in certi casi perché sono morte? Quando hai ucciso quello scoiattolo, hai capito di averlo ucciso? 
Quando hai strappato dal tuo scoiattolo-giocattolo il meccanismo che produceva il suono, hai capito di non averlo ucciso? 

Ricordi tua madre? 
Perché quando c'è un temporale vai sempre a nasconderti dietro la sedia sul lato destro della stanza e mai dietro a quella che c'è a sinistra? 

Cosa pensi quando vedi un altro cane? Dipende dal cane? Se sì, da quale aspetto del cane dipende se lo considererai un amico o un nemico? Ho ragione a supporre che non ti piacciano i cani neri? Questo fa di te un razzista? 

La prima volta che hai tirato fuori la soletta da una mia scarpa e l'hai lanciata all'altro capo della stanza, ti sei divertito a farlo? È perché quella prima volta ti sei divertito così tanto che da qual momento in poi l'hai fatto altre centinaia di volte? È corretto che io chiami «gioco» quel tuo tirare fuori le solette dalle mie scarpe? Posso dire agli altri: «Il mio cane si è inventato un gioco?». Perché tiri fuori le solette solo dalle mie scarpe sinistre? 

Secondo te perché sogno spesso di fare le valigie all'ultimo momento? Perché spesso in quei sogni tu sei una delle cose che devo mettere in valigia? Perché in quei sogni quando salgo sul taxi per l'aeroporto, all'improvviso mi ricordo di essermi dimenticato di prendere qualcosa? Perché in quei sogni sei così spesso tu la cosa che ho dimenticato di prendere? 

Perché nei miei sogni l'aeroporto è sempre Malpensa? Perché quando mi sveglio da quei sogni e ti vedo dormire accoccolato accanto a me, mi sento addolorato? Tu cosa sogni? Capisci cosa vuol dire «abbastanza»? Capisci cosa vuol dire «troppo»? 

Capisci di essere malato? La prospettiva della tua morte ti spaventa quanto spaventa me? Come farò a vivere senza di te?

03/12/21

Libro del Giorno: "Crossroads" di Jonathan Franzen

 


Appena terminata l'ultima pagina, con un finale così sospeso che non trova altra giustificazione che nel  fatto dell'essere Crossroads, la prima parte di una trilogia, un fiume narrativo che continuerà nei prossimi due romanzi, ci si scopre ammirati e sollevati: Franzen è tornato. E' tornato, cioè, dopo il gran brutto inciampo di Purity, quello che conoscevamo e che aveva incantato con Correzioni, e con Libertà

Ed è tornato ancora meglio, al punto che Crossroads, il suo sesto romanzo può forse essere considerato il suo migliore. 

Pubblicato due mesi fa in America, Crossroads è una saga familiare ambientata negli anni '70 e incentrata sulla famiglia Hildebrandt nella piccola città immaginaria di New Prospect, nell'Illinois.  Come detto, il romanzo è il primo volume di una trilogia progettata intitolata A Key to All Mythologies, che Franzen intende come l'abbraccio di tre generazioni e che ripercorre la vita interiore della nostra cultura fino ai giorni nostri". 

Crossroads segue le vicende di Russ e Marion Hildebrandt, il cui matrimonio è vicino al collasso, e i loro quattro figli, Clem, Becky, Perry e Judson

Ogni capitolo è raccontato dal punto di vista di uno degli Hildebrandt, e la maggior parte è ambientata nella fittizia New Prospect Township della periferia di Chicago. 

La prima sezione, intitolata Avvento, si svolge nell'inverno del 1971. Russ, ministro associato della First Reformed Church, flirta con una giovane vedova, Frances Cottrell, odiando il carismatico Rick Ambrose. Russ è stato infatti costretto a lasciare Crossroads, il popolare gruppo giovanile che ha fondato nella sua Chiesa, a favore dello stile di leadership più popolare – e meno liturgico – di Rick. 

I due figli di Russ, Perry e Becky si sono recentemente uniti a Crossroads, con molti problemi: . Perry ha deciso di smettere di spacciare erba e diventare una persona migliore. Becky, una popolare cheerleader, diffida di Perry, anche se è vicina a suo fratello maggiore, Clem. Si è anche scontrata con i suoi genitori per un'eredità di 13.000 dollari da sua zia Shirley. 

Nel frattempo, Marion sta frequentando di nascosto sessioni di terapia, in cui racconta episodi traumatici del suo passato, tra cui una relazione con un uomo sposato di nome Bradley e un crollo psichiatrico. Questi episodi sono avvenuti a Los Angeles poco prima che incontrasse Russ, e lei li ha nascosti alla sua famiglia, nonostante la sua preoccupazione per la stabilità mentale di Perry.

La seconda sezione, Pasqua, inizia nella primavera del 1972. Crossroads compie il suo viaggio di servizio annuale in Arizona , dove Russ ha legami con la comunità Navajo che risalgono al suo servizio alternativo in Arizona come obiettore di coscienza durante la seconda guerra mondiale.

Da qui si dipaneranno una serie di conseguenze impreviste e anche drammatiche. 

Il libro termina nel marzo 1974, quando Clem torna a New Prospect per riunirsi con Becky

Franzen ha iniziato a scrivere Crossroads all'inizio del 2018, e ha finito di scriverlo durante i primi quattro mesi della pandemia di COVID-19 nel 2020, dichiarando che durante la stesura di Crossroads ha deciso di abbracciare pienamente il suo ruolo di "romanziere di caratteri e di psicologia", limitandosi cioè "una rigorosa narrativa realista", e in questo senso il progetto differisce dai suoi romanzi precedenti. 

Il progetto nasce dalla concezione di Franzen di un singolo personaggio, ispirato da una nuova conoscenza che – come Russ in Crossroads – aveva un background mennonita

Il romanzo è anche molto autobiografico: da adolescente, Franzen apparteneva a un gruppo di giovani della chiesa chiamato Fellowship, che è l'oggetto del suo saggio "The Joy Breaks Through" contenuto in "Zona disagio" e che ricorda Crossroads. 

Tuttavia, in Crossroads , Franzen ha affrontato la religione principalmente come "un'esperienza emotiva": Non era mia intenzione cosciente, ma penso di aver prodotto un libro che essenzialmente non contiene teologia... Penso che le domande per me siano: sono una brava persona? Cosa posso fare per essere una persona migliore? Non credo che le persone, in generale, dicano: "Voglio essere buono secondo uno standard esterno". Penso che stiano lottando con esso in un modo più personale e specifico. 

Alla domanda sul motivo per cui ha scelto di ambientare Crossroads nei primi anni '70, Franzen ha sottolineato lo stretto legame tra religione e movimenti progressisti negli Stati Uniti in quel momento - un tempo, cioè, prima che il cristianesimo fosse decisamente associato alla politica di destra. Era anche interessato alle conseguenze dei diritti civili e dei movimenti contro la guerra e al fatto che "si iniziarono a vedere i primi giovani che erano in realtà più conservatori dei loro genitori". 

Franzen ha anche affermato di aver trovato interessante scrivere sul passato, piuttosto che sul presente, durante gli anni dell'amministrazione Trump, a cui sentiva di "non riuscire a dare un senso in tempo reale". 

Le mie impressioni di lettura del romanzo, sono confortate dal supplemento letterario del Times, secondo il quale Crossroads è largamente esente dai vizi da cui è stato dedito il lavoro precedente di Franzen: l'attualità consapevole; la raffinatezza dell'esibizione; la pesantezza formale. Conserva molte delle sue virtù familiari: la robusta caratterizzazione; l'escalation della commedia; la padronanza virtuosistica del ritmo narrativo. 

I critici hanno particolarmente elogiato il personaggio di Marion, che è stato definito "uno dei gloriosi personaggi della recente narrativa americana". 

 Quel che è certo è che Crossroads tocca in profondità con le descrizioni di vite che sono (anche) le nostre e tempi che sono (stati) anche i nostri, con un artifizio da Lanterna Magica che li rende ancora più reali del vero. 

Fabrizio Falconi 

Jonathan Franzen

Crossroads 

Traduzione di Silvia Pareschi 

Einaudi Supercoralli 2021 

Pagine: 600 p.,  Euro 22

06/11/20

La Regina degli Scacchi, una bella serie tv. Ma il romanzo è un'altra cosa.

 



La Regina degli Scacchi (The Queen's Gambit è il titolo originario anche del romanzo, cioè "Il gambetto della Regina", che è una celebre mossa del gioco degli scacchi), è la nuova serie Netflix che sta spopolando un po' in tutto l'occidente e anche in Italia, come successe un anno fa per Unhortodox, non a caso anche quella una storia tutta al femminile, di sottomissione e di riscatto. 

La serie, va detto subito, è un ottimo prodotto, in sette lunghe puntate (ciascuna più di un'ora), con straordinarie ricostruzione di interni, costumi (la storia è ambientata negli anni '60 negli USA) e ambienti, con una colonna sonora ottima (Carlos Rafael Rivera) e una interprete brava e adatta (Anya Taylor-Joy) nel ruolo di Beth Harmon, la ragazzina prodigio che scala le vette più alte della scacchistica nazionale e internazionale. 

Ciò che però stona, nella serie, è la profonda differenza rispetto allo straordinario romanzo da cui è tratta, scritto da Walter Tevis nel 1983. 

Il personaggio di Beth, nella serie, è trasformato in salsa glamour (vestiti elegantissimi, fascino, sicurezza, autocontrollo), completamente diverso dal personaggio immaginato da Tevis.   Per ovvie ragioni di appetibilità televisiva anche le competizioni, cioè le partite sono rese in modo del tutto inverosimile - con le mosse che vengono compiute dai giocatori praticamente in automatico, senza pensare nemmeno un decimo di secondo, quando chiunque sa che ogni mossa delle competizioni di alto livello è meditata a lungo - o a lunghissimo - e le partite durano ore intere - a volte giornate - proprio per questo.

Ma torniamo al romanzo.

The Queen's Gambit è considerato il capolavoro di Walter Tevis, morto l'anno seguente, e il suo penultimo romanzo. 

Autore raffinato e appartato Tevis ha scritto una raccolta di racconti e sei romanzi, i quali hanno avuto molta fortuna, con celebri adattamenti cinematografici, come quelli tratti da L'uomo che cadde sulla Terra, scritto nel 1963 e portato sullo schermo da Nicholas Roeg (con Bowie protagonista), Lo spaccone (1959), diventato un classico del cinema con Paul Newman protagonista e Il colore dei soldi (1984), il suo ultimo romanzo, trasposto al cinema da Martin Scorsese, ancora con Newman protagonista e il giovanissimo Tom Cruise. 

La Regina degli Scacchi però, merita un posto a parte. 

Si tratta di un romanzo perfetto, che ha come protagonista l'orfana Beth Harmon e ne segue passo passo le vicende dalle stanze dell'oscuro orfanotrofio cattolico nel quale viene accolta dopo la morte dei genitori, fino ai palcoscenici più esclusivi del gioco degli scacchi, nel quale si dimostra precocemente un puro genio.

Beth inizia a giocare quasi per caso, quando scopre nello scantinato della scuola, il vecchio e burbero custode giocare da solo davanti alla scacchiera al lume di una fioca lampada.

Come avviene per i colpi di fulmine della psiche descritti da James Hillman ne Il codice dell'anima, Beth si sente risucchiata da quello strano oggetto - la scacchiera - e dalla dinamica misteriosa del gioco. Impara in breve tempo, in breve tempo il suo cervello comincia a concentrarsi unicamente su quello. Riesce a battere in poco tempo il suo maestro, poi vola rapidamente sempre più alto, imparando da un manuale trafugato i rudimenti del millenario gioco.

Una volta adottata dalla stramba signora Withley e dal suo pessimo marito, Beth comincia a giocare ad alto livello: torneo dopo torneo, anche i media cominciano ad accorgersi di lei e negli anni '60-'70 in cui il libro è ambientato, Beth finisce addirittura per diventare - a soli sedici anni - l'orgoglio della nazione americana che ha finalmente un grande maestro da opporre agli invincibili dominatori sovietici.

Il pregio di questo meraviglioso libro è soprattutto nello stile e nella narrazione trasparente, sospesa ed essenziale che ricorda un altro capolavoro coevo, Stoner di  John Williams, da poco riscoperto e diventato un caso editoriale mondiale.

Non ha cadute, non ha pause, e tutto procede come un treno senza fermate fino alla fine. Beth è un commovente, vivo personaggio, che resta nel cuore di ogni lettore. Tevis riesce a mantenersi così neutro da evitare ogni smaccata empatia, ogni partecipazione eccessiva con il suo personaggio, che vive di vita propria e non ha bisogno di nessuna sovrastruttura, di nessuna costruzione narrativa.

Così anche il lettore è costretto ad osservarla, senza "tifare": per molte e molte pagine il lettore non sa anzi se sperare che Beth vinca o perda. E' chiaro che vincere per lei, e vincere fino alla fine, trionfando nella partita finale contro il campione del mondo russo Borgov sarebbe l'apoteosi di un riscatto esistenziale. Ma dietro questo successo si nascondono anche molte ombre e gli scacchi - come l'insegnamento universitario per Stoner - sono anche un modo per Beth per eludere la vita, per non affrontarla veramente, per attenuarne le feroci sofferenze.

Il fatto però che la ragazza sopravviva così strenuamente alla autodistruzione è plausibile e catartico.  E' una lezione anzi, che oggi sembra più che mai importante.

Anche i personaggi di contorno sono fenomenali: l'amica di orfanotrofio Jolene, la madre adottiva, così fragile e vera, la signora Withley,  il Signor Schaibel, il custode, e lo stesso Benny, ragazzo prodigio come Beth e come lui autisticamente isolato dal mondo.

Un romanzo veramente perfetto dunque, praticamente impossibile da trasporre nella fiction senza tradirne il nucleo originario: 

nella serie in particolare si è deciso di omettere quasi del tutto il cupio dissolvi della protagonista che, in particolare dopo la morte della matrigna, la avviluppa in una angosciosa autodistruzione e che nel romanzo occupa più della metà delle pagine, mentre nella serie è relegata appena ai margini.  

Si perde inoltre tutta la voce interiore che caratterizza il libro, la voce di Beth, il travaglio psicologico, la sofferenza, che è la grandezza del romanzo. 

E' ovvio che probabilmente non poteva essere diversamente da così, in una serie tv pensata per il grande pubblico onnivoro. 

Sarebbe però un bel successo se la serie televisiva riaccendesse l'interesse e la curiosità su questo libro e su questo autore, che meriterebbero davvero di essere conosciuti e letti in misura molto maggiore di quanto accade oggi.

Fabrizio Falconi - 2020  






02/01/19

Libro del Giorno: "Tutto quel che è la vita" di James Salter.




Raramente - quasi mai - capita di trovare un romanzo così perfetto come questo di James Salter (1925-2015), per me la più bella sorpresa dell'anno appena trascorso. 

Considerato il suo capolavoro, il capolavoro di uno scrittore che dopo la morte sta conquistando un sempre maggiore interesse (e successo) in America e in Europa, Tutto quel che è la vita racconta l'esistenza di Philip Bowman, un ordinary man (come cantavano i Pink Floyd di Us and Them), un uomo che attraversa la vita e la storia con passo discreto, con gli sbagli e la poesia quotidiana, gli amori, le passioni, i piccoli e grandi naufragi. 

Proprio da un naufragio, quello di una nave da guerra sulla quale il ventenne Bowman sta combattendo il suo conflitto, nell'estate del '44, prende il via il romanzo con un primo capitolo di eccezionale nitore che subito conquista la piena fiducia del lettore. 

Bowman - come fu lo stesso Salter - è un giovane ufficiale arruolato in Marina. Tornato a casa riesce a farsi mandare ad Harvard a studiare (performance notevole per uno come lui che viene da una normale famiglia di provincia) e in seguito viene assunto come editor di una piccola casa editrice che però diventa con gli anni importante. 

Gli anni del dopoguerra, i colleghi di lavoro, la frequentazione con gli scrittori, un matrimonio sbagliato, i viaggi in Europa, gli amori, le famiglie che si sfasciano, i genitori che muoiono: tutto quello che  - banalmente -  è la vita, appunto. 

Ma, proprio come avveniva in Stoner di John E. Williams, la forza di questo libro è nel far diventare la quotidianità, la banalità, epopea. 

Avviene per merito di una scrittura incredibilmente esatta, dove mai un aggettivo o una parola sono fuori posto, dove ogni compiacimento letterario, ogni abuso è bandito (che differenza con la quasi totalità della narrativa contemporanea!): e non è nemmeno un puro lavoro di sottrazione. Salter non si riserva il ruolo di autore della sordina. Le pagine sono piene di forza e di vita (raramente si sono letti brani erotici scritti con mano così felice, dove le cose sono chiamate con i loro nomi e per quello che sono), senza scivolare mai nel tono minore dell'umore dolente, vittimista o facilmente nichilista. 

Tutto quel che è la vita riluce così di un significato autentico, la letteratura si fa vita e viceversa. Senza orpelli e senza teorizzazioni o manipolazioni del lettore.  

Bowman non è Stoner. Il suo grado di innocenza è probabilmente minore rispetto a quello dell'eroe di Williams.  I suoi sbagli sono più evidenti e meno in buona fede (come esplicita tutta la parte della relazione con Anet, la giovane figlia di Christine, la donna con cui Bowman vive una relazione finita per il tradimento di lei). Ciò nonostante Bowman ha il passo del giusto e stoicamente sopravvive, affrontandoli, gli incerti della vita e soprattutto la sua solitudine. 

Sullo sfondo del romanzo, l'epoca felice in cui gli scrittori non erano macchine per far soldi o per vendere oggetti, e gli editors vivevano la suggestione dei luoghi e delle storie per rendere il loro lavoro pieno di senso. 

Un libro davvero bellissimo, che non si dimentica.

Fabrizio Falconi - 2019.





14/09/18

Libro del Giorno: "Il Falco" di Hernan Diaz.




Hernan Diaz, l'autore di Borges, Between History and Eternity (Bloomsbury, 2012), direttore associato dell'Istituto spagnolo presso la Columbia University, ma americano di nascita, ha giocato una bella battaglia con questo romanzo, Il falco (In the distance il titolo originale), uscito l'anno scorso, ma non l'ha vinta. 

L'idea era molto interessante: rivalutare il genere western, da troppo tempo abbandonato dalla grande narrativa americana, rivitalizzandolo da una prospettiva nuova, immaginandone protagonista nientemeno che un gigante svedese, Hakan, sfuggito nel mezzo dell'Ottocento dalla miseria della sua terra e della sua famiglia e imbarcatosi su una nave diretta verso il Nuovo Mondo. 

Il romanzo, che pure ha avuto successo in patria, giungendo finalista al Pulitzer e al Pen/Faulkner Award, non convince, nonostante - o forse proprio per questo - il talento narrativo di Diaz. 

La vicenda di Hakan coinvolge subito dalle prime pagine: in un immediato e lunghissimo flashback - che dura per tutto il libro - scopriamo l'incubo del viaggio di Hakan: partito per l'Inghilterra insieme al fratello per imbarcarsi da Portsmouth per l'America, Hakan perde Linus. I due si mischiano alla folla, e Hakan, sicuro che il fratello sia salito a bordo della stessa nave, si imbarca per scoprire che invece il fratello non c'è.  E probabilmente ha preso una differente nave diretta a New York. 

Lungo il percorso Hakan scopre anche - complici le difficoltà della lingua (parla solo lo svedese e non capisce una parola di inglese) che la sua nave non è diretta a New York, ma a San Francisco, doppiando il capo Horn e la Terra del Fuoco.

Da qui ha inizio il lunghissimo e allucinante viaggio - a cavallo, a piedi, sull'asino - del povero Hakan verso oriente, nel tentativo di raggiungere New York e ricongiungersi con Linus. 

Il motore del romanzo dunque, è quello giusto (quello che Hitchcock chiamava il Mc Muffin), ma l'attenzione del lettore è tradita dall'estenuante sviluppo della vicenda che si snoda in bizzarri incontri, stermini altrettanto casuali, sezionamenti di cadaveri, sete, fame, caccia all'uomo attraverso il deserto, una fuga interminabile in cui al centro c'è soltanto il paesaggio.  

Una specie di Into the wild  tradotto sulla pagina (e riecheggiato anche nel titolo originale), che però scolorisce e non avvince, pagina dopo pagina; verso un malinconico finale che non termina nulla e tradisce ogni aspettativa del lettore. 

Insomma, una occasione mancata.  Forse, per poter diventare un grande romanzo, a questo Falco (il titolo italiano si riferisce al soprannome dato a Hakan dagli americani che non sanno pronunciare il suo nome svedese lo arrangiano in Hawk, cioè Falco), mancava poco. 

Forse un po' più di coraggio all'autore, troppo occupato ad esibire la sua bravura. 

P.S. l'edizione italiana del libro è macchiata da un clamoroso errore tipografico, laddove a pag. 236 viene ripetuto per intero un lungo brano contenuto in un paio di pagine precedenti del romanzo. Una gaffe non degna di un editore come Neri Pozza. 

Fabrizio Falconi



27/05/18

La Pagina della Domenica: da "Everyman" di Philip Roth.



Intorno alla fossa, nel cimitero in rovina, c’erano alcuni dei suoi ex colleghi pubblicitari di New York che ricordavano la sua energia e la sua originalità e che dissero alla figlia, Nancy, che era stato un piacere lavorare con lui. C’erano anche delle persone venute su in macchina da Starfish Beach, il villaggio residenziale di pensionati sulla costa del New Jersey dove si era trasferito dal Giorno del Ringraziamento del 2001: gli anziani ai quali fino a poco tempo prima aveva dato lezioni di pittura

E c’erano i due figli maschi delle sue turbolente prime nozze, Randy e Lonny, uomini di mezza età molto mammoni che di conseguenza sapevano di lui poche cose encomiabili e molte sgradevoli, e che erano presenti per dovere e nulla più. C’erano il fratello maggiore, Howie, e la cognata, venuti in aereo dalla California la sera prima, e c’era una delle sue tre ex mogli, quella di mezzo, la madre di Nancy, Phoebe, una donna alta, magrissima e bianca di capelli, col braccio destro inerte penzoloni sul fianco. 

Quando Nancy le chiese se voleva dire qualcosa, Phoebe scosse timidamente il capo, ma poi finì per dire con voce sommessa, farfugliando un po’: – È talmente incredibile… Continuo a pensare a quando nuotava nella baia… Tutto qui. Continuo solo a vederlo mentre nuota nella baia -. E poi c’era Nancy, che aveva organizzato tutto e fatto le telefonate a quelli che erano venuti per evitare che al funerale venissero solo sua madre, lei, il fratello del defunto e la cognata. 

C’era solo un’altra persona la cui presenza non era stata sollecitata da un invito, una donna robusta con una simpatica faccia tonda e i capelli tinti di rosso che era venuta spontaneamente al cimitero e si era presentata col nome di Maureen, l’infermiera privata che lo aveva assistito dopo l’operazione al cuore di qualche anno prima. Howie si ricordava di lei e andò a darle un bacio sulla guancia.

Nancy disse a tutti: – Posso iniziare dicendovi qualcosa di questo cimitero, perché ho scoperto che il nonno di mio padre, il mio bisnonno, non solo è sepolto nelle poche centinaia di metri quadrati del nucleo originario accanto alla mia bisnonna, ma fu anche uno dei suoi fondatori nel 1888. L’associazione che per prima finanziò ed eresse il cimitero era composta dalle società incaricate delle onoranze funebri delle organizzazioni caritatevoli e delle congregazioni ebraiche sparse nelle contee di Union ed Essex. Il mio bisnonno era il proprietario e il gestore di una pensione di Elizabeth che accoglieva soprattutto immigrati arrivati di fresco, e si preoccupava del loro benessere piú di quanto in genere facesse un possidente. Ecco perché fu tra i soci originari che acquistarono il campo che c’era qui e lo spianarono e lo disegnarono personalmente, ed ecco perché diventò il primo presidente del cimitero. Allora era un uomo relativamente giovane ma nel pieno vigore delle forze, e c’è solo il suo nome sui documenti nei quali si specifica che il cimitero era destinato ad «accogliere i soci defunti in armonia con le norme e i riti ebraici»

Come appare fin troppo evidente, la manutenzione dei singoli lotti e del recinto e dei cancelli non è piú come dovrebbe essere. Le cose sono marcite e crollate, i cancelli sono arrugginiti, i lucchetti spariti, ci sono stati dei vandalismi. Ormai questo posto è diventato il retrobottega dell’aeroporto, e quello che sentite a qualche miglio di distanza è il rumore costante dell’autostrada, la New Jersey Turnpike. 

Naturalmente avevo pensato, prima, ai posti veramente belli dove mio padre poteva essere sepolto, i posti dove andava a nuotare con mia madre quando erano giovani, e le località costiere dove amava fare il bagno. 

Ma nonostante il fatto che guardarmi intorno e vedere il degrado che c’è qui mi spezza il cuore – come probabilmente spezza il vostro, e forse addirittura vi spinge a domandarvi perché ci siamo riuniti in un luogo cosí deturpato dal tempo – volevo che riposasse accanto alle persone che lo amavano e dalle quali è disceso. Mio padre amava i suoi genitori e deve stare vicino a loro. Non volevo che fosse solo, chissà dove -. Tacque un momento per ritrovare la padronanza di sé. 

Era una donna fra i trenta e i quarant’anni, dall’aria dolce, semplice e carina com’era stata la madre, e all’improvviso perse tutta la sua autorevolezza e il suo coraggio e finì per somigliare a una bambina di dieci anni schiacciata da quella situazione

Voltandosi verso la bara, prese una manciata di terra e, prima di lasciarla cadere sul coperchio, disse con leggerezza, sempre con quell’aria da bambina frastornata: – Be’, cosí vanno le cose. Non c’è piú niente da fare, papà -. Poi le venne in mente la stoica massima che lui ripeteva decenni addietro, e scoppiò in lacrime. – È impossibile rifare la realtà, – gli disse. – Devi prendere le cose come vengono. Tener duro e prendere le cose come vengono.


Philip Roth, Everyman (2006). Edizione italiana di riferimento: P.R., Everyman. Traduzione di Vincenzo Mantovani, Einaudi 2007, pp. 5-8

10/11/17

Il Libro del Giorno: "La regina degli scacchi" di Walter Tevis. Un grande romanzo.



Scritto nel 1983, La Regina degli Scacchi (The Queen's Gambit) è il capolavoro di Walter Tevis, morto l'anno seguente, e il suo penultimo romanzo. 

Autore raffinato e appartato Tevis ha scritto una raccolta di racconti e sei romanzi, i quali hanno avuto molta fortuna, con celebri adattamenti cinematografici, come quelli tratti da L'uomo che cadde sulla Terra, scritto nel 1963 e portato sullo schermo da Nicholas Roeg (con Bowie protagonista), Lo spaccone (1959), diventato un classico del cinema con Paul Newman protagonista e Il colore dei soldi (1984), il suo ultimo romanzo, trasposto al cinema da Martin Scorsese, ancora con Newman protagonista e il giovanissimo Tom Cruise. 

La Regina degli Scacchi però, merita un posto a parte. 

Si tratta di un romanzo perfetto, che ha come protagonista l'orfana Beth Harmon e ne segue passo passo le vicende dalle stanze dell'oscuro orfanotrofio cattolico nel quale viene accolta dopo la morte dei genitori, fino ai palcoscenici più illustri del gioco degli scacchi, nel quale si dimostra precocemente un puro genio.

Beth inizia a giocare quasi per caso, quando scopre nello scantinato della scuola, il vecchio e burbero custode giocare da solo davanti alla scacchiera al lume di una fioca lampada.

Come avviene per i colpi di fulmine dell'anima descritti da James Hillman ne Il codice dell'anima, Beth si sente risucchiata da quello strano oggetto - la scacchiera - e dalla dinamica misteriosa del gioco. Impara in breve tempo, in breve tempo il suo cervello comincia a concentrarsi unicamente su quello. Riesce a battere in poco tempo il suo maestro, poi vola rapidamente sempre più alto, imparando da un manuale trafugato i rudimenti del millenario gioco.

Una volta adottata dalla stramba signora Withley e dal suo pessimo marito, Beth comincia a giocare ad alto livello: torneo dopo torneo, anche i media cominciano ad accorgersi di lei e negli anni '60-'70 in cui il libro è ambientato, Beth finisce addirittura per diventare - a soli sedici anni - l'orgoglio della nazione americana che ha finalmente un grande maestro da opporre agli invincibili dominatori sovietici.

Il pregio di questo meraviglioso libro - la Regina degli Scacchi è fra l'altro una impropria traduzione italiana del titolo originale che è The Queen's Gambit (Il gambetto della Regina è una mossa degli Scacchi) - è soprattutto nello stile e nella narrazione fulgida ed essenziale che ricorda un altro capolavoro coevo, Stoner di  John Williams, da poco riscoperto e diventato un caso editoriale mondiale.

Non ha cadute, non ha pause, e tutto procede come un treno senza fermate fino alla fine. Beth è un commovente, vivo personaggio, che resta nel cuore di ogni lettore. Tevis riesce a mantenersi così neutro da evitare ogni smaccata empatia, ogni partecipazione eccessiva con il suo personaggio, che vive di vita propria e non ha bisogno di nessuna sovrastruttura, di nessuna costruzione narrativa.

Così anche il lettore è costretto ad osservarla, senza "tifare": per molte e molte pagine il lettore non sa anzi se sperare che Beth vinca o perda. E' chiaro che vincere per lei, e vincere fino alla fine, trionfando nella partita finale contro il campione del mondo russo Borgov sarebbe l'apoteosi di un riscatto esistenziale. Ma dietro questo successo si nascondono anche molte ombre e gli scacchi - come l'insegnamento universitario per Stoner - sono anche un modo per Beth per eludere la vita, per non affrontarla veramente, per attenuarne le feroci sofferenze.

Il fatto però che la ragazza sopravviva così strenuamente alla autodistruzione è plausibile e catartico.  E' una lezione anzi, che oggi sembra più che mai importante.

Anche i personaggi di contorno sono fenomenali: l'amica di orfanotrofio Jolene, la madre adottiva, così fragile e vera, la signora Withley,  il Signor Schaibel, il custode, , e lo stesso Benny, ragazzo prodigio come Beth e come lui autisticamente isolato dal mondo.

Un romanzo veramente perfetto.

Fabrizio Falconi

WALTER TEVIS
LA REGINA DEGLI SCACCHI
Traduzione dall'inglese di Angelica Checchi
Minimum Fax, Roma, 2007-2014.



16/04/16

"Purity" di Jonathan Franzen (RECENSIONE).




Premetto: il nuovo Franzen mi ha deluso consistentemente. 

E qui spiego perché.  Non si tratta di discutere dello straripante talento di Franzen, della sua abilità e complessità stilistica, che gli hanno dato fortuna e celebrità (con tutto quel che ne consegue al punto che oggi è difficile parlare di lui, perché come ogni fenomeno troppo popolare, ci si distingue aprioristicamente in partiti a favore e contro).  Da questo punto di vista credo che Franzen superata la soglia dei 55,  non debba dimostrare nient'altro.

E il suo romanzo è come sempre un meccanismo di altissima precisione, perfettamente oliato, dove tutto funziona o sembra funzionare a dovere. 

Nell'arco di 642 pagine - Franzen ha dichiarato recentemente di non riuscire a scrivere romanzi brevi, che il lungo è il suo formato naturale - Purity mette in scena di tutto: almeno quattro personaggi protagonisti (la prima, la ragazza chiamata Purity o Pip, in esplicito omaggio dickensiano), una ventina di personaggi secondari, trame e sottotrame che si rincorrono, racconti in prima persona, diari, messaggi, mail, flashbacks a profusione, ganci  per lasciare il lettore in sospeso alla fine di ogni capitolo, sei parti, ciascuna funzionante come una novella autonoma, colpi di scena efficacissimi, come quello di pag. 265, che scoperchia il romanzo. 

La storia è stata descritta ampiamente sui giornali, sugli inserti, sui siti: si comincia con la giovane Purity, ragazza neolaureata che vive in una sorta di casa-comune, in povertà, con i debiti accumulati per studiare che non sa come pagare.  Della madre sappiamo che ama smisuratamente sua figlia ma per qualche motivo misterioso le nasconde l'identità del padre - e anche del resto della sua famiglia. Anche lei vive ai margini, con un lavoro di commessa, psicologicamente fragilissima. 

La caratteristica di Purity, come già accadeva in Correzioni e in Libertà, è quella di lasciare ad un certo punto quello che si presume essere il protagonista, e andarsene apparentemente altrove (non è così ovviamente).  Ecco dunque che a metà del libro, a pag. 352- ma era successo già precedentemente nella parte La repubblica del cattivo gusto - Purity viene abbandonata al suo destino, dopo che ne abbiamo seguito le tracce prima a Denver, come stagista per il quotidiano locale indipendente locali, e poi in Bolivia, adepta del Sunlight Project, una sorta di Wikileaks creata dallo spregiudicato Andreas Wolf (una sorta di via di mezzo tra Julian Assange e Snowden). 

Nella seconda parte del romanzo Pip scompare. E tutta l'attenzione di concentra su Wolf (di cui abbiamo già conosciuto le radici, nella parte ambientata nella DDR dove abbiamo scoperto che è anche un assassino, anche se apparentemente per amore della giovane Anngret) e su Tom Aberant (due cognomi molto espliciti, il primo il Lupo, il secondo un Aber(r)ant), il direttore del Denver Indipendent, che ha conosciuto Wolf anni prima in Germania, e di cui custodisce l'inconfessabile segreto. 

E' proprio questa la parte debole del romanzo.  Franzen è superficiale, indugia con cinismo su Wolf e sulla sua lucidissima follia, e su Tom e le sue vergognose ipocrisie, tra la ex moglie psicotica, Anabel,  e la nuova compagna, la giornalista in carriera Leila. Gira sostanzialmente a vuoto, con l'obiettivo fin troppo dichiarato di dimostrare che la purezza non esiste, i segreti fanno parte della identità costituiva di tutti, il web è un mondo sporco forse anche più del mondo che pretende di ripulire, le amicizie non esistono, tutti tradiscono tutti. 

Il Gioco è esplicito, l'architetto del pregevole meccanismo (Franzen) è sempre al centro, esibendo le qualità della narrazione e compiacendosi di esse, mentre manca del tutto l'ironia (che in Libertà era felicemente dispensata) che rende pietoso il racconto, e possibile l'empatia del lettore. 

Alla fine della lettura si ha un senso di vuoto: la storia non ci ha dato niente, c'è l'impressione che Franzen sia rimasto vittima del suo stesso meccanismo e che la preoccupazione di dire qualcosa (molto di quello che già si sa sulla solitudine, sul mondo di internet, sulle anime sempre più connesse e sempre più disorientate) abbia prodotto il risultato di non dire nulla (o almeno nulla di nuovo). 

Gli amanti di Franzen ritrovano tutte le sue ossessioni (la mancanza e il dolore familiare, l'ornitologia, il sesso); in compenso i personaggi maschili sono terrificanti e il romanzo in molte pagine esprime una concezione totalmente maschilista del presente (le donne sono quasi tutte geishe devote in adorazione del maschio scopatore, o psicolabili irrecuperabili). 

Insomma alla fine l'unica cosa che si ammira veramente è la struttura narrativa insieme alla brillantezza dei dialoghi, alla acutezza e alla genialità delle sentenze.  Ma Purity è un romanzo che si avvicina di più a Donna Tart (e alla sua superficialità ben commerciale) piuttosto che ai grandi maestri del Romanzo Americano ai quali Franzen esplicitamente tenta e dice di ispirarsi (primo fra tutti l'inarrivabile Saul Bellow che in Purity viene continuamente evocato con uno dei suoi romanzi più grandi, Le avventure di Augie March): in effetti la differenza tra un Bellow e un Franzen è tutta qui. Bellow ha scritto una ventina di romanzi, tutti allo stesso livello di eccellenza e senza che il suo io (pure piuttosto consistente) divenisse mai l'esplicito referente della tecnica narrativa; Franzen, giunto alla terza prova della maturità scivola nell'ovvio e commette la presunzione di salire sulla ribalta più di quanto la sua nuova storia riesca mai a fare. 


Fabrizio Falconi (C) - 2016 riproduzione riservata



09/11/15

"La fonte meravigliosa" di Ayn Rand, un romanzo totale. (Recensione)




Chi è alla ricerca di un libro capace di catturare completamente, aprendo scenari e riflessioni di vita interiore, insomma un libro di quelli che nella vita di un lettore restano a lungo, può affrontare senza esitazione le seicento pagine de La fonte meravigliosa (The Fountainhead), il romanzo scritto in pieno conflitto mondiale, nel 1943, da Ayn Rand, che anche se oggi piuttosto dimenticato, ebbe grandissima eco, con quasi 6.5 milioni di copie vendute nel mondo, grazie anche al successo del celebre film che ne fu tratto nel 1948 con  Gary Cooper protagonista.

Ayn Rand – al secolo Alissa Zinovievna Rosenbaum, originaria di San Pietroburgo - si era trasferita negli Usa nel 1925 a causa dei rovesci finanziari familiari causati dalla Rivoluzione d'Ottobre e oggi 
viene considerata uno dei maggiori filosofi americani del Novecento, anche se il suo nome e le sue dottrine, in altra epoca molto diffuse, oggi hanno conosciuto contrasti e offuscamento. 

Ayn Rand riuscì a pubblicare il romanzo dopo ben 12 rifiuti di editori importanti.  Ma alla sua uscita il successo fu enorme, incarnando in fondo quello che era il significato profondo del libro, l'affermazione della individualità creativa umana e del talento personale contro ogni gretta costrizione della società e dei sistemi. 

In questo senso La fonte meravigliosa disegna un vero e potente affresco alla voglia di affermazione della libertà dell'animo umano: della sua indipendenza, anticonformismo, insofferenza alle costrizioni, capacità di rompere con le convenzioni e il quieto vivere o viceversa del bisogno di adeguarsi alla maggioranza.

Il libro si incentra sulla figura del giovane Howard Roark, ispirata per stessa ammissione della scrittrice su quella di uno dei più grandi architetti del Novecento, Frank Lloyd Wright, seguendone le orme da quando, all'inizio della storia viene espulso dalla Scuola di Architettura dell'Istituto di Tecnologia di Stanton, proprio alla vigilia della laurea per le sue idee rivoluzionarie che rifiutano i canoni neoclassici e caldeggiano il ricorso a linee moderne, tecnologiche, ardite. 
Roark ha appreso queste idee dalla voce del suo talento ma anche dall'esempio anticonformista del suo maestro, Henry Cameron, genio dell'Architettura moderna finito in disgrazia.
Il deuteragonista è invece Peter Keating, compagno di corso di Roark, suo amico eppure suo opposto, animato da ambizione sfrenata, ma senza talento, e con la capacità di adattarsi senza problemi a qualunque imposizione esterna, specie quella del grande studio dell'architetto Francon - molto à la page - presso il quale lavora.
  
Altri tre grandi protagonisti della storia sono la figlia di Francon, la bellissima Dominque (che si innamora di Howard, ricambiata, anche se il loro rapporto va incontro a ostacoli di ogni tipo), il giornalista Ellsworth Tookey, vero e proprio genio del male, esperto e critico di architettura, che blandisce Dominque e cerca di manipolarla, e l'editore di giornali Gail Wynand, che si è fatto dal nulla e ha costruito un impero editoriale con riviste popolari. 

Sarà proprio lui a sposare Dominique (dopo il primo matrimonio di lei con Keating) e a dialogare con Howard sui differenti modi di realizzare se stessi, contro le muraglie imposte dal sistema. 

Roark dovrà attraversare una personale via crucis per affermarsi, ma alla fine il suo talento individuale purissimo, e la sua idealità romantica verranno ricompensati. 
Il prezzo da pagare però è molto duro. 

Ayn Rand ha intessuto il romanzo delle sue convinzioni filosofiche: l'avversione nei confronti delle masse, la convinzione che soltanto dall'inseguimento delle proprie roccaforti interne - e dalle relative zone d'ombra - sia possibile emanciparsi e raggiungere il frutto vero della esperienza umana: quello delle proprie capacità, della missione unica che ci è stata concessa. 

In questo senso appare perfino crudele il fatto che anche i sentimenti siano relegati e asserviti all'ideale che è ben più importante.

Alla fine il romanzo vira su tirate idealistiche forse datate.  Ma in Europa, al contrario degli Stati Uniti - dove la fama esagerata conquistata dal romanzo ha generato un culto esasperato che ruota intorno all'apologia del liberismo sfrenato - La fonte meravigliosa può essere apprezzato ancora per quello che è: una straordinaria storia che fa  muovere personaggi indimenticabili e li fa vivere nella coscienza e nei pensieri del lettore molto a lungo. 

Fabrizio Falconi 



26/10/15

'Le correzioni' di Jonathan Franzen (Recensione).



E' sempre difficile recensire un libro che ha avuto così grande successo. Come è capitato a Le Correzioni (The Corrections, 2002), con il quale Jonathan Franzen ha vinto il National Book Award e che gli ha assicurato la notorietà internazionale. 

Il romanzo è stato pubblicato in Italia da Einaudi nell'ottima traduzione di Silvia Pareschi (ma con una copertina incredibilmente fuorviante: l'infanzia in questo libro non ha alcuna rilevanza, gli unici personaggi bambini, i figli di Gary, non entrano mai a pieno titolo nella narrazione).

Si tratta di un romanzo compiuto e felice, sebbene di contenuto molto duro e lucido.  Franzen affronta il preferito tema della famiglia (tornerà anche nel romanzo seguente, Libertà) e della sua apparente disgregazione e inaspettata sopravvivenza. 

La famiglia di Franzen è composta da due anziani genitori, la materna e fragile Enid e il roccioso Alfred, alle prese con l'avanzamento letale del Parkinson e con il disfacimento fisico e psichico. 

I tre figli della coppia sono - nell'ordine in cui il romanzo ce li presenta, in parti apparentemente distinte - Chip, insegnante licenziato e sceneggiatore fallito, il più irregolare dei tre, sempre attratto dalle donne e da una improbabile affermazione personale; Gary, il più regolare, sposato con la bella Caroline e padre di tre figli;  e Denise l'unica femmina, provetta cuoca e dilaniata dal una sessualità confusa (divisa tra l'attrazione per gli uomini e per le donne). 

Come sempre in Franzen, l'architettura del romanzo è prodigiosa.  In parti solo formalmente separate, si intrecciano le storie reciproche dei figli e dei genitori, con continui flash back e flash forward che danno al racconto una incontenibile forza fluida. 

Franzen ha il pregio di non assumersi mai il ruolo di giudice morale di quanto racconta.  Le sue considerazioni di narratore sono lievi, ironiche e non entrano mai nel merito dei destini individuali. 

L'orizzonte è confuso. Quel che resta della famiglia americana (e occidentale) è un grumo di sentimenti contrastanti: odio feroce, irrequietezza e forza del vincolo, che prevale o sembra prevalere su ogni istanza individuale dei protagonisti. 

Con la pazienza di un entomologo, Franzen dispone il catalogo delle personalità - e delle ferite che stanno alla base di queste - e risale al vizio ante-litteram del matrimonio generante (quello tra Enid e Alfred) fondato su un gigantesco equivoco: Enid ama il corpo di Alfred e vorrebbe essere riamata per quello che è; ma Alfred è un ostinato, che continua a ripetere il suo no alla vita, fino all'ultimo istante.

Questo no di Alfred pesa come un macigno anche sulle cronistorie dei figli, sui loro destini irrisolti. Anche e specie in quello di Gary, che sembra quello meglio sistemato e che invece è il più frustrato di tutti (e il più insopportabile nella sua presunzione di sapere sempre cosa è meglio e di poter dare ordini agli altri). 

Franzen racconta questi personaggi con enorme com-passione. Indugia a volte troppo, si esercita qui e là nell'auto-compiacimento di chi sa di disporre di tutti i mezzi narrativi. Ma in fondo non bara mai. E' cosciente e responsabile, lascia i personaggi agire, li osserva li perdona e li ama, come avveniva nella lezione del più grande dei narratori, Tolstoj. 

Il grande piacere della lettura - pur nel livello quasi straziante delle disperazioni personali - è forse dovuto proprio a questo. E non decade mai, fino al punto finale (che spetta, come sempre, alla morte). 

Fabrizio Falconi 
(C) - 2015 riproduzione riservata.


10/02/15

Saul Bellow: "Il mio lavoro è essere me stesso."



"Ho delle risposte e ho anche delle domande, e con questo voglio dire che ho smesso da un po' di cercare qualcosa di definitivo.  Ho l'impressione di credere in cose in cui non ho mai pensato di credere, e che agiscono che io voglia o no. Quindi non si tratta di rifletterci sopra, ma di imparare a conviverci. 


E bisogna accettare il fatto che stai cercando di convivere con le preferenze o con le decisioni segrete di cui un modo o nell'altro non sei mai riuscito a liberarti. E non te ne libererai mai. Adesso lo sai. Per esempio, ho smesso di tormentarmi riguardo alla fede in Dio. Non è una domanda vera.


La domanda vera è: "Come mi sono sentito in tutti questi anni?" e "In questi anni ho creduto in Dio?" tutto qui. Cosa ci puoi fare ? Non si tratta dunque di liberare l'intelletto dai vincoli, si tratta innanzitutto di cercare di decidere se la fede sia un vincolo e poi accettare ciò in cui si crede, perché per ora è ciò che possiamo fare." 

Allora torniamo alla scrittura, la tua immagine...

"Il mio lavoro è essere me stesso. E nell'essere me stesso divento un fenomenologo elementare, o fondamentale.   
Ed è così che faccio tornare i conti, prima di andarmene.  Mi chiedi cosa significa essere un artista. Prima di tutto vedi ciò che non hai mai visto prima; hai aperto gli occhi e c'era il mondo; il mondo era un posto molto strano; ne hai ricavato la tua versione, non quella di qualcun altro; e sei rimasto fedele alla tua versione e a quello che hai visto.  Credo che, in senso personale, sia questa la radice del mio essere scrittore. E tu sai perfettamente di cosa sto parlando."

Cosa pensi del mondo?

"Be' posso dire senza alcun problema che non credo che il mondo si sia sviluppato o evoluto in maniera casuale e non diretto da una intelligenza superiore.
Non può essere stato casuale.  Una volta ho avuto una discussione con un famoso biologo che sosteneva: " Se c'è abbastanza tempo può accadere in base a un processo casuale, e visto che sono passati miliardi e miliardi di anni, il tempo c'è stato."  Io ho risposto: "Sufficiente a spiegare l'equilibrio ormonale nel corpo di una donna incinta ? Aleatorio ? Io non credo."  Non credo che sia andata così, questo è il mio scetticismo naturale, diretto contro la scienza, non contro la religione.

Ci fu una famosa controversia, forse un litigio tra Einstein e Bohr. Bohr aveva una visione diversa - sul grande gioco della natura, sul fatto che sia casuale - ed Einstein gli disse: "Senti, io non credo. Sono d'accordo che Dio giochi, e quel gioco non lo capiamo, ma sappiamo comunque che si tratta di un gioco."

"Sì adesso me lo ricordo. Non dico che le conclusioni cui sono giunte siano quelle corrette.  Quello che dico è che è arrivato il momento di fingere che io non ci creda.  In un certo senso ci credo. Uso la conoscenza che ho accumulato in ottantacinque anni. Lo applico a queste domande e mi dico: come può tutto questo essere il risultato di miliardi di episodi casuali ? E' impossibile."



Tratto da Saul Bellow, "Prima di andarsene", Una conversazione con Norman Manea, Il Saggiatore, 2013.