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29/01/24

"Quintetto Romano" - cinque racconti di Raoul Precht che diventano un romanzo (su Roma)

 




"Roma assegna a ciascuno il proprio posto", così scriveva Ludwig Feuerbach, uno dei tanti uomini illustri stregati dalla magia di Roma, quando gli capitò di visitarla. 

E' qualcosa che viene in mente quando si legge il nuovo libro di Raoul Precht, uno dei più interessanti autori italiani (anche se vive in Lussemburgo), recentemente finalista al Premio Comisso, con il suo Stefan Zweig - L'anno in cui tutto cambiò (Bottega Errante, 2023).

Lettore accanito e studioso quasi onnivoro, Precht con questo libro - dalla classificazione piuttosto difficile - sceglie dal mazzo dei suoi autori preferiti (o inseguiti o ammirati), con gusto eterogeneo, cinque grandi, uniti da un fil rouge  "territoriale", ovvero accumunati dalla stessa esperienza di aver attraversato la Città Eterna, di averla visitata, di averci vissuto per qualche tempo o esserci semplicemente capitato per un breve viaggio, e comunque, di esserne stati trasformati, come è successo a tanti, in ogni epoca, prima di loro. 

Questo sottile fil rouge - apparentemente labile - diventa invece consistente durante la lettura perché lo "sguardo emotivo" come direbbe Wim Wenders di questi grandi scrittori, intercetta anche senza volerlo, l'essenza impalpabile di Roma, quella che - faceva notare Georg Simmel - si esprime attraverso l'accostamento "casuale" di cose e resti che come relitti si abbinano insieme, a Roma costituendo qualcosa di nuovo e di diverso rispetto alle parti singole. Qualcosa di quasi organico se è vero, come sottolineava Sigmund Freud (anche lui ammaliato da Roma), che l'Urbe assomiglia ad una entità psichica, dove ad ogni strato, ad ogni epoca, ad ogni livello di rovine, corrisponde un livello psichico, dall'esteriorità del carattere (la superficie, il caos quotidiano) fino all'inconscio più profondo delle catacombe, dei mitrei, delle cavità inesplorate. 

E' dunque un viaggio "dell'anima" quello di cui Precht si fa voce, reinventando (sempre sulla base di rigorosissimi referti "veri", cioè lettere, racconti personali, diari, biografie dei 5 diversi autori) una sorta di "romanzo collettivo" o "a più voci", che nell'ambito di racconti contingenti - le "panzane" di Stendhal sulla sua qualità di testimone del celebre e disastroso incendio di San Paolo fuori le Mura o il seppellimento di un topolino nel prato di Villa Borghese compiuto un giorno da John Cheever - costituiscono un continuum dentro il quale si finisce per abbandonarsi. 

I cinque autori scelti da Precht - ciascuno portatore della sua voce e del suo contributo - sono Stendhal, Nikolaj Gogol, Romain Rolland, Malcom Lowry e John Cheever e l'intervallo di tempo che coprono i loro soggiorni vanno, in ordine cronologico, dal 1823 (quello di Stendhal) al 1956 (quello di Cheever). 

I cinque "racconti" scritti da Precht, tutti senza dialoghi, alcuni in prima persona (Stendhal mediante una lunga lettera "inventata" ma del tutto realistica), altri in terza persona, non hanno però lo scopo di imitare lo stile e la voce degli autori (tranne forse Stendhal per la necessità di dover scrivere una lettera "come avrebbe fatto lui"), quanto di aggiungere una interpretazione, di leggere attraverso la lente di ingrandimento della Città - Roma (che Precht ama (pur odiandola, a volte, come tutti quelli che la amano) e in cui è nato - i mutamenti impercettibili, gli spostamenti interiori, subiti da queste cinque grandi anime, come una sorta di redde rationem delle loro vite. 

Nel primo racconto, dunque, Stendhal scrive una lettera apocrifa alla sua amica Clémentine Curial, descrivendo scene di vita vissuta e popolare, descrivendo l'impressione delle maestose rovine, in particolare di quelle lasciate appunto dall'incendio della Basilica di San Paolo avvenuto nel luglio del 1823; nel secondo racconto Nikolaj Gogol descrive i piaceri culinari della Roma dell'epoca, la sua frequentazione della nutrita comunità russa che lì vive o è di passaggio, le esperienze nei salotti romani dove gli capita di incontrare e di fare conoscenza con Giuseppe Gioacchino Belli; nel terzo racconto Romain Rolland è alle prese con i continui paragoni che Roma gli suscita con Parigi, mentre soggiorna nello splendido Palazzo Farnese grazie alla borsa di studio ricevuta dell’Ambasciata francese; nel quarto racconto, quello relativo a Malcolm Lowry è di scena invece la Roma del dopoguerra, misera e stracciona, che lo scrittore inglese attraversa immerso in una sorta di febbre etilica, come un antesignano del Toby Dammit felliniano; nel quinto racconto, seguiamo invece John Cheever mentre sta cercando di seppellire il cadavere di un topolino, anzi di una topolina bianca a Villa Borghese, compagna di giochi del figlio. E anche per Cheever questa strana peregrinazione finisce per diventare una sorta di bilancio personale della sua vita, dei rapporti che è stato capace di tessere con le persone che ama, con i suoi fallimenti, con le mancanze. 

Insomma, la polifonia che Precht mette in piedi, in questo romanzo lungi dall'essere dissonante, riesce a ricreare proprio quel magico, imprendibile equilibrio caratteristico di Roma, di cui parla Simmel, quello di tenere insieme, accostate le une alle altre cose che sembrano molto diverse, ma che insieme formano qualcosa di nuovo e di diverso. Proprio grazie alla linfa vitale della Città che da tremila anni non fa che produrre - e raccontare - storie. I cinque protagonisti scelti da Precht - e la voce stessa di Precht che li racconta a Roma - sono un nuovo capitolo di un romanzo più grande che non si sa dove sia cominciato e che non è ancora finito. E di cui il libro di Precht è pienamente degno. 

25/08/23

"Il senso di una fine", il meraviglioso romanzo di Julian Barnes diventa un film, con Charlotte Rampling - su Amazon Prime Video


E' sempre molto difficile portare sullo schermo un romanzo importante. Ancora di più se si tratta di un romanzo "perfetto", uno dei migliori scritti nell'ultimo ventennio: "Il senso di una fine", di Julian Barnes (Einaudi, 2011), vincitore del Man Booker Prize 2011.

Come si fa a trasferire sullo schermo la magia della prosa di Barnes, che in sole 160 pagine costruisce una tragedia in due atti (o parti) sul mistero degli affetti umani, con uno straordinario colpo di scena che si rivela solo nelle ultime 3 pagine?
In Inghilterra ci ha provato la rete nazionale (BBC), che a differenza di quel che accade da noi, non manda in onda solo quiz dementi e show di imitatori, ma propone e produce anche alta qualità cinematografica, seriale, documentaristica.
Il film è uscito nel 2017, anche se in Italia nessuno lo ha visto (naturalmente i titolisti italiani hanno pensato bene di stravolgere il titolo originario, sia del romanzo che del film - che è "The Sense of an Ending" , letterariamente "Il senso di un finire", o "Il senso di una fine", come è stato tradotto da Einaudi - in "L'altra metà della storia").
Il cast è di primo livello, con Charlotte Rampling nei panni della misteriosa Veronica (da anziana) e Jim Broadbent in quelli di Tony Webster, che con Veronica ha avuto una incompiuta storia d'amore, ai tempi del college. Nel cast anche Michelle Dockery (la Lady Marian di Downton Abbey) e Joe Alwyn (visto recentemente in Conversazione tra amici, la serie tratta dal romanzo di Sally Rooney), nei panni di Adrian, l'amico di college di Tony, misteriosamente suicidatosi da giovane.
Per misurarsi con un romanzo così intenso e denso, il film non se la cava male (la regia è dell'indiano Ritesh Batra), ma lasciano a desiderare i tempi morti, i dialoghi irrisolti, il finale da "happy ending" che non è affatto quello del romanzo.
La Rampling praticamente appare in tutto in 4 scene, anche se bastano per manifestare il suo inquietante talento; le musiche di Max Richter sono molto belle; la Londra del film è come sempre, piovosa e malinconica (come si addice al mood della storia).
Barnes non è intervenuto nella sceneggiatura, che è del solo Nick Payne, il quale ha dilatato (troppo) l'attesa che si respira nel romanzo, stemperandone anche (purtroppo) l'inquietudine.
Complessivamente, tenendo conto delle suddette difficoltà, un film che supera la prova. Il romanzo, però, è - come sempre - un'altra cosa.

01/07/23

"Il Dono Perfetto" - L'intervista di Giovanna Bandini a Fabrizio Falconi per il nuovo romanzo - VIDEO

 Da ieri, 30 giugno, è in libreria Il Dono Perfetto, il nuovo romanzo di Fabrizio Falconi. Qui brevi clip dall'intervista realizzata da Giovanna Bandini con Dario Pettinelli, per Il Momento Perfetto - ItaliaTv

 



   
   
 QUI SOTTO il PODCAST completo dell'intervista: 

   

Il Dono Perfetto è nelle librerie e online in vendita su Amazon e su ogni libreria online. Infine anche in vendita online sul sito della casa editrice (SANTELLI).



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29/06/22

Elogio di James Salter, un grande scrittore americano che merita di essere scoperto



Ha scritto soltanto sette romanzi, nella sua vita ma James Salter è uno degli scrittori più interessanti del Novecento americano, anche se purtroppo da noi è ancora poco conosciuto. 

Tra gli editori, non solo italiani, va di moda il detto secondo cui Salter è "il tipico scrittore che piace molto agli scrittori", con questo intendendo implicitamente che forse non è adatto ai gusti di un pubblico ampio. 

Ma non è così. Tra le molti doti, la prosa di Salter, ha quella di poter essere apprezzata da chiunque, senza per questo essere facile o banale. 

Ma chi è James Arnold Horowitz che prese il nome d'arte di James Salter? 

E' nato nel New Jersey nel 1925, e morto pochi anni fa, il 19 giugno 2015.

Ex ufficiale di carriera e pilota dell'Aeronautica Militare degli Stati Uniti , si dimise dall'esercito nel 1957 in seguito alla pubblicazione di successo del suo primo romanzo, I cacciatori

Dopo una breve carriera nella sceneggiatura e nella regia cinematografica, nel 1979 Salter pubblica il romanzo Solo Faces. Ha vinto numerosi premi letterari per le sue opere, compreso il tardivo riconoscimento di opere originariamente criticate al momento della loro pubblicazione. 

Suo padre era un agente immobiliare e uomo d'affari che si era laureato a West Point nel novembre 1918 e aveva prestato servizio nel Corpo degli ingegneri sia con l'esercito che con la riserva dell'esercito. 

Il giovane James, sebbene avesse intenzione di studiare all'Università di Stanford o al MIT, entrò a West Point il 15 luglio 1942, su richiesta del padre, che si era arruolato nel corpo degli ingegneri nel luglio 1941, in previsione dello scoppio della guerra.

Come suo padre, il tempo trascorso a West Point da Horowitz fu breve a causa dell'aumento delle classi in tempo di guerra e della drastica riduzione del programma di studi. Si diplomò nel 1945 dopo soli tre anni, classificandosi al 49° posto per merito generale nella sua classe di 852 allievi. 

Completò l'addestramento di volo durante il suo primo anno di corso, con l'addestramento primario a Pine Bluff, Arkansas, e l'addestramento avanzato a Stewart Field, New York.

Durante un volo di navigazione nel maggio 1945, il suo volo si è disperso e, a corto di carburante, ha scambiato un cavalletto ferroviario per una pista, facendo atterrare il suo T-6 Texan contro una casa a Great Barrington, nel Massachusetts. 

Forse a causa di questo ciò, fu assegnato all'addestramento multimotore sui B-25 fino al febbraio 1946. 

Ricevette il suo primo incarico nelle Filippine, alla base aerea di Naha, Okinawa, e alla base aerea di Tachikawa, in Giappone. 

Nel marzo 1950 è stato assegnato al quartier generale del Tactical Air Command a Langley AFB, in Virginia, dove è rimasto fino a quando si è offerto volontario per la guerra di Corea.

Arrivò in Corea nel febbraio 1952 dove volò in più di 100 missioni di combattimento tra il 12 febbraio e il 6 agosto 1952 e gli è stata attribuita una vittoria su un MiG-15 il 4 luglio 1952. 

Successivamente Salter fu dislocato in Germania e in Francia, promosso maggiore e assegnato alla guida di una squadra di dimostrazione aerea; divenne ufficiale operativo di squadriglia, in linea per diventare comandante di squadriglia.

Nel tempo libero scrisse il suo primo romanzo, The Hunters, pubblicandolo nel 1956 con lo pseudonimo di "James Salter". I diritti cinematografici del romanzo permisero a Salter di lasciare il servizio attivo nell'aeronautica statunitense nel 1957 per scrivere a tempo pieno. 

Dopo aver prestato servizio per dodici anni nell'aeronautica militare statunitense, di cui gli ultimi sei come pilota di caccia, Salter trovò difficile il passaggio a scrittore a tempo pieno.

L'adattamento cinematografico del 1958, I cacciatori, interpretato da Robert Mitchum, fu acclamato per le sue potenti interpretazioni, la trama commovente e la rappresentazione realistica della guerra di Corea. 

Pur essendo un adattamento eccellente per gli standard hollywoodiani, era molto diverso dal romanzo originale, che trattava della lenta autodistruzione di un pilota di caccia trentunenne, che un tempo era stato considerato un "pezzo grosso", ma che trovava solo frustrazione nella sua prima esperienza di combattimento, mentre altri intorno a lui raggiungevano la gloria, in parte forse inventata. 

Il suo romanzo del 1961, "Il braccio di carne", si basa sulle sue esperienze di volo con il 36° stormo di caccia alla base aerea di Bitburg, in Germania, tra il 1954 e il 1957. 

Salter, tuttavia, in seguito disdegnò entrambi i suoi romanzi "Air Force" come prodotti della giovinezza "che non meritano molta attenzione". Dopo diversi anni di servizio nella riserva dell'aeronautica, nel 1961 si dimise completamente dall'incarico dopo che la sua unità fu richiamata in servizio attivo per la crisi di Berlino. 

Si trasferì a New York con la famiglia. Salter e la sua prima moglie Ann divorziarono nel 1975, dopo aver avuto quattro figli: le figlie Allan (1955-1980) e Nina (nata nel 1957), e i gemelli Claude e James (nati nel 1962). 

A partire dal 1976 ha vissuto con la giornalista e drammaturga Kay Eldredge. Hanno avuto un figlio, Theo Salter, nato nel 1985, e Salter ed Eldredge si sono sposati a Parigi nel 1998.

Salter si è dedicato alla scrittura cinematografica, prima come autore di documentari indipendenti, vincendo un premio alla Mostra del Cinema di Venezia in collaborazione con lo scrittore televisivo Lane Slate (Team, Team, Team). Ha scritto anche per Hollywood, pur disdegnandola. La sua ultima sceneggiatura, commissionata e poi rifiutata da Robert Redford, è diventata il suo romanzo, Solo Faces.

Scrittore molto apprezzato della narrativa americana moderna, Salter è stato critico nei confronti del proprio lavoro, avendo affermato che solo il suo romanzo del 1967, A Sport and a Pastime, si avvicina ai suoi standard. 

Ambientato nella Francia del dopoguerra, A Sport and a Pastime è un'opera erotica che coinvolge uno studente americano e una giovane francese, raccontata sotto forma di flashback al presente da un narratore senza nome che conosce a malapena lo studente, desidera la donna e ammette liberamente che la maggior parte della sua narrazione è frutto di fantasia. 

Molti personaggi dei racconti e dei romanzi di Salter riflettono la sua passione per la cultura europea e, in particolare, per la Francia, che egli descrive come una "terra santa secolare".

La prosa di Salter mostra l'apparente influenza di Ernest Hemingway e Henry Miller, ma nelle interviste con il suo biografo, William Dowie, Salter afferma di essere stato influenzato soprattutto da André Gide e Thomas Wolfe. 

La sua scrittura è spesso descritta dai recensori come "succinta" o "compressa", con frasi brevi e frammenti di frase, e il passaggio tra prima e terza persona, così come tra il tempo presente e passato. I suoi dialoghi sono attribuiti solo quando è necessario per chiarire chi sta parlando, altrimenti lascia che il lettore tragga deduzioni dal tono e dalle motivazioni. 

Il suo libro di memorie del 1997, Burning the Days, utilizza questo stile di prosa per raccontare l'impatto che le sue esperienze a West Point, nell'aeronautica e come pseudo-espatriato in Europa hanno avuto sul modo in cui ha visto i suoi cambiamenti di stile di vita. 

Sebbene sembri celebrare numerosi episodi di adulterio, in realtà Salter sta riflettendo su ciò che è accaduto e sulle impressioni che ha lasciato su di lui, proprio come la sua struggente reminiscenza sulla morte della figlia. 

Un verso de I cacciatori esprime questi sentimenti: "Non sapevano nulla del passato e della sua santità". 

Salter ha pubblicato una raccolta di racconti, Dusk and Other Stories, nel 1988. La raccolta ha ricevuto il PEN/Faulkner Award e uno dei suoi racconti ("Twenty Minutes") è diventato la base del film Boys del 1996. Nel 2000 è stato eletto membro dell'American Academy of Arts and Letters. Nel 2012, la PEN/Faulkner Foundation lo ha selezionato per il 25° PEN/Malamud Award affermando che le sue opere mostrano ai lettori "come lavorare con il fuoco, la fiamma, il laser, tutte le forze della vita al servizio della creazione di frasi che scintillano e fanno bruciare le storie"

Il suo ultimo romanzo, All That Is (qua sotto la traduzione italiana), è considerato il suo capolavoro. 

È morto il 19 giugno 2015 a Sag Harbor, New York.

In Italia l'editore Guanda sta pubblicando la sua intera opera. Che merita davvero di essere conosciuta. 

Fabrizio Falconi - 2022 



12/06/22

Il grande Saul Bellow, uno dei più grandi narratori americani: perché ci manca


 

Saul Bellow, di cui due giorni fa, il 10 giugno, ricorrevano i centosette anni dalla nascita e il 5 aprile i diciassette dalla morte, è una figura che non farà che prendere spazio nella prospettiva storica della letteratura americana di cui ha rappresentato un legame con la grande tradizione e, assieme, il momento di rottura, di innovazione.
Dopo i libri cesellati e minuziosi degli inizi, come L'uomo in bilico o La vittima che derivano dalle indagini sullo stile e la scrittura di Henry James, si propose di scrivere un libro del tutto americano, "libero dalla schiavitù autoimposta e arbitraria dei modelli inglesi", e nacque il suo primo grande romanzo, Le avventure di Augie March.

Premio Nobel per la letteratura nel 1976, Bellow (1915-2005) è considerato quindi uno dei grandi della letteratura americana, forse il più grande dal dopoguerra, che va ben oltre il ricco filone della produzione ebraica americana e leggerlo essenzialmente legandolo a quella sua intima e evidente matrice sarebbe un errore, una limitazione.
Figlio di immigrati ebrei russi, nato in a Lachine, nel Quebec (Canada), il 10 giugno 1915, Bellow è cresciuto a Chicago negli anni '20 e '30 ed ha avuto una vita sentimentale movimentata, con cinque mogli (e quattro divorzi), oltre a numerosissime amanti.

Uno scrittore diventato punto di riferimento essenziale con opere, per fare solo tre titoli, come Herzog (1964), Il pianeta di Mr. Sammler (1970), Il dono di Humboldt (1975) in cui predomina, sullo sfondo di una curiosità onnivora e prettamente umanista, la descrizione dello spaesamento intimo, che nasce da radici fisiche e culturali (l'ebraismo) e diventa universale e metaforico dei nostri tempi, sotto la continua minaccia di una realtà sempre più incomprensibile, in un mondo che ha perso chiarezza, in cui bene e male si confondono e le eterne domande sul senso dell'esistenza, restano dolorosamente senza risposta.
Augie March riprende il tema caro alla letteratura americana del ragazzo libero e dalle avventure picaresche (il modello sono Le avventure di Huckleberry Finn di Mark Twain), col protagonista che racconta di sé e si interroga sul proprio destino, mischiando energia vitale e comicità, brutale solitudine e feroce lotta col mondo nel tentativo di non essere schiacciato e di non perdere i brandelli della propria individualità, rifiutando di essere conglobato e omologato, in difesa della propria umanità.

E quest'ultimo è il tema di fondo dell'opera di Bellow e delle altre sue opere, da Humboldt l'intellettuale che interrogandosi sui mali del Novecento, si chiede come sia potuto accadere tutto e finisce per chiudersi in se stesso, a Mr Sammler, un anziano che guarda con amara coscienza alla propria vita alienata e pressata dalle ingiustizie, dal razzismo, della società americana, come una condanna senza uscita.
I suoi eroi, con i loro lunghi, scintillanti monologhi interiori, sono esuberanti, innamorati, intellettuali, capaci di guardare con autoironia alla propria incapacità a sottrarsi alle seduzioni femminili (spesso rappresentate da donne virago, assetate di sesso e di conto in banca), in un'epoca in cui la famiglia ha perso il suo valore e va disintegrandosi.

Perdenti che non soccombono, e che rielaborano e destrutturano i miti della frontiera e del sogno americano, infranti sulla soglia della modernità.

Una lucidità di pensiero, prima che di scrittura, ineguagliabile. Che aiuta a districarsi nel caos e si ostina a dare voce alla ragione e alle ragioni del cuore. Ultimo grande lascito di una grande letteratura che aiutava non poco a comprendere (e a dare un nome) al mondo.

"La colonna vertebrale della letteratura americana del Novecento - disse Philip Roth alla morte di Bellow - è stata fornita da due romanzieri, William Faulkner e Saul Bellow. Insieme sono i Melville, gli Hawthorne e i Twain del ventesimo secolo".

Fabrizio Falconi - 2022

Fabrizio Falconi

31/03/21

Arriva la biografia di Philip Roth ed è subito polemica

 


"Philip Roth" di Blake Bailey, un volume che Roth aveva immaginato in qualche forma per più di 20 anni, esce il 7 aprile. 

Sempre disposto a provocare o amplificare una discussione, l'autore di "American Pastoral", "Sabbath's Theatre" e altri romanzi aveva pensato a una biografia sin da quando la sua ex moglie, l'attrice Claire Bloom, lo aveva descritto come infedele, crudele e irrazionale nel suo libro di memorie del 1996 "Leaving a Doll's House"

Roth era determinato a far emergere la sua verità, ma voleva che qualcun altro lo facesse

Ha reclutato per primo Andrew Miller, un professore di inglese e nipote del drammaturgo Arthur Miller, ma è diventato così insoddisfatto di quello che credeva fosse l'ambito ristretto di Miller che i due hanno avuto un pesante diverbio

Così, nel 2012, Roth ha puntato su Bailey, concedendogli pieno accesso ai suoi documenti, ai suoi amici e, l'ostacolo più alto, all'autore stesso. Bailey inoltre avrebbe avuto l'ultima parola.

"Philip ha capito qual era l'accordo", ha detto Bailey all'Associated Press, "e per lo più lo ha rispettato".

Nei sei anni successivi, fino alla morte di Roth nel 2018, lui e Bailey sono stati collaboratori, amici e talvolta combattenti. 

Come scrive Bailey nei ringraziamenti del libro, il loro tempo insieme è stato anche "complicato, ma raramente infelice e mai noioso". 

A un certo momento, Roth poteva scherzare o sfogliare allegramente un album di foto di vecchie amiche - ce n'erano molte - e il momento dopo poteva ribollire per i presunti crimini di Bloom. 

L'autore britannico Edmund Gosse una volta definì una biografia come "il ritratto fedele di un'anima nelle sue avventure attraverso la vita"

Il libro di Bailey è più di 800 pagine e avrebbe potuto durare centinaia di più.

Roth ha completato più di 40 libri e ha vissuto molte vite in 85 anni

Bailey assume i ruoli di critico, confessore, psicologo e persino consulente matrimoniale. 

Traccia la vita di Roth dalla sua infanzia stabile ma inibitoria della classe media a Newark, nel New Jersey, agli anni adulti di disciplina letteraria e libertà personali, e ai suoi ultimi anni di pensionamento autoimposto. 

Il "vero" Philip Roth è stato una ricerca per innumerevoli critici - e lo stesso autore - sin dal suo bestseller "Portnoy's Complaint" del 1969 ha lasciato molti lettori a credere che Roth e il suo appassionato narratore fossero la stessa cosa. 

Così era e non era. 

"Mi aspettavo battute insipide, oscenità e così via", dice Bailey del tempo passato con Roth. "Ciò che mi ha sorpreso è stata l'essenziale benevolenza dell'uomo.

Poche biografie letterarie sono state così attese. Il libro di Bailey è un punto d'incontro tra uno degli autori più tempestosi e dibattuti del mondo e uno dei suoi biografi più celebri, le cui opere su John Cheever e Richard Yates sono state presentate come modelli di prosa elegante, critica incisiva, ricerca approfondita e un disponibilità ad affrontare il peggio nei suoi sudditi senza condannarli. 

"Pensavo che Blake avesse fatto un lavoro brillante, incredibilmente completo, intelligente e amorevole con mio padre", ha detto in una recente e-mail all'Associated Press Susan Cheever, la figlia di John Cheever. "La biografia è una strada difficile, tutti gli adattamenti del contesto e del personaggio, ma ho pensato che avesse bilanciato tutto perfettamente e penso che sia un segno del genio di Philip che abbia scelto anche Blake."

La maggior parte delle prime recensioni, da Kirkus a The Atlantic, sono state positive. Claire Bowden, scrivendo su The Sunday Times, ha elogiato Bailey per aver documentato la lotta di Roth "per essere visto come un romanziere serio e non un demone del sesso, che combatte le sue ex mogli, i critici e il suo corpo fallimentare". 

David Remnick del New Yorker, che ha conosciuto Roth, ha elogiato Bailey come "industrioso, rigoroso e senza scrupoli". 

Altri erano più critici. 

Parul Seghal del New York Times ha trovato Bailey più interessato al pettegolezzo che alla letteratura e ha definito il libro "un'apologia tentacolare per il modo in cui Roth ha trattato le donne, dentro e fuori dalla pagina". 

Anche Laura Marsh di The New Republic ha trovato Bailey troppo indulgente nei confronti dei vizi di Roth, dai suoi rapporti con le donne al suo risentimento contro i critici, e ha concluso che il risultato "non è una vittoria finale della discussione, come Roth avrebbe potuto sperare". 

Bailey dice che il suo scopo era quello di seguire il motto di Roth come autore - di "far entrare il repellente" e riconoscerlo come un "essere umano complicato e disordinato". 

È probabile che il biografo saluti "Pastorale americana" quanto biasimare opere minori come "Il grande romanzo americano" e "L'umiltà". 

Nel libro di memorie di Roth "The Facts", il suo alter ego immaginario Nathan Zuckerman lo ha rimproverato definendolo "il meno completamente interpretato di tutti i tuoi protagonisti". 

Bailey non è mai stato meno che affascinato, anche quando è atterrito. Roth "non aveva un solo osso monogamo nel suo corpo", disse, poteva serbare rancore come se fossero cimeli di famiglia ed era spesso fatalmente fuorviante nel suo giudizio sulle persone.

Ma c'era un lato di Philip che era del tutto ammirevole. Aveva una vena gigante di pietà filiale verso (Saul) Bellow e (Alfred) Kazin e vari scrittori che ammirava", ha aggiunto Bailey. "Se un amico di Philip fosse stato in difficoltà, lui si sarebbe messo al telefono e avrebbe iniziato a organizzare il supporto, assicurandosi che il suo amico potesse pagare le spese mediche".

"Era un uomo adorabile in molti modi." 

I bambini raramente crescono sognando di diventare un biografo letterario, e Bailey, nativo di Oklahoma City e laureato alla Tulane University, sperava per la prima volta di scrivere narrativa.

Ha completato una manciata di romanzi, tra cui uno intitolato "Bourbon In the Bathtub", ma alla fine si è reso conto che era più a suo agio nello scrivere saggistica e nel lasciarsi fuori dalla storia. Le sue ispirazioni includono il biografo britannico Lytton Strachey, che secondo Bailey considera l'umanità "ridicola, ma anche commovente". 

Le biografie di soggetti viventi _ almeno viventi all'inizio del progetto _ hanno una storia lunga e travagliata. 

Possono andare dalle valutazioni non autorizzate di Kitty Kelly di Frank Sinatra e Nancy Reagan a innumerevoli agiografie in cui il soggetto ha l'ultima parola sul manoscritto. 

Bailey ha contattato Roth su suggerimento di James Atlas, il cui libro su Bellow è spesso citato come un avvertimento che i biografi potrebbero arrivare a non amare i loro soggetti. 

 Alla domanda se la morte di Roth lo facesse sentire più libero di scrivere a suo piacimento, Bailey ha risposto che Roth "sapeva che il peggio (su di lui) stava arrivando" nel libro, citando le feroci molestie di Roth nei confronti di un amico della figlia di Bloom e la sua relazione extraconiugale con una donna identificato come "Inga"

Bailey ha ricordato un incontro con Roth pochi mesi prima della sua morte, nell'appartamento dell'autore a Manhattan. Roth era esausto, riusciva a malapena a stare in piedi, ed era arrabbiato. 

"Continuavo a fargli domande a cui non voleva rispondere." Non è nel mio interesse rispondere a queste domande, quindi devi cambiare argomento "," Bailey ricorda di aver detto Roth. "E nel bel mezzo di questo, ha detto, 'Sai, questo è il meglio che ho sentito da settimane, tu (imprecazione)'! E scoppiò a ridere."

07/02/21

Libro del Giorno: "La casa di Parigi" di Elizabeth Bowen

 


Pubblcato anni fa in una versione tagliata dalla casa editrice Essedue, “La casa di Parigi”  è tornato in libreria pubblicato da Sonzogno nella collana diretta da Irene Bignardi e in  versione integrale, tradotto da Alessandra di Luzio accompagnato da una postfazione di Leonetta Bentivoglio.

Da molti considerato il capolavoro di Elizabeth Bowen (1899-1973) una delle più raffinate e importanti scrittrici del novecento anglosassone, irlandese che visse molto a Londra, affiliandosi al celebre circolo di Bloomsbury, profondamente ammirata da Virginia Woolf, "La casa di Parigi" è un romanzo vischioso, che avvolge come un incantesimo e conduce il lettore attraverso un misterioso viaggio nella psicologia e nei destini di pochi personaggi.

Siamo a Parigi, in inverno, la Grande guerra è finita da poco, aleggia sulla città un'atmosfera cupa e grigia. Alla Gare du Nord scende Henrietta, undici anni, con in mano la sua scimmietta di pezza. Viene a prenderla la signorina Fisher, un'amica di famiglia che la ospiterà per una intera giornata in un elegante appartamento, in attesa di farla ripartire per il Sud della Francia. 

In quella casa borghese, dal confortevole odore di pulito, Henrietta si imbatte in una gradita sorpresa: c'è un suo coetaneo, il fragile Leopold, avviato verso un futuro incerto. 

Tra i due bambini, estremamente sensibili e inquieti, dopo l'iniziale diffidenza, si accende la curiosità: di ciascuno nei confronti dell'altro, e di entrambi verso il misterioso mondo degli adulti. 

I due fanciulli, grazie agli indizi disseminati attorno a loro, rivivono, tra immaginazione e realtà, le tormentate storie d'amore dei grandi, in particolare quella scandalosa tra la madre di Leopold e il suo padre naturale. 

Acclamato come un classico al momento della pubblicazione (1935), "La casa di Parigi", oltre a mettere in scena una passione sentimentale, è un acuto studio psicologico e un esercizio di finezza letteraria sulla prima irruzione del dolore, sulla scoperta del sesso, sulla perdita dell'innocenza e sull'intrico delle conseguenze e del danno. 

Un romanzo importante, dalla cadenza solenne e dalla prosa jamesiana che desta ammirazione per la profondità psicologica e la capacità descrittiva, dei paesaggi naturali e umani.

Elizabeth Bowen

La Casa di Parigi

Sonzogno, Venezia 2016

Traduzione di Alessandra Di Luzio

Postfazione di Leonetta Bentivoglio

286 pagine, Euro 15

23/12/20

Libro del Giorno: "La commedia umana" di William Saroyan



Raramente capita di leggere un libro così colmo di grazia.

E' relativamente facile incontrare romanzi travolgenti o stravolgenti, pieni di avventure o disavventure o semplicemente alla ricerca di un tortuoso percorso interiore. 

Molto raramente invece si incontrano romanzi come questi, che sono una perfetta forma compiuta, la descrizione di un mondo piccolo e provinciale nel quale ogni essere umano si può ritrovare come se fosse il proprio, dove non c'è nemmeno una parola fuori posto, dove tutto si chiama come si deve chiamare, ogni sentimento umano, ogni cosa - accadimento, gioia e dolore - che cade sul capo di un essere umano, semplicemente perché egli è vivo e vive e fa parte di quella che nel titolo stesso è evocata - con un richiamo balzachiano - come La Commedia Umana, che fu scritto da William Saroyan in piena guerra, nel 1943, mentre Hollywood produceva il film con lo stesso titolo e la stessa storia, ma con il semplice fatto che la sceneggiatura originale di Saroyan - troppo letteraria - era stata rifiutata e affidata a un navigato sceneggiatore, Howard Estabrook. 

Seccato e colmo di disappunto per il rifiuto, Saroyan decise di trasformare la sceneggiatura in un romanzo, ricevendo comunque l'Oscar di quell'anno per il miglior soggetto originale del film diretto da Clarence Brown con Mickey Rooney protagonista. 

Tre anni prima, Saroyan aveva già vinto il premio Pulitzer. 

Era nato il 31 agosto 1908 a Fresno, in California , da Armenak e Takuhi Saroyan, immigrati armeni da Bitlis , nell'impero ottomano. 

Suo padre era arrivato a New York nel 1905, iniziando a predicare nelle chiese apostoliche armene.  All'età di tre anni, dopo la morte del padre, Saroyan, insieme a suo fratello e sua sorella, fu ricoverato in un orfanotrofio a Oakland, in California 

Di questa infanzia difficile e dolorosa, cominciò a scrivere dopo che la madre gli mostrò alcuni scritti del padre. La sua prima raccolta di racconti, My name is Aram, uscita nel 1940, divenne un best-seller internazionale e venne subito tradotto in molte lingue. 

La Commedia Umana fu il suo primo romanzo di grande successo seguito da molti altri, fino alla morte avvenuta nel 1981.  E mentre secondo la critica (Stephen Fry), quella di Saroyan è "una delle figure letterarie più importanti della metà del XX secolo", allo stesso tempo egli è  "uno degli scrittori più sottovalutati del secolo", nonostante lo stesso Fry suggerisca che Saroyan possa essere messo sullo stesso piano di "accanto a Hemingway , Steinbeck e Faulkner ". 

Anche in Italia Saroyan è attualmente poco conosciuto e poco letto.

Ed è un peccato. 

Chi vuole accostarsi alla sua limpida letteratura può cominciare da questo romanzo, che ha per protagonista Homer, un ragazzino di quattordici anni pieno di entusiasmo. 

La famiglia Macauley, da cui proviene, è modesta, le difficoltà non sono poche: il babbo è morto e il fratello maggiore è partito per la Seconda guerra mondiale; eppure tutti si dedicano con energia a quel che va fatto: la mamma alle galline come all’arpa, la sorella agli studi e al pianoforte, e Ulysses è il fratellino più curioso del mondo. 

Homer, che ha assunto il ruolo di capofamiglia, di giorno frequenta il liceo, la sera si tuffa in bicicletta alla volta dell’ufficio del telegrafo, dove lavora come portalettere. 

Pochi giorni, e già si rivela come messaggero più veloce della West Coast. Entra così – leggero e deciso, quasi volando – nel mondo degli adulti: il suo segreto è prendere sul serio le cose e i sogni per diventare qualcuno, anzi, capire di esserlo già. 

Sullo sfondo, la natura rigogliosa e i colori della California, una banda di ragazzini vispissimi, negozianti armeni, giganti buoni, primedonne giramondo… 

Delicato e ironico, questo libro è il ritratto formidabile di uno stile di vita scomparso, è una parabola sull’adolescenza e sul mondo degli immigrati d’America degli anni Quaranta, ma anche una declinazione dei sentimenti e dei destini umani.  Un piccolo classico in trentanove episodi. 

Come scrive Emanuele Trevi La commedia umana è un miracolo dell’equilibrio formale, nel quale l’innocenza è ancora un modo acuto e preciso di conoscere il mondo, una ricchezza dello sguardo”.



26/05/20

Libro del Giorno: "Un punto di approdo" di Hisham Matar



Un breve libro intenso, a metà tra saggio e diario, racconta il mese trascorso a Siena da Hisham Matar, nato nel 1970 a New York da genitori libici, vissuto a Tripoli e poi al Cairo e ora residente a Londra. 

Per Einaudi, Matar ha pubblicato Nessuno al mondo (2006), tradotto in ventinove lingue e finalista al Man Booker Prize, Anatomia di una scomparsa (2011), Il ritorno (2017 e 2018), vincitore del Premio Pulitzer 2017 per l'Autobiografia e del Rathbones Folio Prize 2017, e Un punto di approdo (2020).

Il primo folgorante incontro di Hisham Matar con la pittura della Scuola senese risale ai suoi giorni da studente a Londra, poco dopo che il padre era sparito nelle prigioni di Gheddafi senza piú fare ritorno. 

Venticinque anni piú tardi, in cerca di rigenerazione e quiete, Matar parte infine per la città che di quella tradizione artistica fu la culla. Il suo viaggio a Siena dura trenta giorni, durante i quali le visite quotidiane alle opere di Duccio di Buoninsegna, Simone Martini, Ambrogio Lorenzetti e gli altri si alternano a lunghe passeggiate senza meta. I vicoli e le piazze della città sono membra di un «organismo vivente» dove un incontro fortuito scatena un ricordo, un’architettura rimanda a un dipinto, nel tracimare continuo di un’esperienza nell’altra che restituisce una visione, compiuta e commovente, del rapporto fra l’arte e la condizione umana.

Alla National Gallery di Londra, nel 1990, pochi mesi dopo che suo padre Jaballa è stato sequestrato dalla polizia segreta libica e fatto sparire per sempre, un Hisham Matar diciannovenne si avvicina per la prima volta all’arte pittorica senese del tredicesimo, quattordicesimo e quindicesimo secolo, e ne rimane affascinato. 

È la promessa di un incontro che dovrà attendere a lungo. Solo un quarto di secolo piú tardi, estenuato dalla stesura del memoir Il ritorno, che della sua tragedia familiare e collettiva racconta, e bisognoso del potere lenitivo dell’arte sulle anime tormentate, Matar decide di presentarsi all’appuntamento preso tanto tempo prima con quella tradizione pittorica, e di partire alla volta di Siena

Qui per un mese intero guarda, cammina, interroga, intesse relazioni. Con i dipinti innanzitutto – la Madonna dei francescani di Duccio di Buoninsegna, espressione di una prospettiva tutta umana; gli affreschi del Buono e del Cattivo Governo di Ambrogio Lorenzetti, densi di impegno civile; il Paradiso di Giovanni di Paolo, e la sua sublime promessa di ricongiungimenti amorosi – e poi con le architetture e gli spazi della città, con le sue persone, la sua lingua e la sua storia. 

Su tutto Matar posa uno sguardo intimo e teso che fa di questa fervida flânerie un incessante incontro con l’altro – tela, scorcio o individuo che sia -, capace di stimolare i sensi e proliferare in altri incontri e storie e riflessioni. 

Piazza del Campo è lo straordinario «gheriglio» che tutto vede e da cui tutto si vede, a ricordarci l’impossibilità di esistere da soli. 

Nello sguardo del Davide con la testa di Golia di Caravaggio vi è lo stesso inesaudibile desiderio di vedere con gli occhi dell’altro che accomuna acerrimi nemici e vecchi amanti. 

L’ombra della Peste Nera del 1348 si proietta sulla cappella del Palazzo Pubblico di Siena come sulla Damasco di Ibn Battuta. Ed è dallo sconosciuto Adam e dalla sua ospitale famiglia giordana che Matar apprende l’esatto funzionamento delle contrade nel Palio. Tela, scorcio e individuo sono cose ugualmente vive e comunicanti, nel viaggio di Hisham Matar, che proprio dalla «convinzione che quanto ci accomuna sia piú di quanto ci separa» trae un conquistato sentimento di speranza.

07/05/20

Libro del Giorno: "La maschera di Dimitrios" di Eric Ambler



Eric Clifford Ambler, nato a Londra nel 1909 e morto sempre a Londra nel 1998, è stato un geniale  scrittore e sceneggiatore britannico, autore di alcune fra le più famose spy story della letteratura gialla. Tentò la fortuna anche a Hollywood, dopo la seconda guerra mondiale, in cui servì nella truppe inglesi per sei anni occupandosi di riprese sui luoghi di battaglia. 

Ma visto che l'esperienza americana non fu esaltante, tornò in Europa nel 1958 a scrivere romanzi, sempre di ambientazione spionistica o thriller, genere di cui fu il nobilitatore insieme a Graham Greene e William Somerset Maugham.

La maschera di Dimitrios è uno dei suo gialli migliori, dalla trama intricata e ricca di suspence

L'azione ha inizio a Istanbul, intorno alla metà degli anni Trenta. Nel corso di un ricevimento Charles Latimer, giallista inglese di successo, viene avvicinato dal più imprevedibile degli ammiratori, il colonnello Haki – alto ufficiale dei servizi segreti e scrittore di suspense alle prime armi. La trama che il colonnello sottopone a Latimer, e che vorrebbe che quest’ultimo sviluppasse in proprio, è rozza, fiacca, artificiosa.

Ma poi Haki allude alla vicenda «scombinata, non artistica», priva di «moventi occulti» di Dimitrios Makropoulos, il più grande criminale europeo di quegli anni, coinvolto in ogni delitto compreso fra il traffico di eroina e l’assassinio politico.

E così, da alcuni indizi contraddittori disseminati in una conversazione apparentemente casuale, ha inizio l’inquietante «esperimento investigativo» di Latimer, che inseguirà le tracce di Dimitrios fra le rive dell’Egeo, i quartieri turchi di Sofia e i boulevard di Parigi, trasformandosi via via da elegante, distaccato scrutatore di fatti in protagonista di un romanzo a tinte forti.

Perfetta fusione di suspense e atmosfera, sottile analisi del funzionamento di ogni investigazione – letteraria o poliziesca che sia –, questo libro, per molti il primo a essere evocato quando si parla di Ambler, è anche lo straordinario documento di un’epoca in cui la civiltà e la mente dell’uomo europeo non potevano non vedersi riflesse in uno specchio oscuro, inafferrabile e sinistro: i Balcani.

La maschera di Dimitrios è stato pubblicato per la prima volta nel 1939.


Eric Ambler
La maschera di Dimitrios
Traduzione di Franco Salvatorelli
Adelphi, 2000
pag. 9.30 euro

03/03/20

Libro del Giorno: "Onori" di Rachel Cusk




L'Editore Einaudi manda in libreria l'ultimo episodio della trilogia, con la quale la scrittrice Rachel Cusk, 53 anni, nata in Canada, ma inglese di adozione, ha compiuto una piccola grande rivoluzione nei canoni classici della narrativa e del romanzo. 

Cusk infatti, dopo una serie di romanzi e saggi pubblicati con alterne fortune, si è presa una pausa, ripensando completamente il suo modo di scrivere e inaugurando nel 2015 una trilogia di romanzi brevi iniziata con Resoconto (in orginale Outline), cui ha fatto seguito Transiti (Transit), nel 2017 e ora l'ultimo, Onori (Kudos), pubblicato in Inghilterra nel 2019. 

In cosa consiste la novità di Cusk?

Innanzitutto nel suo stile, di alta, o altissima qualità. Nessuna frase di quelle scritte da Cusk è mai banale. Ogni frase anzi, dei suoi densi racconti, rivela una sorpresa, terminando quasi sempre nel modo opposto - o diverso - a quello che si aspetterebbe il lettore. 

Questo tono spiazzante, si riflette nella struttura stessa dei 3 romanzi, che sono singolari perché non ospitano affatto una vera trama, nel senso tradizionale del termine. 

Il centro della narrazione è infatti la scrittrice stessa, un alter ego della stessa, di cui conosciamo soltanto in nome Faye. 

Il punto di vista quindi è sempre quello soggettivo di Faye, ma la "trama" è intessuta, in Onori, come negli altri due romanzi, degli incontri, delle persone che incontrano la scrittrice, che interagiscono con lei, e che decidono di confessare le loro vite, o parti di esse, ad un ascoltatore ingiudicante; senza soluzione di qualità, una via l'altra. 

In Onori, una donna in viaggio in aereo, per raggiungere una località della vecchia Europa dove è previsto un convegno a cui dovrà partecipare, ascolta un estraneo di fianco a lei mentre parla del suo lavoro, della famiglia, e dell'angosciosa notte precedente alla partenza, trascorsa a seppellire il suo cane. 

Sbarcata e tra le strade in un caldo afoso, tra pause caffè e lunghe attese di navette che fanno la spola tra il ristorante alla sede dei meeting, incontra colleghi, giornalisti, organizzatori culturali, stewards. 

Da queste sue conversazioni - che sembrano e sono riempitivi, pause di tempi morti, dove sembra non succedere nulla esteriormente - emerge un quadro variegato, lieve e profondo, lacerante e confuso di una umanità scissa tra ciò che vorrebbe sembrare e ciò che si trova a dover essere.

Una bella sorpresa e di grande qualità, una scrittura limpida e neutra, ma non priva di compassione, che ricorda la lezione formale di J.M. Coetzee e che ha già ricevuto elogi e premi in tutto il mondo. 

15/02/20

Libro del Giorno: "Sulle fiumane della Grand Central Station mi sono seduta e ho pianto" di Elizabeth Smart



E' un breve romanzo sul tormento e l'estasi dell'amore.  L'unico romanzo pubblicato da Elizabeth Smart, pubblicato in Italia anni fa dal Saggiatore e ripubblicato, molto recentemente dall'editore SE Assonanze, nella traduzione di J. Rodolfo Wilcock, con testo a fronte e una fulminante postfazione di Cesare Garboli. 

E' una vicenda molto semplice - e simile a quella di molte altre storie d'amore - ma raccontata in forma poetica, ed estrema, dando largo spazio agli impulsi emotivi e agli slanci incontrollabili della follia amorosa, che rende fuori da tutto, con continui riferimenti alle parole delle Sacre Scritture. 


Forse nessuno legge Sulle fiumane della Grand Central Station mi sono seduta e ho pianto, romanzo di Eli­zabeth Smart, uscito in Italia il mese scorso (novembre 1971) presso «Il Saggiatore», tradotto da quel traduttore ineguagliabi­le che è Rodolfo Wilcock. 

Forse nessuno lo legge. 

I giornali, che io sappia, non ne hanno parlato; se ne hanno parlato, ne hanno certo parlato poco. D'altron­de penso che in Italia pochi abbiano mai sentito nominare Elizabeth Smart. Io ignoravo la sua esistenza fino a qualche giorno fa, quando un mio amico mi ha detto di leggere Sulle fiu­mane perché era bellissimo. Difatti è bellissimo. 

Ora su Elizabeth Smart so quanto sta scritto nella prefa­zione. È nata in Canada. È oggi sulla quarantina. Ha sposato un poeta inglese e vive nell'Essex. 

Sulle fiu­mane l'ha scritto e pubblicato nel '45, in Inghilterra. È stato ristampato nel '66. Dopo Sulle fiumane non ha scritto altro. Sulle fiumane è un romanzo complesso e difficile. Questo all'inizio mi ha respinto. Io non amo i roman­zi difficili: è forse una mia limitazione. Ho sempre una gran paura che siano fintamente difficili, che l'oscurità sia creata di proposito per nascondere la povertà dell'ispirazione. 

Non mi piace quando chi scrive arruf­fa e aggroviglia di proposito il tempo e i fatti. Desi­dero che in un romanzo tutto sia disteso, aperto e lim­pido. Desidero sapere dove mi trovo, come sono e chi sono le persone, desidero sapere subito cosa sta suc­cedendo. 

Per un poco, leggendo Sulle fiumane, non mi orien­tavo, e ho creduto di trovarmi in mezzo a una vicenda fintamente oscura. Ho però provato a un certo punto una sensazione di estrema chiarezza. L'oscurità era qui originata non da un proposito ma da un'esigenza assoluta e vitale.

Nel '45, Smart era una ragazza di diciotto o vent'anni. Doveva essere una ragazza identica a quella del suo ro­manzo e doveva essere appena emersa da una storia iden­tica, Questo può sembrare un particolare secondario. Però non è tanto secondario. Leggendo questo romanzo abbiamo la sensazione assai strana di trovarci nel cuore di una confessione veritiera, bruciante e ossessiva, ma di respirare un'aria cristallina e gelida, come se chi racconta giacesse ancora in fondo a una palude e nello stesso tem­po contemplasse il mondo e se stesso da cime altissi­me e coperte di ghiacci. 

Questo romanzo, lo poteva scrivere solo una donna. Lo poteva scrivere solo una donna e solo la ragazza che ci appare davanti in queste pagine. 

Impossibile pensare che questa ragazza abbia inventato una sola sillaba. 

Raramente in un romanzo è così essenziale il fatto di essere scritto in prima persona. Pure l'identità femmini­le, onnipresente in ogni riga, e l'accento inconfondibi­le di autobiografia reale, non sono qui una limitazione. Pensiamo di solito che, quando uno scrive, non do­vrebbe essere né uomo, né donna, e pensiamo che l'au­tobiografia dovrebbe essere un fatto incidentale e lasciato alle spalle. 

Ma in Smart la natura femminile e l'accento autobiografico sono inseparabili dalla sua fi­sionomia intima, così come in alcuni scrittori il dialetto e la patria d'origine sono inseparabili dalla loro fisio­nomia e invece di immiserirli e circoscriverli si alzano con essi e li accompagnano nella loro essenza universale. 

Il fatto che Smart sia una donna e parli di sé è inseparabile dal suo scrivere così come è inseparabile da Italo Svevo la città di Trieste e nel suo linguaggio un fondo di dialetto triestino. 

Sulle fiumane ha una vicenda tenue, niente affatto insolita. La vicenda appare e scompare in un intrico di immagini. Smart, più che raccontarla, sembra inse­guirla. I personaggi non sono enunciati, commentati o descritti, ma li illuminano rapidi lampi.

Una ragazza ama un uomo sposato con un'altra donna e omosessua­le, Per un'estate, i tre se ne stanno uniti sulle coste della California, avviluppati nella loro vicenda privata, mentre in una Europa remota ma incombente infuria la guerra. 

Nelle sventure che colpiscono le collettivi­tà umane, le sventure dei singoli non diventano più inconsistenti ma più crudeli, le dilaniano dolori lonta­ni, un caso brutale e distratto le calpesta e le spinge alla cieca nella fossa comune. 

L'uomo e la ragazza se ne vanno insieme. Nella ragazza, la suprema felicità dell'amore e i presagi di un distacco irrimediabile e definitivo sono confusi e congiunti, così come sono confusi e congiunti nel suo spirito i paesaggi ricordati o percorsi, i sordidi alber­ghi, le spiagge solari, le squallide trattorie e i profili spettrali delle grandi città

Passato e presente si incro­ciano e si confondono, il futuro è una forma incredula non fioriscono decisioni o speranze ma il pensiero incontra soltanto presagi sibillini di devastazione per i destini dei singoli come per l'intiero universo. 

Ai confini dell'Arizona, l'uomo e la ragazza vengono arrestati. La ragazza è incinta. L'uomo tenta di uccidersi. Li­berati, l'uomo torna dalla moglie, la ragazza dai genitori

La ragazza riparte in cerca dell'uomo, nel corso del viaggio rinuncia a rivederlo mai, non c'è spiegazione, i nostri atti non hanno sempre una spiegazione o ne hanno infinite e incoerenti ma strazianti e irrevocabili, alla Stazione Centrale di New York si mette seduta e piange. 

È noto che ci sono due modi di scrivere i romanzi. Un modo è costruire, architettare, fare calcoli nella propria testa come in un pallottoliere, spostare luoghi e persone pesanti come macigni. Chi scrive si sente forte, stanco, prepotente, paziente, autoritario, aggres­sivo, virile. Si sente a pezzi come se avesse fatto un trasloco. Nella sua testa, le sue faticose costruzioni hanno una consistenza ferrea e pungente. Si sente la testa piena di chiodi e di spilli. 

 L'altro modo è non costruire nulla, non architettare nulla e restare se stesso. Chi scrive non si sente forte ma debole, languido e molle. Spera che la poesia e la vita fluiscano dal suo languore. La sera non si sente stanco, ma nervoso. Non si sente né paziente né prepotente ma attonito e stupefatto. Non si sente la forza nemmeno di strappare un filo d'erba. Ha solo voglia di starsene buttato per terra a piangere. Chi scrive sa che dovrà scegliere fra l'ordine e il disordine. Oggi noi di solito scegliamo il disordine. L'im­pulso a costruire e architettare in ordine e in armonia con noi stessi e con gli altri sembra scomparso dal mon­do. Abbiamo perduto le forze e ci sentiamo sopraf­fatti e infelici

Ci sentiamo vittime e le vittime non costruiscono. I romanzi che oggi scriviamo, sempre o quasi sempre, sono scritti nel disordine e in un lungo sfogo di lagrime

A volte qualcuno, fra le lagrime, afferra del mondo circostante qualche lembo reale. Non ha compagni o non li vede intorno a sé e non indirizza la sua angoscia ad anima vivente. 

Tutt'al più chiede un poco di attenzione ai rari passanti che si sof­fermano per un attimo e vanno oltre. 

Smart ha scritto il suo romanzo nel secondo modo. L'idea di costruire era quanto mai remota dal suo spi­rito. La ragazza che dice «io» rovescia la sua confes­sione in un lungo, doloroso soliloquio. 

Non sembra destinare la sua storia a nessuno. Scrive il suo roman­zo come uno che getta un messaggio in mare in una bottiglia. Sulle fiumane è la storia d'un'ossessione amorosa. 

Nessuno quanto una persona in preda a un'ossessio­ne amorosa è in genere meno in grado di dare parole e immagini alle vicende nelle quali si dibatte il suo pensiero. Le ossessioni amorose non hanno parole ma solo gemiti inarticolati. Gli occhi troppo annebbiati dalle lagrime non vedono il mondo. Vi gettano solo uno sguardo allucinato e distratto. La poesia invece non è mai né distratta, né allucinata, né annebbiata, si separa dalle ossessioni e si libera dalle catene che la imprigionano a terra. 

La cosa strana in questo romanzo è che vi sentia­mo ancora i pesi delle catene, la nebbia delle lagri­me, il disordine del dolore e il fluire liquido e transitorio delle giornate vissute e patite e non lasciate alle spalle. 

Ma su tutto si è stesa la struttura lineare, lim­pida, solida come le rocce e misteriosamente pura, ar­moniosa e impersonale dell'arte

Natalia Ginzburg
Articolo tratto dalla raccolta Vita immaginaria, Arnoldo Mondadori editore, Milano, 1974


Elizabeth Smart
Sulle fiumane della Grand Central Station mi sono seduta e ho pianto
Traduzione J. Rodolfo Wilcock
SE - Assonanze, Milano 2019
pag. 151 - Euro 20 

11/02/19

Libro del Giorno: "Follia" di Patrick Mc Grath.



Un classico, milioni di copie vendute nel mondo, per il capolavoro di Patrick Mc Grath, mai tornato in seguito su questi livelli. 

Pubblicato per la prima volta nel 1996, il romanzo si svolge nel 1959 e attinge abbondantemente ai ricordi d'infanzia e di vita dello stesso autore, nato a Londra e cresciuto vicino all'ospedale di Broadmoor dall'età di cinque anni, dove suo padre era sovrintendente medico. In effetti Mc Grath rischiò seriamente di seguire le orme paterne, se non l'avesse definitivamente tentato la carriera di scrittore.

Follia, come tutti i grandi romanzi, sfrutta con la massima efficienza e con l'uso di una macchina narrativa perfetta, un materiale essenziale. Sulla scena si affacciano pochissimi personaggi.  Peter, il narratore, uno psichiatra che lavora in un grande manicomio alle porte di Londra; Max, il vicedirettore che aspira al posto di principale e che arriva all'istituto accompagnato dalla inquieta moglie Stella e dal figlio Charlie un bambino di 12 anni; Edgar Stark un paziente in regime di semilibertà, artista fallito, ricoverato in manicomio dopo aver ammazzato la moglie e averne mutilato il corpo, staccandole la testa; Nick, un amico di Edgar che lo aiuta dopo la sua fuga dal manicomio. E infine Brenda, la madre di Max e suocera di Stella. 

L'inferno inizia a dipanarsi quando Stella, complice una grande serra vittoriana nel giardino del manicomio che viene restaurata da alcuni pazienti,  comincia una relazione con Edgar, il quale, fascinoso e manipolatore, la travolge dentro una passione senza limiti. 

Trascinata da un irrefrenabile desiderio e dalla acuta frustrazione della vita familiare e dalla freddezza di Max, Stella comincia il suo viaggio autodistruttivo, discendendo ad uno ad uno tutti i gradini della degradazione, abbandonando la famiglia e l'istituto per raggiungere l'amante in uno squallido loft alla periferia di Londra, subendone violenze e pressioni psicologiche, fino ad un tentativo di distacco che però non ottiene risultati. 

Fino all'ultima pagina Mc Grath districa abilmente i fili di una matassa psicologica in cui frustrazione femminile, desiderio, rancore, rivalsa e odio, passione e morte, sono l'uno all'altro collegati come il filo di un angoscioso e doloroso rosario. 

Non all'altezza la riduzione fatta da David Mackenzie nel 2005. 

Fabrizio Falconi