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19/01/21

C'è ancora qualcuno che dice "Non so" ? Eppure è questa la saggezza



Viviamo tempi nei quali, obnubilati dalle proprie convinzioni su tutto, che difendiamo a ogni costo e sempre anche quando esse poggiano sul nulla, nessuno sembra essere più capace di dire "Non so".  Eppure ammettere la propria ignoranza o indecisione su questioni non semplici è una vera e propria fonte di saggezza come insegna questo antichissimo Detto dei Padri del Deserto.


Non so.

Una volta giunsero dall'abate Antonio dei vecchi e con loro c'era l'abate Giuseppe. Volendo l'anziano metterli alla prova, propose loro un passo delle Scritture e cominciò a chiedere, dal più giovane, di quale luogo si trattasse. Ognuno rispondeva come poteva. Il vecchio replicava: "Non ci siamo." Alla fine chiese all'abate Giuseppe: "Che ne pensi ?" . Egli rispose "Non so".

Allora l'abate Antonio disse: "Sicuramente l'abate Giuseppe ha trovato la via, perchè ha detto 'Non so' ".

Detti dei padri del deserto, Antonio, 17 (scritto verso 290 d.C.)

15/09/19

"Ragazzi senza scopo e Genitori non più autori delle loro azioni", La decadenza moderna (finale?) secondo Umberto Galimberti intervistato oggi dal Corriere della Sera



Filosofo. Antropologo. Psicologo. Psicoanalista. Sociologo. Dal professor Umberto Galimberti ti aspetteresti un eloquio iniziatico all’altezza delle materie che ha insegnato, compendiate nelle 1.637 pagine del Nuovo dizionario di psicologia, psichiatria, psicoanalisi, neuroscienze (Feltrinelli), alla cui stesura ha faticato per 15 anni. Invece parla ancora come «il numero 8» — si definisce così — dei 10 figli di Ernesto, ex partigiano, venditore di cioccolato Theobroma improvvisatosi impiegato bancario, che in un paio di locali aprì a Biassono la prima agenzia del Credito artigiano e morì di tumore il giorno dell’inaugurazione. «Da bambino andavo in ufficio ad aiutarlo: mi faceva timbrare gli assegni. Avevo 14 anni quando mancò. Sognavo di diventare medico. Ma due borse di studio mi spalancarono le porte di Filosofia alla Cattolica di Milano. Lì trovai i miei maestri: Gustavo Bontadini, Sofia Vanni Righi ed Emanuele Severino, con il quale mi laureai. C’erano anche Gianfranco Miglio e Francesco Alberoni. Poi lavorai per tre anni nel manicomio di Novara, dove conobbi il primario Eugenio Borgna. Fui io a obbligarlo a scrivere, prima non lo conosceva nessuno. Li sento ancora, Severino e Borgna. Ci vogliamo molto bene. Non ho mai capito il parricidio».
Fortunato ad avere dei padri così.
«Aggiunga Karl Jaspers, che frequentai a Basilea e che mi avviò alla psicopatologia. E Mario Trevi, con cui feci il percorso psicoanalitico. Oggi l’analisi non è più possibile. L’ultimo che ho accompagnato per cinque anni è stato il regista Luca Ronconi. Ma solo perché lì c’era un uomo. Capace di riflettere, incuriosito dalla sua vita».
Eppure qui nello studio vedo che c’è ancora il lettino dello psicoanalista.
«Non ho mai smesso di ricevere. La gente mi chiede di risolvergli i problemi. Invece la psicoanalisi è conoscenza di sé: sapere chi sei è meglio che vivere a tua insaputa. Quanto al dolore, non lo puoi cancellare con i farmaci».
L’angoscia più frequente qual è?
«Quella provocata dal nichilismo. I ragazzi non stanno bene, ma non capiscono nemmeno perché. Gli manca lo scopo. Per loro il futuro da promessa è divenuto minaccia. Bevono tanto, si drogano, vivono di notte anziché di giorno per non assaporare la propria insignificanza sociale. Nessuno li convoca. Non potendo fare nulla, erodono la ricchezza accumulata dai padri e dai nonni».
Stanno male anche i genitori?
«Eccome. Senza che lo sappiano, non sono più autori delle loro azioni. Nell’età della tecnica sono diventati funzionari di apparato. Vengono misurati solo dal grado di efficienza e produttività. Nel 1979, quando cominciai a fare lo psicoanalista, le problematiche erano a sfondo emotivo, sentimentale e sessuale. Ora riguardano il vuoto di senso».
La mia è la prima generazione che consegna ai suoi figli un futuro ben peggiore di quello lasciatoci in eredità dai nostri padri, spesso nullatenenti.
«Fino a 37 anni ho insegnato storia e filosofia nei licei. Guadagnavo 110.000 lire al mese. Un appartamento ne costava 75.000 al metro quadro. In famiglia abbiamo tutti studiato. Le mie cinque sorelle frequentavano l’università e intanto facevano le colf. Oggi mi tocca aiutare la mia unica figlia, che ha tre bambini».



05/09/19

Baudelaire: "Il vero eroe si diverte da solo" (Il mio cuore messo a nudo)




Credere nel progresso è una dottrina da pigri, una dottrina da Belgi . E' l'individuo che conta sui suoi vicini per sbrigare le proprie faccende. 

Non può esservi progresso (vero, cioè morale) se non nell'individuo e mediante l'individuo.

Ma il mondo è fatto di gente che non può pensare se non in comune con gli altri, in bande. Come le Società belghe.

C'è anche gente che può divertirsi soltanto intruppata.  Il vero eroe si diverte da solo. 







29/03/19

100 film da salvare alla fine del mondo: 7. "Crimini e Misfatti (Crimes and Misdemeanors)" di Woody Allen (1989)


Questo blog dedica, ad appuntamenti fissi - ogni lunedì e ogni venerdì - un catalogo personale dei miei 100 film da salvare "alla fine del mondo".  Non saranno ovviamente vere e proprie recensioni, ma un piccolo campionario degli affetti per queste opere che hanno segnato epoche e vite di molti, se non di tutti. 

100 film da salvare alla fine del mondo: 7. Crimini e Misfatti (Crimes and Misdemeanors) di Woody Allen (1989)

Nella assai estesa filmografia Alleniana spuntano numerose perle, di differente sostanza e forma, la più perfetta è il dostoevskijano Crimini e Misfatti, girato dal talento newyorchese nel 1989. 

La trama è presto riassunta: l'oculista Judah Rosenthal (Martin Landau) tradisce la moglie Miriam (Claire Bloom) con la hostess Dolores (Anjelica Houston), ma quando questa mette in pericolo la sua tranquillità, la fa assassinare da un sicario e continua a condurre la sua vita senza neanche l'ombra di un rimorso.  Parallelamente a questa vicenda, si snoda quella dell'eterno perdente, il documentarista Cliff Stern (lo stesso Woody Allen) che, innamorato della bella Halley (Mia Farrow), la vede preferirgli l'arrogante Lester (Alan Alda), fratello di sua moglie Wendy (Joanna Gleason).

Girato in dieci settimane, nell'autunno del 1988, quasi interamente a New York (si riconoscono le sale del grande albergo Waldorf-Astoria al Tavern on the Green nel Central Park), Crimini e Misfatti è un brillante, amarissimo apologo sulla incapacità dell'uomo contemporaneo di orientarsi nelle questioni morali, quindi nelle relazioni, nei rapporti, e nel confronto con la propria coscienza.  E' - si potrebbe dire oggi - la preconizzazione, con quasi 30 anni di anticipo, delle teorie sulla società liquida e sull'amore liquido di cui ha teorizzato a lungo Zygmunt Bauman.

La grandezza estetica nel film è - oltre che nella perfetta sceneggiatura, un congegno mirabile, senza falle - nella magica fusione tra dramma e commedia.   Sotto la veste di una commedia apparentemente convenzionale, infatti, Allen dice cose serissime.   E, all'inverso, ogni considerazione che il film e i suoi controversi personaggi fruttano, è sottoposta alla lente dell'ironia e del tono della commedia.

Giunto al suo 19mo film e all'età di 55 anni, Allen regalò agli spettatori dunque il suo frutto più maturo, nel quale il riso si inasprisce (senza prendere i toni troppo bergmaniani di Interiors o di altri suoi film), e attraverso la metafora dell'oculista (di qualcuno cioè che di professione esamina gli occhi degli altri) illustra l'impossibilità di osservarsi veramente per ciò che si è e per ciò che si fa, in una sorta di moderno Delitto e Castigo, dove il senso di colpa è sostituito e completamente rimosso da un principio edonistico che domina la vita ordinaria borghese. 

Un criminale cioè senza rimorsi e un omicidio impunito fa da contraltare al fallimento nevrotico sentimentale di Cliff, mentre è alle prese con un documentario sulla figura di un eminente professore ebreo che incarna i valori veri o tradizionali, e che prima delle fine delle riprese si suicida.

Nel silenzio del senso (e di Dio), i due protagonisti, così differenti e così simili nel loro disorientamento, si incontrano in un'ultima lunga scena nella quale si confessano amaramente i propri sbagli e le proprie vite.

Insomma un grande film morale travestito da commedia, con attori in stato di grazia e una regia magnifica e impeccabile.

Candidato a 3 premi Oscar in quell'anno (miglior regia, migliore sceneggiatura, migliore attore non protagonista (Martin Landau)).

Fabrizio Falconi

Crimini e misfatti
(Crimes and Misdemeanors)
di Woody Allen
durata: 104 minuti
Usa, 1989





29/03/16

"Scenari" - lo scritto di Pasqua di Fabrizio Centofanti



Si cominciava a parlare di scenari. Ormai era chiaro che le profezie non riguardavano solo il Vaticano, l'attacco tremendo alla Chiesa che l'avrebbe costretta a rinnovarsi, ma un'area molto più vasta, e forse il mondo intero

I cento anni di dominio di satana sarebbero finiti coi fuochi d'artificio di una guerra totale, che avrebbe seminato la morte e innescato un meccanismo di autodistruzione che solo il Pantokrator, il Signore che tiene i fili e le trame della storia, avrebbe frenato al tempo giusto. 

Già parlavamo di ritorno all'essenziale, di valori che sarebbero riemersi, dopo la grande parentesi di confusione e di non senso, in cui ogni capriccio era un diritto, ogni voglia dell'io una legge da imporre con la forza o con la persuasione occulta. 

Stavamo toccando il fondo del liberismo e del libertinismo, la democrazia era ormai diventata una facciata che nascondeva il governo assoluto di pochi potentati e lo sfruttamento di una massa inconscia di obbedienti manichini manovrati dall'alto. 

La cultura procedeva con parole d'ordine cui tutti dovevano piegarsi; lobby intoccabili proclamavano del tutto indisturbate il loro verbo lascivo, viscido, sfuggente, e nello stesso tempo categorico e rigido, intollerante riguardo al pur minimo accenno di dibattito

Un'idea valeva l'altra, perché tutte finivano nel grande calderone di una dittatura invisibile e implacabile, fondata sull'apparente libertà dei social network, degli squallidi spettacoli dei media, proni alla ferrea volontà delle multinazionali del pensiero unico

Persino la fede era gestita da un'industria sofisticata e aggiornata del politically correct, dell'adeguamento al mondo. 

Era sempre più chiaro che la corsa verso il nulla sarebbe sfociata in un esito al contempo sorprendente e prevedibile: si sarebbe compreso, finalmente, che il male è male, e fa male. 

Da questa coscienza elementare si sarebbe generata la nuova civiltà; una bella mattina, ci saremmo guardati negli occhi dal fondale di un mondo totalmente rinnovato.

Qui il suo blog La poesia e lo spirito. 

foto in testa di Fabrizio Falconi

05/10/15

Oltre la Mente - Il senso di colpa. Un veleno (solo a volte) necessario.




Il senso di colpa è una forma della mente umana e una sua caratteristica principale. 

Gli animali non provano colpa. La colpa è legata alla nascita della coscienza.  Si potrebbe anzi dire che l'uomo si è differenziato dal resto della creazione naturale quando ha avvertito il senso di colpa per le proprie azioni (come è esplicato in molti racconti fondativi della religione, come la cacciata dall'Eden nel cristianesimo/ebraismo, per la colpa di aver mangiato il frutto proibito, quindi di aver trasgredito all'ordine divino). 

Il senso di colpa è un meccanismo naturale dunque per l'umano.  Colui che non prova mai colpa per il proprio operato, infatti, potrebbe definirsi non-umano o dis-umano. 

Ma c'è un ordine in cui il senso di colpa può diventare o diventa a tutti gli effetti un veleno per la nostra vita. 

Il senso di colpa è un sistema di allarme della coscienza.  Hemingway, semplificando nella sua elegante stringatezza, affermava che egli aveva un metodo infallibile per stabilire la morale dei suoi atti: come si sentiva dopo aver commesso una certa azione. Se si sentiva bene, l'azione era giusta, se si sentiva male (senso di colpa), era sbagliata. 

Certamente un metodo siffatto non può essere garanzia di un metodo universale. 

Molto spesso infatti, il senso di colpa ha a che fare molto di più con noi stessi che con la natura dell'atto che compiamo. 

Sensi di colpa di ogni tipo (giustificati e non) sono instillati infatti in noi sin dai primi o primissimi anni di vita.  Vi sono anzi non rari casi nei quali un intera sistema educativo - di una persona - è stato fondato sui sensi di colpa. 

Vi sono persone nelle quali questo senso è stato inoculato costantemente come un veleno. E da adulti, queste persone non sono più in grado di dire se il frutto delle loro azioni è la causa di ciò che vogliono veramente o di ciò che temono per evitare un senso di colpa divorante. 

E che dunque per riprendere in mano la loro vita hanno bisogno di depurarsi, di liberarsi del fardello che il senso di colpa fa gravare sulla loro vita, paralizzandole.

Vi sono anche persone che gratificate da questa liberazione, giungono al punto di rifuggire, per contrasto, qualunque senso di colpa.  E credono che la chiave per la felicità - ahimé grandemente illusoria - sia sostanzialmente l'infischiarsene della conseguenza dei propri atti. 

Il senso di colpa è, come ogni forma della mente, necessario. Ma è necessario solo se assolve alla sua funzione: quella di limite del libero arbitrio

Il senso del limite è connaturale alla mente.  Quasi subito la mente del bambino si accorge della presenza di limiti, che regolano il suo possibile comportamento (si può forse rifiutare il cibo, ma non si può infilare un coltello nella mano della mamma). 

Questo è dunque il senso ultimo della vita: l'accettazione del limite.  Inteso non come prigione, ma come possibilità di sviluppo. 

Nessuna pianta può svilupparsi, crescendo in orizzontale, nell'ombra. 

Ogni forma di vita ha bisogno di spingersi verso l'alto, osservando i propri limiti. 

Il riconoscimento dei limiti permette dunque anche di scoprire quali sensi di colpa siano inutili e anzi dannosi alla propria crescita.  E quali invece siano le sentinelle del nostro operare. Se abbiamo sbagliato, e siamo in grado di riconoscerlo, ciò è dovuto alla presenza della forma del senso di colpa.  
Se siamo convinti di aver trovato la chiave della nostra vita, anche i sensi di colpa devono essere attentamente valutati (e smontati del loro abito formale - quello che fa paura) per quello che ci chiedono e per quello che esprimono.  Soltanto così l'anima può pienamente ritrovarsi. Solo una com-prensione delle proprie zone erronee garantisce una evoluzione verso la piena consapevolezza.


Fabrizio Falconi (C) - 2015 riproduzione riservata




18/03/15

Su "Fargo". La banalità del male è più forte del male puro.




C'è genialità nella serie televisiva Fargo, del resto dominatrice dei premi della stagione. 

Quanto ci sia dei Coen è facile arguire. Perché l'opera si riconnette direttamente alla filmografia dei fratelli di St. Louis Park e in particolare al loro film omonimo, anche se con parecchie differenze. 

La serie televisiva - in dieci puntate - è una epopea sul male. Lester Nygaard (il bravissimo Martin Freeman) è il prototipo dell'uomo medio: middle class, assicuratore, mediamente sposato senza figli, mediamente infelice. Non intelligente, ma furbo. Deciso - con la forza della disperazione - a riscattare la frustrazione che ha fatto di lui un uomo eternamente vessato. 

Il corto circuito che manda in pezzi la vita di Lester è la capacità di uccidere a sangue freddo (e con violenza inaudita, come capita molto spesso leggendo le cronache dei giornali) l'insopportabile moglie (che lo vessa continuamente e lo giudica), durante un banale litigio.

Da lì comincia una furibonda lotta di Lester contro se stesso e contro tutto il mondo.  Di guaio in guaio entra in rotta di collisione con lo spietato killer Lorne Malvo (Billy Bob Thornton), epigono del male assoluto, uomo che ha scelto convintamente il male come filosofia di vita: l'esistenza è una giungla, le regole non esistono, esiste solo la legge del più forte.  Sopravvive chi è più forte.

Lester se la cava molto bene, e a lungo, per confondere - complice anche una polizia sgangherata, con l'eccezione della poliziotta Molly (Allison Tolman) - le tracce dei suoi misfatti.  Con incredibile nonchalance viola ogni regola morale, tradisce il fratello, lo fa incarcerare, passa sopra ogni affetto e ogni norma primaria di comportamento.

Lo scopo è sopravvivere. Lo scopo è rovesciare la frustrazione e trasformarla in sopraffazione. A scapito dunque di altri frustrati.  Lester  è un ambizioso.  Rappresenta il male banale di Harendtiana memoria, quello che sembra debole e goffo, normale  e prudente e invece è il più devastante. 

La capacità del plot è nell'indurre lo spettatore a schierarsi senza alcuna esitazione dalla parte del malvagio (ma gentleman) Lorne. A indurlo a sperare che sia il male puro a spazzare via quel microbo di Lester e a dargli la punizione che merita, in virtù del patto faustiano che i due hanno stipulato (è stato Lester a chiedere l'aiuto di Lorne, nella prima puntata, perché lo tiri fuori dal casino che ha combinato).

Ma - e qui c'è una avvertenza di spoiler (chi non ha ancora visto la fine, non vada avanti) - non sarà così.  Il sottovalutato Lester - il male banale - è molto più duro a morire e più pervicace di chi è male per istinto, per purezza costitutiva. 

Ad affondare Lester (in tutti i sensi) sarà solo il destino. Il ghiaccio che si sbriciola sotto i suoi piedi e lo inghiotte è una efficace metafora del fatto che prima o poi tutti i giocolieri finiscono per cadere vittime della propria ambizione (il vero male in senso lato).   Non a caso Molly non è ambiziosa. Non è nemmeno così interessata alla carriera. Lo è nel modo giusto, sano. E' una persona che sa stare al suo posto. E' questo, forse che le permette di vedere - l'unica che riesce a vedere - quello che gli altri non vedono. 

In questo senso Fargo è una leggenda morale nera (il tocco leggiadro della narrazione la rende altamente spettacolare) che parla al cuore di ognuno di noi, costringendo a farsi continue domande: cosa si salva ? cosa resta ? perché si è così prigionieri ? perché non si sa apprezzare nulla (dei doni) dell'esistenza ? perché il nostro sistema è così disincarnato ? perché siamo sempre più soli ? perché non riusciamo più a comunicare ? perché non troviamo conforto se non nella nostra dissoluzione ?

Fabrizio Falconi 

20/07/14

Dico bugie ma non sono un bugiardo: la morale che cambia con la latitudine.





I comportamenti fanno l'uomo ?

Una volta, se ne era convinti. Una morale molto rigida, costituzionalmente basata sui principia affermava che un uomo che dice bugie è un bugiardo, un uomo che ruba è un ladro, un uomo che uccide è un assassino, un uomo che insulta un altro uomo perché ha la pelle di un colore diverso è un razzista

Da qualche parte del mondo è ancora così.

I popoli anglo-sassoni, i popoli del nord europa (quel che ne rimane, vista la globalizzazione rampante) hanno fondato antropologicamente i loro costrutti morali su secoli di protestantesimo:  una persona che dice bugie in privato  - e che è dimostrato che le dica -  è un bugiardo.  E' altamente probabile dunque che sia un bugiardo anche nella vita pubblica, e il legittimo sospetto vale già a screditarlo. 

Per questo l'apparentemente anacronistico rito del giuramento sulla Bibbia dei presidenti americani ha avuto, per Clinton e altri un effetto così radicale, e così incomprensibile per noi latini.

I latini, infatti, sulla base di stratificazioni antropologiche basate su secoli di cattolicesimo, hanno sempre creduto e professato un doppio binario della moralità:  vizi privati e pubbliche virtù. 

Posso anche dire bugie in privato, posso commettere atti immorali in privato, ma pubblicamente essere irreprensibile. Chi potrà giudicarmi ?  E se anche verrò giudicato, ci sarà un ministro di Dio capace di assolvermi (è un dovere della religione che professa). 

Questo vulnus mentale è talmente radicato in Italia che ormai coinvolge ogni sfera del vivere comune.  Da Guicciardini e Machiavelli, di strada ne è stata fatta tanta.

Con sincera stupefazione, oggi, personaggi pubblici (non necessariamente politici, di qualunque professione o attività), si schermiscono quando qualcuno pretende di giudicarli in base ai comportamenti che hanno esibito.  
Chi può giudicare ?
Il giudizio non è stato definitivamente sospeso ?  Non viviamo  in un mondo finalmente libero dai giudizi ? Non fu quel Tale a dire "chi è senza peccato scagli la prima pietra?"

Fabrizio Falconi



07/09/12

Michel Serres: "E' il coraggio quello che manca oggi."




Michel Serres è uno straordinario intellettuale.  E le sue parole non sono mai 'neutre', non passano mai senza lasciare il segno come si vede nel video qui sopra che testimonia una sua - divertente - non consueta apparizione in una trasmissione televisiva. 

Un mio caro amico recentemente mi ha riferito la risposta che Serres ha dato, durante una riunione tra amici, quando gli è stato chiesto: “qual è, tra le virtù umane, la più importante?” .

Serres ha risposto: “Il coraggio.” L’interlocutore è rimasto interdetto perché si aspettava un’altra risposta, forse più scontata: la generosità, l’amore per gli altri, l’intelligenza, ecc..

Serres ha specificato che per lui oggi il coraggio è più importante delle altre qualità o virtù umane. Ed è sempre più decisivo. Ogni attitudine umana, dice - pensiamo alla politica, al giornalismo, o anche la fede – senza il coraggio, oggi non vale niente.

Occorre coraggio, si potrebbe aggiungere, nelle vite omologate di oggi, per raggiungere la pienezza dei propri convincimenti, per riconoscere anche la propria umanità, visto che nel mondo liquido di cui si parla tanto oggi e nel quale sembreremmo precipitati, c’è il rischio di annegare.

Ci vuole coraggio per essere se stessi. Ci vuole coraggio per avvicinare gli altri (la distanza è il nostro parametro preferito, attualmente, l’unica misura che sembra ci faccia dormire sonni relativamente tranquilli) e per fidarci di loro.

Ci vuole coraggio per pronunciare le cose con il loro nome e per rendere il pane alla verità, quando la verità – è affermato da ogni parte – non esiste più, anche se si continua a nascere, vivere e morire, e tutto questo sembrerebbe VERO, se solo fossimo capaci di osservarlo con occhi primigeni.

Ci vorrebbe il coraggio di un Cristo per tornare a stabilire la forza dell’aut-aut e non dell’et-et che oggi ci ha soggiogati del tutto. “Non potete servire Dio e la ricchezza” dice, con lingua tagliente, ed è una sentenza che non ammetterebbe discussioni e distinguo. Eppure, come siamo divenuti abili a discernere, a disquisire, a stemperare e ad annacquare. Come siamo divenuti poco coraggiosi.

14/07/12

Susanna Tamaro: Raccontare il bene, con parole semplici. Una riflessione.



E' una riflessione molto importante quella oggi pubblicata sul Corriere della Sera, in prima pagina a firma Susanna Tamaro, una scrittrice di solito molto snobbata dalla intellighentsia (?) conformista di questo paese.  Eppure son rimasto molto colpito leggendo, perché sono i temi - espressi con chiarezza e lucidità - sui quali insisto io stesso da molto tempo e che mi sembrano i più urgenti oggi, quelli che pure - prima o poi - sarebbe il caso di affrontare seriamente. 

In un pomeriggio di calura estiva, rovistando nel disordine delle mie librerie, ho ritrovato un libretto a me molto caro. Risale al 1973 e raccoglie otto conferenze di Konrad Lorenz incentrate sui peccati capitali della nostra società. Ho sempre considerato Lorenz uno dei miei grandi maestri, senza la ricchezza della sua opera la mia visione del mondo probabilmente sarebbe molto più povera. La mia formazione, infatti, è da naturalista e con lo sguardo da naturalista ho sempre osservato la realtà che mi circonda. Con lo stesso sguardo umile e appassionato provo a fare delle riflessioni sulla crisi che ha investito il mondo occidentale e che ora, a quattro anni dal suo inizio, sembra essere arrivata al culmine.

Lo spirito generale che si respira in Europa è simile a quello di Lucignolo e Pinocchio che, dopo aver gozzovigliato nel Paese dei Balocchi, scoprono l'amara realtà del mondo di Mangiafuoco. Se mi guardo in giro, infatti, mi sembra che molti padiglioni auricolari si stiano allungando e coprendo di una morbida peluria grigia: appartengono a tutti coloro che, in questi anni, avrebbero dovuto vigilare sul bene comune e immaginare un progresso in cui l'umano, nella sua accezione più alta, ne costituisse il fulcro e invece non l'hanno fatto. Orecchie pelosi e nasi lunghi! Come sarebbe bello se accadesse davvero, se si potessero individuare tutte quelle persone che hanno perpetrato allegramente il Grande Inganno; coloro, cioè, che, con certosina precisione, hanno ridotto la complessità della natura umana a un'unica dimensione, quella del consumo edonista e della sua inestinguibile sete. Si è trattato di un processo lungo, abile e ambizioso il cui risultato è sotto gli occhi di tutti. Le società dei paesi occidentali non sembrano ormai molto diverse da quelle dei lemming, quei piccoli mammiferi nordici che, senza una ragione apparente, si suicidano in massa lanciandosi in mare dalle scogliere.

21/05/12

Josif Brodskij e il Male.







Il male mette radici quando un uomo comincia a pensare di essere migliore di un altro. 

Josif Brodskij  (Leningrado, 24 maggio 1940 – New York, 28 gennaio 1996)

24/04/12

La conseguenza del bene. E il male.




Qualche giorno fa, durante una bella conversazione, un caro amico (e poeta), Fabrizio Centofanti mi ha detto che un sacerdote - come è lui - "trascorre la metà del tempo della sua giornata a rispondere a domande (dei fedeli)  come queste: perché esiste il male nel mondo; perché c'è tanta gente che è dedita al male; e a cosa serve il male, e chi lo manda, se è Dio o cosa." 

Mi ha fatto pensare. 

Il nodo del male è quello intorno al quale ci interroghiamo sempre, senza venir mai a capo: mette a nudo ogni dubbio, ogni certezza. 

Quel che penso è che c'è una ragione abbastanza semplice per la quale per gli uomini sembra molto più semplice inclinar-si verso il male (nelle sue più diverse gradazioni, dai mali più veniali a quelli più violenti) anziché verso il bene. 

La ragione è nella conseguenza dei comportamenti. 

Dal male - da chi compie il male - non ci si aspetta infatti di essere conseguente:  chi commette il male, anzi, sa già in partenza che quel che ci si aspetta da lui sarà che egli smetta di compierlo. 

Il male ha come conseguenza che ci si attende un atteggiamento contrario: un ravvedimento, un pentimento, una riparazione.   E' un elemento archetipico delle comunità umane.   Che oggi raggiunge forme paradossali e tragico-surreali quando per esempio a qualcuno che ha appena compiuto un omicidio, o una malefatta qualsiasi arriva puntuale l'insulsa domanda di qualche interlocutore:  "è pentito?" "Si è pentito".  

E alla vittima: "lo perdonerà ?"  "Perdonerà?"

Quasi il pentimento e il perdono fossero procedimenti automatici come il gorgogliare delle fiches nella vaschetta di una slot machine dopo che si è azionata la leva. 

Chi fa il male dunque, sa che non deve promettere niente. 

Anzi, se smentirà quel che ha fatto, se contraddirà il male compiuto, riceverà probabilmente un coro di plauso e ognuno gli dirà bravo (ammesso che si sia capaci di perdonare veramente). 

Al bene invece, al contrario, si chiede, anzi si pretende, di essere conseguente. 

Avete mai provato ad osservare cosa accade quando ponete in essere nei confronti di qualcuno un atto realmente gratuito, buono, non dovuto ? 

La persona che riceve il vostro gesto da quel momento si attende qualcosa da voi: più esattamente si aspetta che i vostri comportamenti siano conseguenti (coerenti) con quel gesto.

E sarà, come è ovvio, anche molto lesta a giudicare nel caso che l'annunciato bene non sia conseguente con i vostri comportamenti futuri.

Al bene si chiede sempre di essere conseguente perché il bene comporta responsabilità - al contrario del male che non ne comporta alcuna perché "c'è sempre un alibi, c'è sempre una scusa, c'è sempre un motivo per cui si è fatto il male." 

Il bene invece, il bene vero, non ha motivo. E' - appunto - gratuito, è pura gratuità. 

Per questo è così difficile compiere il bene. Per questo gli uomini, se possono scegliere, inclinano se stessi verso il semplice (arendtianamente banale) male.  Perché il male è facile, e non comporta impegno, non comporta nessuna responsabilità - se non quella della legge penale degli uomini - nessuna irrevocabilità. 

C'è sempre un tempo per redimersi, un tempo per pentirsi, un tempo per perdonare.

Il bene invece, non ha tempo.  Il bene è una linea diretta e il cuore degli uomini ha paura di attraversarla, come un highliner sospeso ad alta quota sulla sua linea di nylon:  sempre con la paura di cadere, e di non essere all'altezza.

Fabrizio Falconi

01/01/12

Il relativismo inevitabile ? Risposta a Dario Antiseri.


Ogni tanto c’è qualcuno che si sveglia e pontifica per convincerci tutti che il relativismo è l'unica cosa sensata che ci resta, proprio perché inevitabile. E sarebbe prova di buon senso e ragionevolezza convenire che nessuna verità - specie in campo etico - è affermabile, e/o credibile.

Ora è la volta di Dario Antiseri, che il 30 dicembre sulle pagine del Corriere della Sera, di spalla all'articolo di Gillo Dorfles sul 'nuovo illuminismo', bacchetta severamente: "il relativismo è inevitabile" (riporto l'articolo integralmente a fine di questo post). 

Ogni opinione è rispettabile, se ben argomentata, e Antiseri è ormai con una vasta schiera di pensiero, in buona e numerosa compagnia. 

Il problema però è che i suoi argomenti risultano molto discutibili.


L'uso di Pascal, innanzitutto, per sostenere l'inevitabilità del relativismo, mi appare davvero singolare.  E' ben strano riportare il celebre passo dei Pensieri sulla singolare giustizia che ha come confine un fiume, dimenticando di sottolineare che Blaise Pascal non è ovviamente solo il filosofo dell'uomo in bilico eterno tra infinito e nulla, ma è quel filosofo capace di rovesciare la condizione di totale incertezza umana (dovuta poi perlopiù secondo il pensatore di Clermont-Ferrand proprio alla 'mancanza umana', alla incompletezza e alla cecità propria della condizione terrestre, spiegabile in termini mitico-teologici con il peccato originale) con l'affidamento alla fede, e non ad una fede qualunque, ma alla fede cristiana, riconosciuta come vera.

Sappiamo di non sognare; per quanto siamo impotenti a darne le prove con la ragione - scrive Pascal  nel Pensiero 282 - questa impotenza ci porta a concludere per la debolezza della nostra ragione, ma non per l'incertezza di tutte le nostre conoscenze [...]. Infatti la conoscenza dei principi primi [...] è più salda di qualunque altra che ci viene dai nostri ragionamenti. E proprio su tali conoscenze del cuore e dell'istinto la ragione deve appoggiarsi, e su di esse fondare tutto il suo ragionamento. [...] Questa impotenza non deve dunque servire che ad altro che ad umiliare la ragione -la quale vorrebbe giudicare di tutto-, ma non già a combatter la nostra certezza [...].

Antiseri, poi, per contestare l'esistenza - e la possibilità di discernimento - di un qualsiasi fundamentum inconcussum rationale, cita la famosa massima: la scienza sa, l'etica valuta.  Anche su questo ci sarebbe così tanto da discutere, ed è un po' curioso che Antiseri lo ponga come assioma.

Per esempio: cosa sa, esattamente, la scienza ??

Ogni giorno le acquisizioni in campo scientifico - l'ultima quella sui neutrini super veloci - ci dimostrano che la scienza sa soltanto quello che verrà smentito domani. E' stato così fin dalla notte dei tempi e sarà sempre così.   Non esiste niente più veloce della luce. E' vero finché non viene dimostrato il contrario. Come sta avvenendo ora.

A parte le conoscenze puramente scientifiche provvisorie, poi, la scienza non sa e non può dire nulla, soprattutto, sulle cosiddette questioni ultime.  Chi siamo, dove siamo, perché siamo qui, che succede dopo la morte.   Come ha scritto recentemente George Steiner, in 2000 anni di progresso scientifico, le nostre conoscenze in questi campi non hanno fatto un solo passo in avanti.  

Ma la cosa davvero più singolare dell'articolo di Antiseri è la chiosa finale, nella quale, rivolgendosi ai cattolici antirelativisti, egli scrive: "vi pare facile replicare a Karl Heim quando scrive che i cristiani contemporanei dovrebbero dare il loro sostegno a coloro che relativizzano il mondo e l'uomo ?"

Davvero ciò che chiede Heim e che auspica Antiseri è una specie di ossimoro, di contraddizione in termini. Finché si parla in termini di conoscenza scientifica, o pensiero razionale,  ogni punto di vista è contestabile.  Ed è giusto che lo sia.

Ma come è perfino troppo ovvio per chi si muove in un ambito di fede - cioè affidamento - che pure per questo non vuole e non pretende di escludere la ragione (ma si muove nelle possibilità che la ragione offre),  un cristiano (non necessariamente un cattolico) non può in alcun modo offrire - e non offrirà mai - il sostegno a coloro che relativizzano il mondo e l'uomo.

Per la semplice ragione che i cristiani credono non in una serie di dogmi, o princìpi comuni, ma in una persona.  Cioè nel Cristo.  Colui che - secondo il racconto dei Vangeli - affermò senza possibilità di fraintendimenti:   Io sono la verità, la via, la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. (Gv.14.6).

Per un cristiano dunque non soltanto il relativismo non può esistere, per quanto riguarda l'uomo e il mondo. Ma esiste, all'opposto la Verità.   E la Verità - per un cristiano - è una soltanto, quella che si incarna nella persona di quell'uomo, che è Dio.

Fabrizio Falconi

07/11/11

Ricominciare. 12 cose da cui ripartire. (testo completo).



RI-COMINCIARE.  Da dove ?
(12 cose da cui ripartire)

Di Fabrizio Falconi


1  UMILTA'.

Ripetersi ogni giorno, almeno 1 volta al giorno che non si è speciali, non si è indispensabili, non si è migliori.

Anche se l’intera nostra vita sembra costruita sulla presunzione - o  sulla rassicurante certezza -  che noi siamo speciali, che il nostro amore è speciale, che il nostro lavoro è speciale, che quello che noi diciamo, pensiamo o facciamo, è speciale. E implicitamente, migliore.

Ripetersi che la storia umana è il procedere di miliardi di esseri umani come me. Che la loro traccia lasciata nella storia esteriore dell’umanità è praticamente nulla, nella stra-grandissima maggioranza dei casi.

Ripetersi che – se anche abbiamo un disperato bisogno che qualcuno ci dica che noi siamo speciali – in realtà speciali non lo siamo affatto.

Se il cammino del mondo ha un senso, lo ha solo nella VERA umiltà, che è quello di una profondaconsapevolezza che noi siamo ‘humus’, (da cui ‘humilis’).

L’umiltà è quando non pensi a ciò che ti verrà riconosciuto, ma a ciò che tu potrai riconoscere ad un altro, anche semplicemente per il suo ‘grazie’.

L’umiltà è per questo la virtù umana più difficile, rara e preziosa.

L’umilità, come scrisse Mario Soldati, è quella virtù che, quando la si ha, si crede di non averla.

(C) Fabrizio Falconi - 2011 (continua).

04/10/11

Corrado Guerzoni - "Il valore della parola" - Un ricordo.


A proposito di Corrado Guerzoni, scomparso l'altro ieri, a Roma, vorrei riportare qui un ricordo personale che risale al 1987.

Guerzoni era allora direttore di Radiodue, la seconda rete radiofonica della Radiorai - allora seguitissima - (incarico che ricoprì per 12 anni consecutivi) e conduttore in primis di quella fortunata trasmissione che si chiamava "Radiodue 3131".

"Radiodue 3131" era l'erede di quella trasmissione, "Chiamate Roma 3131", condotta all'inizio da Gianni Boncompagni e Franco Moccagatta (prima trasmissione il 7 gennaio 1969) che rivoluzionò completamente il mezzo radiofonico, con l'introduzione delle telefonate degli ascoltatori  (tutta l'epopea del 3131 dal 1969 al 1995, che ha attraversato l'arco di trent'anni cruciali nella storia italiana, è ricostruita in un prezioso volume scritto da Raffaele Vincenti, La prima volta del telefono, edito dalla RaiEri, con dvd, nel 2009).

Guerzoni - con la determinante partecipazione di Lidia Motta, geniale capostruttura della Rai di allora, e suo "braccio destro" - prese in mano la trasmissione nel 1982, cambiandone completamente l'identità.   Da trasmissione 'confidenziale', dal tono tutto sommato 'leggero',  3131, sotto la guida di Guerzoni si trasformò in un vero strumento di ricerca giornalistica.  Ogni argomento veniva affrontato da diversi punti di vista, con l'ausilio di tecnologie allora del tutto sperimentali - lo studio mobile, le radio-macchine, i collegamenti dagli angoli più remoti d'Italia - e con la ricerca di un dialogo con gli ascoltatori basato sul "valore della parola", come strumento creativo, di crescita personale (non di chiacchiera), di conoscenza e consapevolezza, in una parola di responsabilità.

Guerzoni era un giornalista.  Che veniva da una esperienza drammatica: quella di aver esercitato per diversi anni il ruolo di portavoce dell'on. Aldo Moro.  Dopo la sua barbara esecuzione da parte delle BR, Guerzoni lasciò la politica. Tornò al giornalismo e decise di farlo in un modo tutto suo: non gli interessavano tanto le notizie - gli interessavano anzi assai poco - quanto il nostro modo di osservare il mondo e di farne parte.  Era convinto che la parola fosse immedesimazione nell'altro, condivisione, possibilità e capacità delle anime di farsi dia-logo, di partecipare ad una comunità allargata, che si interroga e interroga le proprie ansie e le proprie questioni cruciali.

Guerzoni era un accanito lettore: pur essendo come egli si definiva "incompetente" teoricamente, amava leggere di tutto, poesia e prosa, filosofia e teologia, i classici.

Così, nell'estate del 1987, Guerzoni, insieme a Maurizio Ciampa - filosofo e conduttore del 3131 notte (altro luogo deputato alla sperimentazione comunicativa)  - pensò di provare a scrivere un testo, insieme a colleghi molto più giovani di lui.

Fummo "convocati" in 5: oltre a Ciampa, Francesco Malgaroli, Gabriella Mangia, Stefano Rizzelli ed io.

L'idea era quella di un "work in progress": non avevamo un canovaccio pre-stabilito. Non più di tanto. Guerzoni pensò di realizzare una serie di incontri nel suo ufficio di Viale Mazzini. Incontri nei quali noi lo avremmo sollecitato su questi temi - cosa vuol dire parlare con qualcuno, esiste una coscienza o una verità delle parole, come si può guardare nel cuore del prossimo, che cosa comporta che il mondo ormai sia un enorme luogo dove tutti parlano e quasi nessuno ascolta - e lui avrebbe risposto "a ruota libera"; come una specie di confessione, interrogandosi - lui per primo - sul senso del lavoro che faceva tutte le mattine, quando si accendevano i microfoni nella R7 di Via Asiago.

Ho un ricordo personale fortissimo di quegli incontri. Noi eravamo molto giovani, freschi di studi, e con la presunzione di sapere molte più cose di quelle che in effetti conoscevamo.  Guerzoni però si fidava ciecamente di noi.  Voleva darci questa chance di fare il libro insieme a lui, di vederlo crescere insieme.  Di firmarlo perfino insieme a lui.

Realizzammo parecchi incontri - non ricordo se sei, sette - e furono ore meravigliose.  Il Guerzoni che ricordo durante quegli incontri era per me piuttosto stupefacente. Pur parlando "a braccio" non fu mai, nemmeno una volta, banale.  Le sue riflessioni erano meditate e pacate, ma dimostravano i frutti di una ricerca personale colta e approfondita, sollevavano questioni primarie, per noi che iniziavamo a fare quel lavoro di 'interrogazione della realtà' che è e dovrebbe sempre essere il giornalismo.   Ci offriva, ci offrì la sua visione di quel mondo, che doveva essere prima di tutto 'morale', cioè rispondere ad un senso di responsabilità profonda: quello della in-violabilità del mistero dell'altro, che è sempre di fronte a noi, e che anche quando sceglie di aprire se stesso, la sua anima, i suoi pensieri, resta altro.

Confidava però molto nella capacità della parola di "cambiare gli uomini", e in definitiva di cambiare anzi il mondo. Era questa la speranza - o la fede, o tutte e due le cose insieme - che agitava il suo lavoro e la sua ricerca personale, sempre inquieta, alle prese con la apparente e angosciosa "irremediabilità" del mondo.

Il libro uscì l'anno seguente, pubblicato dalla SEI di Torino, intitolato "Il valore della Parola".

Aveva faticato molto a congedarsi dal libro, concedendo il "visto si stampi".  Nelle conclusioni finali, rendendosi conto che c'era già qualcosa che premeva urgentemente "oltre" il libro,  scriveva: Del resto è la vita che butta per aria i libri, è l'esperienza che facciamo ogni giorno e ogni sera che scompiglia le nostre idee, che soffia nei nostri sentimenti, nelle nostre azioni, nelle nostre reazioni, che ci espone al rischio insito nel vivere stesso."

Vivere, rischiare, esporsi, assumersi "la grave responsabilità" del parlare con la gente, con milioni di persone ogni giorno. L'intera esperienza di vita di Guerzoni - e l'eredità grande che ci ha lasciato a noi che abbiamo avuto la notevole fortuna di lavorare con lui - si è giocata tutta tra questi due apparenti estremi: vita e parola. 

Fabrizio Falconi



22/09/11

Carnage, il nuovo film di Roman Polanski. La recensione.


Carnage, il film di Roman Polanski (tratto dall'opera teatrale di Yasmina Reza) è quella che una volta si sarebbe chiamata operetta morale.

Bastano poco più di 70 minuti per mettere in scena, con una efficacia tragica e comica insieme, la disperazione della condizione umana, di occidentali all'alba del terzo millennio.

Il pretesto narrativo è noto: in una lite al parco, un ragazzino di 11 anni colpisce un coetaneo al volto con un bastone. I genitori, due coppie di Brooklyn, decidono di incontrarsi per discutere del fatto e risolvere la cosa da persone civili. Gli iniziali convenevoli si trasformano però subito in battibecchi velenosi e il comportamento delle due coppie degenera in situazioni paradossali.

Quel che qui interessa - a parte l'inaudita bravura dei 4 interpreti claustrofobicamente chiusi nell'appartamento middle class newyorchese, Jodie Foster/Penelope, Kate Winslet/Nancy, John C.Reilly/Michael, Christoph Waltz/Alan) è quello che quest'opera ci racconta, a noi, disincantati e spersi viaggiatori di questi tempi fragili.

Credo che davvero ci sia molto da riflettere. E questo film parli da molto vicino di noi.

Penelope, Nancy, Michael e Alan partono con tutte le migliori intenzioni (riparare una brutta cosa, la violenza dei figli, nel modo più civile).

Ma come scrisse quel tale, delle migliori intenzioni è lastricato l'inferno.

Ed ecco così che in quei 70 minuti quello che si spalanca davanti agli occhi di ciascuno dei 4 'operatori di pace' sarà proprio l'inferno: il personale inferno e quello degli altri tre. Tanto è vero che: questa è la giornata più infelice della mia vita, ripeteranno uno dopo l'altro, a conclusione dello spettacolo osceno che metteranno  in scena, dando generosamente ciascuno il peggio di sé 


Ecco, ma perché l'operazione di pace fallisce così clamorosamente ? Perché i 4, incapaci di trovare un minimo di accordo su ciò che è giusto fare, o al limite anche solamente ciò che è giusto dire, finiscono con l'assecondare i loro peggiori istinti ?

L'operetta morale di Reza/Polanski è particolarmente preziosa, perché ci illumina su una delle caratteristiche primarie del nostro tempo e - ahimè - della generazione dei 50enni che oggi questo tempo dovrebbe illuminare di senso, dirigere, orientare: l'inautenticità. 


Penelope, Nancy, Michael, Alan, non sono persone autentiche.

Non è autentico il cinismo adulto di Alan, alle prese con la sua dipendenza dal gioco degli affari e dalla tecnologia del telefonino; non è autentico il nichilismo di Michael, fragile come un bambino; non è autentica la disperazione di Nancy, borghese annoiata e viziata, non è autentico il volontarismo altruistico di Penelope, fatto di stereotipi. 


Penelope, Nancy, Michael, Alan, alle prese con una questione morale piuttosto semplice:  di chi è la colpa di ciò che è successo ? Perché due ragazzini si sono picchiati selvaggiamente ? come si può riparare il danno ? vanno nel pallone più totale.

Non sono in grado di stabilire risposte morali, perché in realtà non conoscono cosa è la morale. E non conoscono (più) la morale, perché ormai da troppo tempo vivono come bambini, senza la più piccola consapevolezza di cosa sono diventati, di quel che sono come persone. Non sanno nulla delle proprie anime. Dunque, non sono in grado di dire nulla di sensato su ciò che è il mondo, su ciò che bisognerebbe o non bisognerebbe fare. Sono allo sbando. 


Le frasi che ripetono ossessivamente sono soltanto formule senza significato, che tentano penosamente di riempire il vuoto delle loro vite.  Il cinismo (Alan), il nichilismo (Michael), il capriccio (Nancy), il volontarismo (Penelope) sono soltanto le figure e i nomi che hanno saputo dare, in mancanza di meglio, a un vuoto esistenziale spaventoso.

E' piuttosto eloquente - e geniale - il fatto che l'epilogo del film (chi ancora non l'ha visto può astenersi dal leggere ulteriormente)  sia l'immagine dei due bambini - che all'inizio abbiamo visto all'inizio picchiarsi - riconciliati. Naturalmente riconciliati.

Può essere anche una chiave di lettura generazionale.  Le nuove generazioni - forse - sapranno fare a meno di queste orrende sovrastrutture mentali (inautentiche) che hanno ucciso il pensiero delle generazioni precedenti, dei quarantenni/cinquantenni, partiti con le migliori intenzioni per cambiare il mondo e finiti ad annegare la loro disperazione nell'alcol, nei sigari e nel vomito incontrollato. 

La riappropriazione della vita, comincia da piccoli gesti. Come quello di perdonare e di comprendersi.  E soprattutto di non spaccare ogni pretesa di verità  in infinite piccole derive personali senza spessore, senza sofferenza vera, senza dolore vero, senza pathos vero, che avvelenano la vita rendendola, per l'appunto, un inferno.  

Fabrizio Falconi

22/02/11

Cosa è il Buono.



Entrare in casa di una povera vecchia, cieca, e derubarla di una macchina fotografica è una azione moralmente buona ? Certamente no, si direbbe.
Invece, nel "Racconto di natale" di Paul Auster, mirabilmente reso da un grande attore come Harvey Keitel, e poi sceneggiato in bianco e nero, sulle note di Tom Waits - "Innocent when you dream" - si scoprono molte cose.
Si può scoprire che una azione apparentemente malvagia - un furto, di nascosto ad una anziana cieca - può essere inserita in un contesto e quindi in un significato totalmente positivo, totalmente buono.
Buono è la parola giusta oggi. Buono. In un momento nel quale, in questo paese, sembriamo aver smarrito anche la via più semplice al buon senso (lo scetticismo etico che sembra aver ottenebrato le menti), a ciò che è bene e ciò che è male, a ciò che anche un bambino sa, e noi facciamo finta di aver dimenticato, nelle nostre vite alienate, prive di senso.

09/03/09

Vito Mancuso - non c'è fede senza libertà.


Cari tutti, vi posto l'articolo "La Chiesa e la bioetica non c'è fede senza libertà" pubblicato oggi da La Repubblica, in prima pagina.

di Vito Mancuso

Le gerarchie cattoliche sottolineano spesso che i loro interventi sui temi bioetica sono condotti sulla base della ragione e riguardano temi di pertinenza della ragione, legati alla vita di ognuno, non dei soli cristiani. Per questo, aggiungono, tali interventi non costituiscono un`ingerenza negli affari dello stato laico. Scrive
per esempio il recente documento Dignitas persone che la sua affermazione a proposito dello statuto dell`embrione è «riconoscibile come vera e conforme alla legge morale naturale dalla stessa ragione» e che quindi, in quanto tale, «dovrebbe essere alla base di ogni ordinamento giuridico».

Allo stesso modo molti politici cattolici rimarcano nei loro interventi sulle questioni bioetiche che parlano non in quanto cattolici ma in quanto cittadini. Va
quindi preso atto che le posizioni cattoliche sulla bioetica, sia nel metodo sia nel contenuto, si propongono all`insegna della razionalità. Se questo è vero, se si tratta davvero di argomenti di ragione per i quali «mestier non era parturir Maria» (Purgatorio 111,39), allora le posizioni della Chiesa gerarchica sulla bioetica
sono perfettamente criticabili da ogni credente.

L`esercizio della ragione è per definizione laico, non ha a che fare con l`obbedienza
della fede e il principio di autorità. Chi ragiona, convince o non convince per la forza delle argomentazioni, non per altro. Per questo vi sono non-credenti che approvano gli argomenti razionali delle gerarchie convinti dalla coerenza del ragionamento, per esempio gli atei devoti.

Ma sempre per questo vi sono credenti che, non convinti dal ragionamento, non approvano tutti gli argomenti razionali delle gerarchie in materia di bioetica. Deve essere chiaro quindi (se davvero la base dell`argomentazione magistrale è la ragione) che la posizione critica di alcuni credenti verso il magistero bioetico è del tutto legittima. Se la gerarchia gradisce la convergenza degli atei devoti in base alla sola ragione, allo stesso modo, sempre in base alla sola ragione, deve accettare (se non proprio gradire) la divergenza di alcuni credenti, peraltro non così pochi e privi di autorevolezza.

Sempre che, ovviamente, le gerarchie non pensino che la razionalità valga solo "fuori" dalla Chiesa e non anche al suo interno, dove vale invece solo l`autorità, istituendo una specie di disciplina della doppia verità. E sempre che le medesime gerarchie amino davvero la razionalità e che il richiamarsi ad essa non sia
invece un trucco tattico (come io credo non sia).

In realtà nessuno può chiedere obbedienza sugli argomenti di ragione perché l`obbedienza viene da sé, come di fronte a un risultato di aritmetica o a una norma morale fondamentale. Per questo io penso che agli argomenti di ragione occorrerebbe lasciare maggiore duttilità, visto che la ragione, da che mondo è mondo, esercita il dubbio, soppesai pro e i contro, e per questo vede grigio laddove invece altri (che non amano la calma della ragione ma forme più nervose di autorità) vedono solo bianco o solo nero.

Intendo direche proprio il richiamo alla ragione da parte delle gerarchie cattoliche dovrebbe indurre a una maggiore relatività del proprio punto di vista di fronte alla complessità dell`inizio e della fine della vita alle prese con le possibilità aperte dal progresso scientifico. La cautela è tanto più auspicabile se si prende atto
della storia. La Chiesa dei secoli scorsi infatti non è stata in grado di interpretare sapientemente l`evoluzione sociale e politica dell`occidente, finendo per condannare pressoché tutte quelle libertà democratiche che ora, invece, essa stessa riconosce: libertà di stampa, libertà dì coscienza, libertà religiosa e in genere i diritti delle democrazie liberali.

Allo stesso modo, a mio avviso, le odierne posizioni della gerarchia corrono il rischio di non capire la rivoluzione in atto a livello biologico, respinta con una
serie di intransigenti no, pericolosamente simili a quelli pronunciati in epoca preconciliare contro le libertà democratiche. Ora io mi chiedo se tra cento anni i principi bioetici affermati oggi con granitica sicurezza dalla Chiesa saranno i medesimi, o se invece finiranno per essere rivisti come lo sono stati i principi della morale sociale.

Siamo sicuri che la fecondazione assistita (grazie alla quale sono venuti al mondo fino ad oggi più di 3 milioni di bambini, di cui centomila in ltalia) sia contraria al volere di Dio? Siamo sicuri che l`uso del preservativo (grazie al quale ci si protegge dalle malattie infettive e si evitano aborti) sia contrario al volere di Dio? Siamo sicuri che il voler morire in modo naturale senza prolungate dipendenze da macchinari, compresi sondini nasogastrici, sia contrario al volere di Dio?

E per fare due esempi concreti legati a precise persone: siamo sicuri che si sia
interpretato bene il volere di Dio negando i funerali religiosi a Piergiorgio Welby perché rifiutatosi di continuare a vivere dopo anni legato a una macchina? E siamo sicuri che si sia interpretato il volere di Dio chiamando "boia" e "assassino" il signor Englaro, salvo poi aggiungere, non so con quale dignità, di pregare per lui?

Mi chiedo se tra cento anni (e spero anche prima) i papi difenderanno il principio di autodeterminazione del singolo sulla propria vita biologica, così come oggi difendono il principio di autodeterminazione del singolo sulla propria vita di fede (la quale peraltro perla dottrina cattolica è sempre stata più importante della vita biologica). Se si riconosce alla persona la libertà di autodeterminarsi nel rapporto con Dio, come fa la Chiesa cattolica a partire dal Vaticano II, quale altro ambito si sottrae legittimamente al principio di autodeterminazione? Non ci possono essere dubbi a mio avviso che questo principio vada esteso anche al rapporto del singolo con la sua biologia.

I cattolici intransigenti che oggi parlano della libertà di autodeterminazione definendola "relativismo cristiano" dovrebbero estendere l`accusa al Vaticano II il quale afferma che «l`uomo può volgersi al bene soltanto nella libertà» (Gaudium et spes 17). La realtà è che non è possibile nessuna adesione alla verità se non passando per la libertà.

È del tutto chiaro per ogni credente che la libertà non è fine a se stessa, ma all`adesione al bene e al vero; ma è altrettanto chiaro che non si può dare adesione umana se non libera. Dalla libertà che decide non è possibile esimersi, e questo non è relativismo, ma e il cuore del giudizio morale.