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11/08/22

Un grande romanzo italiano da riscoprire: "La dura spina" di Renzo Rosso


Ho appena finito di rileggere La Dura Spina, pubblicato da Renzo Rosso nell'aprile del 1963.

È stata una fatica trovarlo.
Il libraio di fiducia che trova tutto non riusciva a reperire copia alcuna.
Il romanzo, dopo la gloriosa edizione negli Elefanti di Garzanti, era caduto nell'oblio, risollevato solo per poco da una edizione Isbn, casa editrice oggi fallita, del 2010, ormai introvabile.
Nell'oblio come del resto tutta l'opera di Rosso, di cui oggi, sia in libreria, sia su Amazon et similia, non si trova più nulla di nulla.
Mentre se si cerca il nome dello scrittore su Google bisogna districarsi tra 8 milioni di occurrances dedicate al suo omonimo "fondatore della jeanseria Diesel" (O tempora o mores).
La Dura Spina è uno degli ultimi grandi romanzi italiani. Uscì lo stesso anno de Il male oscuro di Giuseppe Berto e come quello coniugava sperimentalismo (anche se qui ispirato alla grande tradizione mitteleuropea) con quella che in gergo letterario potrebbe chiamarsi "catastrofe dell'Io".
Triestino, Rosso si iscriveva sulla scia di Svevo e di Saba (a cui rubò il verso che dà il titolo al romanzo), modernizzandoli, raccontando il vuoto (e il pieno) esistenziale di un pianista acclamato, Ermanno Cornellis, e pieno di (troppe) donne, che torna a Trieste per un concerto e rimane invischiato in una imprevista storia sentimentale.
Il romanzo arrivò finalista allo Strega ma non vinse (tanto per cambiare). Nei decenni successivi divenne però vero libro di (ristretto) culto.
Nel frattempo Rosso, musicista anche nella vita, si era trasferito come tanti intellettuali friulani prima di lui, a Roma. Aveva vinto il concorso in RAI come assistente musicale e tra Via Asiago e viale Mazzini aveva lavorato per più di trent'anni continuando sempre a scrivere (e a pubblicare con sempre maggiore difficoltà), prima di finire i suoi giorni nel suo piccolo eremo a Tivoli, nel 2009.
Ora che anche La Dura Spina sta finendo nell'oblio, almeno dei libri cartacei pubblicati, non è inutile continuare almeno a parlarne (e a leggere se possibile) nella speranza che qualche editore lo ripubblichi ancora. Perché i libri che valgono davvero sono pochi e quelli che valgono dovrebbero poter continuare a procurare piacere a chi legge.

Fabrizio Falconi - 2022

Renzo Rosso
La Dura Spina
Isbn Edizioni - 2010
p. 347
ISBN-10 ‏ : ‎ 8876381686 ISBN-13 ‏ : ‎ 978-8876381683

06/03/17

Rivelazioni: il progetto Adelphi (grazie a Bazlen) avrebbe potuto realizzarsi a Trieste e non a Milano.





C'e' mancato poco che una casa editrice come la Adelphi nascesse, invece che a Milano nel 1962, a Trieste alla fine del 1949. 

Lo si evince dalla scoperta, fatta dalla Libreria antiquaria Drogheria 28 di Simone Volpato, del carteggio intercorso tra i triestini Bobi Bazlen, uno dei fondatori-ispiratori della Adelphi appunto, con Anita Pittoni che proprio nel 1949 crea la casa editrice Lo Zibaldone. 

Il carteggio e' composto di dieci lettere scritte tra la fine del 1949 e il 1953 e comincia con l'invito della Pittoni a Bazlen di entrare nello Zibaldone, editore da lei ideato con Giani Stuparich e Luciano Budigna. 

L'invito e' insistente: sotto qualsiasi forma "come mozzo, come timoniere, come conoscitore dei venti? aspettiamo consigli o silenzi, qualche scritto o un messaggio in bottiglia". 

Bazlen non si fa pregare: comincia col mandare messaggi e subito dopo orienta la casa editrice in direzione della Mitteleuropa, una zona mentale e linguistica che sara' fortemente rappresentata ovviamente proprio nel catalogo Adelphi tra gli anni 70-80 con autori come Kraus, Roth, Schnitzler, Canetti. 

Bazlen consiglia alla Pittoni di lasciar stare la letteratura triestina, che ha una vena stanca, per aprirsi "alla Mitteleuropa ... farei una casa editrice che viaggia mentalmente tra Trieste, Gorizia, Vienna, Budapest, Lubiana ... pubblicando scrittori di queste ampie zone tu entreresti in una mentalita' di ordine, di pulizia, di scrittura aurea e scopriresti il disordine, il decadimento progressivo che corrompe corpi, mente e sogni; una letteratura simile ad uno scheletro con una divisa impeccabile". 

Gli autori da pubblicare sono quelli: Schnitzler, Trakl, Daubler, Rilke, Heine, Grillparzer. La Pittoni riflette e si scontra con problemi pratici, come le traduzioni, espone i dubbi ma Bazlen non demorde e le consiglia di leggere le poesie di Holderlin curate da un giovane Gianfranco Contini e Kaethchen di Heilbronn di Von Kleist e Misteri di Knut Hamsun. 

Bazlen afferma che Svevo e' autore irrinunciabile per le generazioni future di scrittori (e si chiede se Svevo fosse nato ad Agrigento e Pirandello a Trieste) e consiglia alla Pittoni di pubblicare le poesie di Carlo Michelstaedter, mitteleuropeo, scrittore "giovane e' un po' acerbo che gia' contiene i fuochi della disperazione (Gorizia e' scenografia schizofrenica). 

Il piccolo ma ricco carteggio, dove compaiono anche giudizi acidi su Saba e sulla sua Libreria e amorevoli su Giotti (proprio a 60 anni dalla loro morte) e' stato acquistato da Giampiero Mughini; tuttavia sara' visibile alla Mostra Internazionale Libri Antichi e di pregio che si terra' a Milano tra il 24-26 marzo 2017. 

23/05/15

Vienna 1983 - Una esperienza iniziatica (Gregor Passecker)




Nel novembre del 1983 visitai per la prima volta Vienna

Fresco di laurea, risposi a mia madre rimasta da poco vedova, che voleva accontentarmi con un regalo - soldi non ce n'erano: "vorrei fare un viaggio a Vienna."

Qualcosa di ancestrale sembrava attirarmi verso quella città. Qualcosa forse di genetico, visto che mia madre che non aveva mai superato i confini di Roma (a parte Firenze e Venezia, tappe del viaggio di nozze), piangeva regolarmente a dirotto quando in casa si metteva sul piatto del giradischi il Blue Danube di Richard Strauss.

Non rimasi deluso, tutt'altro. Visitai la città in perfetta solitudine in un mese invernale e freddo. 

Il silenzio di Vienna di quegli anni, il silenzio del Ring, il silenzio del Graben, della casa di Mozart, del Liechtstein con le cacche d'autore di Kolik, il silenzio della torre di Santo Stefano, dei giardini del Belvedere, del Prater, dello SchonBrunn sotto la neve, il silenzio delle acque del Danubio, il silenzio del fumo nei giardini e dai tetti, il silenzio dell'Opera deserta, dei vecchi caffè, perfino dei vagoni della metro dove non volava mosca, e tutti sembravano intenti a fare qualcosa di importante, o di solitario. 

Ai giardini del Prater, in un minuscolo chiosco ambulante, conobbi un ragazzo viennese Gregor Passecker.  La sua famiglia gestiva un antico caffè del centro, lui si dava da fare con gli Hot-dog. La sua compagna era bellissima. La sera lui si trasformava, indossando un lungo mantello scuro sulla figura allampanata tramutandosi in un eccentrico dai gusti raffinati, in grado di apprezzare e farmi apprezzare una grafica di Kubin in una sperduta galleria metropolitana, o di parlarmi per due ore - nel suo inglese elegante - di Hundertwasser e delle sue architetture. 

Fino a tardi camminammo quelle sere, costeggiando il Ring, insieme ad un altro amico italiano, uno strano affiatato quartetto che s'era trovato per le strane circostanze del caso, in quel frammento spazio-temporale del mondo. 
Gregor Passecker

Gregor rimase a lungo in contatto con me, ma non lo rividi mai più. Mi scriveva lettere stupende, completamente bislacche piene di parole italiane (amava la nostra lingua e voleva impararla ad ogni costo), strane sue composizioni poetiche e collages surreali e io lo reputavo una grande anima. 

Come spesso accade, morì prima del tempo. 

Ma da qualche parte, sento sempre la sua presenza. Insieme a quella Vienna di allora, che popola sogni e popola pensieri. 


Fabrizio Falconi. 







13/07/12

Franz Werfel - "Una scrittura femminile azzurro pallido" . Qualche considerazione.





C'è qualcosa di convenzionale, ma anche di sottilmente perturbante nel celebrato romanzo Una scrittura femminile azzurro pallido,  scritto nel 1941 (e pubblicato per la prima volta soltanto 14 anni dopo, nel 1955) da Franz Werfel e diventato un piccolo grande caso editoriale in Italia da quando, parecchi anni fa fu pubblicato da Adelphi e continuamente ristampato. 

In una storia di 131 pagine quello che sta a cuore a Werfel, esule dopo l'Anschluss come molti altri intellettuali ebrei, è raccontare cosa succede - e cosa è successo - nell'anima dei volontari collaborazionisti, di gente normale che si lascia cadere a peso morto, proprio perché incapace di affrontare le proprie personali ombre, le proprie personali debolezze, le proprie eclatanti cadute. 

Ed è nella scena madre del romanzo, quella nella quale Leonida riaffronta il fantasma di Vera, la donna da lui vigliaccamente abbandonata sedici anni prima senza un motivo né una spiegazione, che Werfel inserisce quegli elementi simbolici così stringenti per il lettore.   Il salotto dell'albergo nel quale Leonida è costretto ad incontrare Vera è il contrario di quel che si aspettava: un luogo tetro - la stanza "piena zeppa di mobili pesantissimi che si innalzano come fortezze arcigne" - claustrofobico, mortuario. Sono mortuarie anche le rose tea che Leonida ha ingenuamente portato con sé e che alla fine dell'incontro lascia "nelle tenebre" della stanza proprio perché sono "fiori di morte."

La morte accompagna Leonida anche nella scena finale - l'ultimo capitolo si intitola Nel sonno ed è un presagio del sonno mortale che ormai lo attende, dopo che la sua anima è perduta per sempre - in quel Teatro dell'Opera, in quella platea dove ciascuno recita il suo ruolo, aus dem Leben der Marionetten, per dirla con Bergman, dove a ciascuno dei figuranti non resta che vivere un doloroso e inutile oblio, conseguente a una non voluta, forzata consapevolezza.

Leonida è accerchiato dal destino, che è il suo carattere e il suo fato. Da quando ha indossato quel frac lasciatogli dall'amico, suicida, le cose non potevano andare diversamente.  La sua carriera è stata spettacolare, ma tutto è servito alla fine, soltanto per ingannare se stesso.  

Il danno è questo.  Nessuna salvezza, da fuori, potrà venire. Perché l'unica salvezza, è sempre e soltanto nell'attraversamento consapevole del dolore. E Leonida, come molti altri, il dolore l'ha soltanto voluto sfiorare, e guardare negli altri. Come fosse, appunto, la semplice vita delle marionette.

Fabrizio Falconi - luglio 2012.