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02/08/21

Libro del Giorno: "Helgoland" di Carlo Rovelli

 



Come si sa, Carlo Rovelli è un fisico teorico di fama internazionale, specializzato soprattutto nel campo della gravità quantistica e tra i fondatori della teoria della gravità quantistica a loop

Ma Rovelli negli ultimi anni ha acquistato grande notorietà a causa dei suoi libri, che si occupano anche di storia e filosofia della scienza, dimostrando doti speciali di divulgatore con i suoi saggi che, attraverso un linguaggio semplice e traboccante di meraviglia per i temi indagati, hanno saputo avvicinare molti lettori a questioni scientifiche apparentemente astratte e invece assai concrete e fascinosissime.

A sei anni dal suo maggior successo editoriale, Sette brevi lezioni di fisica (tradotto in 41 lingue, ha venduto più un milione di copie in tutto il mondo), a cui è seguito L’ordine del tempo, Rovelli, nato a Verona il 3 maggio 1956, è tornato a parlare del mondo della fisica, sempre per Adelphi, con  Helgoland

Il titolo del libro si riferisce a Helgoland, spoglia isola nel Mare del Nord, luogo adatto alle idee estreme, dove nel giugno 1925 il ventitreenne Werner Heisenberg ha avviato quella che, secondo non pochi, è stata la più radicale rivoluzione scientifica di ogni tempo: la fisica quantistica

A distanza di quasi un secolo da quei giorni, la teoria dei quanti si è rivelata sempre più gremita di idee sconcertanti e inquietanti (fantasmatiche onde di probabilità, oggetti lontani che sembrano magicamente connessi fra loro, ecc.), ma al tempo stesso capace di innumerevoli conferme sperimentali, che hanno portato a ogni sorta di applicazioni tecnologiche. 

Si può dire che oggi la nostra comprensione del mondo si regga su tale teoria, tuttora profondamente misteriosa. 

In questo libro dunque non solo si ricostruisce, con formidabile limpidezza, l’avventurosa e controversa crescita della teoria dei quanti, rendendo evidenti, anche per chi la ignora, i suoi passaggi cruciali, ma la si inserisce in una nuova visione, dove a un mondo fatto di sostanze si sostituisce un mondo fatto di relazioni, che si rispondono fra loro in un inesauribile gioco di specchi. Visione che induce a esplorare, in una prospettiva stupefacente, questioni fondamentali ancora irrisolte, dalla costituzione della natura a quella di noi stessi, che della natura siamo parte.

Un libro ottimo e fortemente consigliabile, che spinge a riflettere e meditare sul senso e sulla natura della nostra esistenza e della nostra esistenza dentro l'universo. 

Due appunti, da lettore che meriterebbero di essere approfonditi:

1. Mi sembra che R. speculi esageratamente sulla teoria quantistica, quasi dando per scontato che essa sia definitiva. Quando sappiamo bene, e lui per primo, che la scienza non è mai definitiva. Tra 100 anni chissà cosa avremo/avranno scoperto ancora. Questa descrizione della realtà, anzi della non-realtà, che leggendo il libro sembra determinata e chiara è dunque ancora assai incompleta (fra l'altro nessuno sa ancora bene spiegare cosa sia la fisica quantistica e perché funzioni e già dai tempi di Einstein si insegue una "Teoria del tutto" capace di mettere insieme quantistica, relatività, gravitazione). 

2. La sostituzione degli "oggetti" (non reali) con le "relazioni tra forze e campi", come fondative di tutto - universo, mondo, uomo, ecc.. - mi sembra che non sposti minimamente la questione meta-fisica, che Rovelli rigetta: se sono le relazioni e non gli oggetti alla base della realtà o di quella che noi chiamiamo realtà, cosa cambia nella sostanza? Da dove vengono queste relazioni e perché esistono? Perché esistono invece di non esistere? E soprattutto come si fa ad escludere la scoperta futura in grado di confermare le ipotesi attuali della teoria delle Stringhe (la più accreditata), quella del Mondo di Mondi o quella di universi paralleli (fortemente sostenuta da molti astrofisici moderni) dove le leggi fisiche - e dunque anche la quantistica - potrebbero tranquillamente essere totalmente diverse dalle nostre oggi conosciute ?

Fabrizio Falconi


06/07/21

Libro del Giorno: "Quando abbiamo smesso di capire il mondo" di Benjamìn Labatut

 



Adelphi sceglie un'opera di Yves Klein del 1960 come felice copertina per un romanzo assai sui generis che è già diventato uno dei casi dell'anno, grazie al passa parola e alle positive (in alcuni casi entusiastiche) recensioni dei giornali.  

L'opera di Klein richiama il suo famoso blu e si ricollega subito alla prima parte del libro intitolata appunta Blu di Prussia che racconta le vicende dell’alchimista che all’inizio del Settecento, infierendo sulle sue cavie, crea per caso il primo colore sintetico, lo chiama «blu di Prussia» e si lascia subito alle spalle quell’incidente di percorso, rimettendosi alla ricerca dell’elisir.  La scoperta finisce molto tempo dopo nelle mani di un brillante chimico al servizio del Kaiser, Fritz Haber, quando a Ypres constata che i nemici non hanno difese contro il composto di cui ha riempito le bombole e quando intuisce che dal cianuro di idrogeno estratto dal blu di Prussia si può ottenere un pesticida portentoso, lo Zyklon, che verrà poi utilizzato dagli aguzzini nazisti per lo sterminio degli ebrei nei Lager. 

La scelta di Adelphi è felice anche nel titolo: nella difficoltà di utilizzare quello originale (Un verdor terrible) si è scelto il titolo di uno dei capitoli, il più lungo, quello riferito alla figura del genio della fisica del Novecento, Heisenberg, il quale all'epoca ventitrenne, durante la tormentosa convalescenza per una forte allergia, sull'isola sperduta nel mare del Nord, di Helgoland, intuisce e scopre che bisogna  smettere di capire il mondo come lo si è capito fino a quel momento e avventurarsi verso una forma di comprensione assolutamente nuova. Per quanto terrore possa, a tratti, ispirare: è la nascita della meccanica quantistica, che ha cambiato la storia del mondo e che resta ancora oggi una teoria profondamente misteriosa anche se verificata un numero infinito di volte (basti pensare che gran parte della nostra moderna tecnologia, tra cui telefoni cellulari o internet funziona grazie ad essa), senza mai essere smentita nemmeno una volta. 

Benjamín Labatut, l'autore, è uno scrittore cileno nato a Rotterdam nel 1980. Ha trascorso la sua infanzia tra L'Aia, Buenos Aires e Lima, per poi trasferirsi a Santiago del Cile all'età di quattordici anni. E in questo paese vive attualmente in un remoto villaggio sulla Cordigliera. Il suo primo libro di racconti, La Antártica empieza aquí, ha vinto il Premio Caza de Letras nel 2009 e il Santiago Municipal Literature Award – nella sezione racconti – nel 2013. A questo libro sono seguiti Después de la luz e Quando abbiamo smesso di capire il mondo, che è stato nominato per l'International Booker Prize 2021.

Con il suo stile lucido e disturbante, Labatut costruisce un libro strano e diverso dagli altri. L'assunto è forse proprio quello di esplorare il lato demoniaco/distruttivo della scienza che si esprime nelle stesse vicende biografiche ossessivo/compulsive dei geni, che da Heisenberg a Schrodinger, sono i protagonisti del libro. 

La scelta di romanzare, cioè di inventare particolari biografici e non mano a mano che il racconto va avanti, è spiazzante per il lettore. E lo costringe ad andare ogni volta a verificare se quello che scrive Labatut è del tutto vero o no. 

Poiché l'avvertenza sulla libertà presa dall'autore nel raccontare queste storie è messa alla fine e non all'inizio del libro, qualche lettore potrà anche sentirsi coinvolto in un gioco scomodo. Forse però è proprio quello che Labatut voleva, visto che il tema centrale del libro è proprio il dubbio relativo alla esistenza di quello che noi chiamiamo "reale", sulla consistenza del quale è proprio la scienza moderna a farci dubitare. 

Cosa è vero, cosa no? Chi e cosa sono queste menti geniali che hanno scoperchiato abissi? 

La cosa certa è che grazie a Labatut si imparano molte cose su argomenti su cui abbiamo letto tanto, senza mai finire di meravigliarsi di quanto il mistero in cui siamo calati sia spaventosamente fitto e infinitamente complicato. 

La mancanza di qualsiasi parvenza di oggettività in quello che noi pensiamo/vediamo/ realizziamo, rispetto al piano di "realtà" - ammesso che esista poi, una realtà - è sconvolgente, dato che le cose nella fisica quantistica sembrano esserci, esistere soltanto se e quando qualcuno le osserva (influenzandolo fra l'altro). 

È la via che ha preferito Benjamín Labatut in questo singolarissimo e appassionante libro, ricostruendo alcune scene che hanno deciso la nascita della scienza moderna. Ma, soprattutto, offrendoci un meraviglioso intrico di racconti, e lasciando scegliere a noi quale filo tirare, e se seguirlo fino alle estreme conseguenze.

L'unica pecca per un libro così bello è la cura editoriale - assai strano per un editore come Adelphi - che scivola sul piano dei refusi e della impaginazione. Nella edizione cartacea c'è addirittura una intera riga completamente saltata a fondo pagina, più tanti altri piccoli errori piuttosto imbarazzanti. 

Benjamín Labatut 

Quando abbiamo smesso di capire il mondo 

Traduzione di Lisa Topi 

Adelphi 2021, pp. 180 

isbn: 9788845935183 

€ 18,00 

25/09/19

Ogni cosa è correlata, nell'Universo. Tutto fa parte del Tutto. Le incredibili proprietà dell'Entanglement Quantistico



Cosa è l’Entanglement Quantistico ?

I risultati ottenuti dagli studi teorici e sperimentali, scientifici, corroborano in ogni caso, la conclusione che l’universo ammette l’esistenza di “interconnesioni non locali”:  qualcosa che ACCADE QUI può essere correlato con qualcosa che ACCADE LAGGIU’, ANCHE SE NON C’E’ NULLA CHE SI SPOSTI DA QUI A LI’ E ANCHE SE NON C’E’ ABBASTANZA TEMPO PERCHE’ SI VERIFICHI ALCUNCHE’, AD ESEMPIO PERCHE’ LA LUCE VIAGGI TRA DUE PUNTI.

La connessione tra due particelle può permanere ANCHE SE SI TROVANO AGLI ESTREMI OPPOSTI DELL’UNIVERSO.

Dal punto di vista della loro correlazione, malgrado l’immensità dello spazio che le separa, E’ COME SE FOSSERO POSTE UNA ACCANTO ALL’ALTRA.

Con una certa semplificazione, anche se le due particelle sono nettamente separate, possiamo dire che la meccanica quantistica dimostra che   QUALSIASI COSA FACCIA UNA PARTICELLA, L’ALTRA FA LO STESSO. 

Possono esistere, contrariamente a quanto credeva Einstein, connessioni quantistiche, strane, bizzarre, “sovrannaturali” tra un corpo che si trova qui e uno che si trova là.

Il ragionamento che fa giungere a questa conclusione è tanto complesso che ai fisici sono occorsi più di 30 anni per comprenderlo in tutte le sue sfumature.

Coppie di particelle adeguatamente preparate (dette entangled) non acquisiscono le proprietà misurate in modo indipendente: sono come due dadi magici, uno lanciato ad Atlantic City, l’altro a Las Vegas, ognuno dei quali segna casualmente un punteggio, che è sempre in accordo con quello dell’altro dado. Le particelle entangled si comportano nello stesso modo, ma non per magia: anche se spazialmente distanti, non si comportano in maniera autonoma una dall’altra.

Le conseguenze di questa scoperta, sono colossali: L’universo NON E’ LOCALE.

L’effetto di ciò che facciamo in un luogo piò essere correlato CON QUANTO ACCADE IN UN ALTRO LUOGO, ANCHE SE ESSI SONO TROPPO DISTANTI PER PERMETTERE AD ALCUNCHE’ DI TRASMETTERE UN QUALUNQUE TIPO DI INFLUENZA NEL TEMPO DATO.

Le particelle hanno UNA ORIGINE COMUNE CHE LI CORRELA. In sostanza, per quanto si allontanino una dall’altra e siano spazialmente distinti, LA LORO STORIA LI ACCOMUNA.

Anche quando sono lontani, FANNO PARTE DI UNO STESSO SISTEMA FISICO, DI UNA UNICA ENTITA’ FISICA.

Concludendo: DUE OGGETTI POSSONO ESSERE SEPARATI DA UN’ENORME QUANTITA’ DI SPAZIO E, CIO’ NONOSTANTE, NON AVERE UNA ESISTENZA DEL TUTTO INDIPENDENTE.  Possono cioè essere uniti da una connessione quantistica, l’Entanglement, che rende LE PROPRIETA’ DELL’UNO DIPENDENTI DA QUELLE DELL’ALTRO.  Lo spazio non distingue gli oggetti correlati in questo modo, NON E’ IN GRADO DI ANNULLARE LA LORO INTERCONNESSIONE: anche una enorme quantità di spazio NON NE INDEBOLISCE MINIMAMENTE L’INTERDIPENDENZA QUANTISTICA.

Ciò significa che OGNI COSA E’ CORRELATA CON TUTTE LE ALTRE, E CHE LA MECCANICA QUANTISTICA STABILISCE UN’ENTANGLEMENT UNIVERSALE. 

In fondo, del resto, al momento del BIG-BANG, TUTTO ERA IN UN UNICO LUOGO.



15/03/18

"I due più importanti incontri della mia vita: con Krishnamurti e con Albert Einstein". Una bellissima intervista a proposito del grande fisico David Bohm.

David Bohm con Krishnamurti

Pubblico questa bellissima intervista realizzata da Simeon Alev allo scrittore e fisico David F. Peat - che oggi vive in Italia, in Toscana - per la rivista digitale Innernet.

David Peat è stato per molti anni amico intimo e biografo di uno dei più grandi fisici del Novecento, David Bohm. 

In questa bellissima e lunga intervista, Peat racconta l'amicizia di Bohm con Krishnamurti, la loro lunga proficua collaborazione, i loro dialoghi, e l'altra con Albert Einstein. Si parla di fisica, del senso della nostra vita biologica nell'Universo, della Teoria dei Quanti, della meccanica quantistica, delle teorie unificanti e di molto altro.  Buona lettura. 

La vita di molti scienziati fu influenzata dal grande insegnante spirituale J. Krishnamurti, ma nessuno di loro ebbe un rapporto intimo e duraturo con lui come lo ebbe David Bohm.
Bohm e Krishnamurti si incontrarono la prima volta nel 1961 e la loro amicizia si protrasse fino alla morte di Krishnamurti, nel 1986 (anche se nel 1984 entrò in crisi).
Bohm iniziò la carriera come pupillo di J. Robert Oppenheimer, il direttore del Manhattan Project, il progetto finalizzato alla realizzazione della bomba atomica, durante la seconda guerra mondiale. All’epoca del suo primo incontro con Krishnamurti, Bohm si era già guadagnato una grande e discussa fama come uno dei più brillanti fisici teoretici della nostra era. Egli aveva sviluppato la teoria del plasma – il quarto stato conosciuto della materia, dopo quello solido, liquido e gassoso – e la sua analisi del comportamento plasmatico degli elettroni nei metalli aveva posto le fondamenta per gran parte della fisica degli stati solidi.
Bohm, inoltre, esercitò un ruolo centrale nel dibattito sulla teoria dei quanti (ancora in corso ai giorni nostri), e fu l’autore di molte, provocatorie “interpretazioni” del quanto. Durante gli anni del suo insegnamento a Princeton, divenne amico di Albert Einstein, il quale, dopo aver trascorso vari anni cercando, senza successo, un’alternativa alla versione generalmente accettata della meccanica quantica, sembra aver indicato in Bohm il suo “successore intellettuale”, affermando: «Se qualcuno potrà riuscirci, questi è Bohm».

Il giovane Bohm con Albert Einstein
Ma David Bohm forse è più conosciuto, specialmente tra chi non è scienziato, per una teoria che è allo stesso tempo il frutto di una ricerca spirituale lunga una vita e il risultato di una profonda intuizione scientifica. Si tratta della teoria dell’ordine sottinteso, fondata su una visione globale, totale, nella quale la materia e la coscienza sono unite.
Bohm sembra essere stato ossessionato, sin da piccolo, dall’idea secondo cui viviamo in un universo nel quale la materia e il significato sono inseparabili; si dice che la parola “totalità”, da egli impiegata nel primo incontro con Krishnamurti per descrivere il suo lavoro scientifico, fece balzare quest’ultimo dalla sedia per dare un abbraccio a Bohm.
Leggendo Wholeness and the Implicate Order di David Bohm (in italiano Universo, mente, materia, RED edizioni), ho avuto spesso dei sentimenti simili. L’ampiezza e l’integrità della sua visione è efficacemente riflessa nella sua esposizione, che è allo stesso tempo lucida, ampia, precisa e profondamente, misteriosamente toccante. Leggendo Bohm, si rimane molto spesso sbalorditi dalla sua abilità nel connettere fenomeni di ordine radicalmente diverso, oltre che dalla sua passione per scoprire l’interrelazione e la coesione dinamica di un mondo generalmente considerato una forma di caos meccanizzato nel quale gli esseri umani sono destinati a svolgere una piccola parte.
Una volta abbandonata la vantaggiosa posizione di isolamento e distacco, l’essere umano si scopre profondamente inserito in un universo indivisibile che è allo stesso tempo reale ed eternamente misterioso; un unico evento multidimensionale senza inizio o fine.
Per molti colleghi di Bohm, comunque, la sua insistenza sul fatto che l’universo fosse da un lato intrinsecamente ordinato, dall’altro impossibile da comprendere appieno, era irritante piuttosto che fonte di ispirazione. Rievocando una frustrante intervista con Bohm nel libro The End of Science: Facing the Limits of Knowledge in the Twilight of the Scientific Age (La fine della scienza: a tu per tu con i limiti della conoscenza nel crepuscolo dell’Era Scientifica), lo scrittore di scienza John Horgan scrive: “Bohm anelava a conoscere, a scoprire il segreto di ogni cosa, sia attraverso la fisica… sia attraverso la conoscenza mistica. Tuttavia, insisteva sul fatto che la realtà era inconoscibile, perché, credo, provava repulsione verso l’idea della finalità”.
La premessa da cui parte Horgan, non insolita al giorno d’oggi, è che nel giro di venti anni la scienza avrà risposto a tutte le domande più importanti dell’uomo. Ma quello che Bohm riesce a comunicare in modo piuttosto chiaro durante quella intervista, è la sua concezione secondo cui le risposte finali non sono poi così importanti quanto il cercare di conoscere il mondo nel quale viviamo senza idee o conclusioni fisse. Fu caratteristico di Bohm insistere sul fatto che le idee fisse che sottintendono le ipotesi scientifiche non sono di aiuto, ma di ostacolo, e che una metodologia che unisca il rigore all’apertura mentale è la migliore per restare al passo della verità, man mano che essa si rivela nel corso dell’indagine scientifica.
Ma Bohm trovava ugualmente inadeguata la flessibilità senza il rigore, così comune nella vita spirituale. In un’intervista rilasciata per la rivista ReVision nel 1981, egli disse: “Dal momento in cui il mistico sceglie di parlare della sua esperienza… deve seguire le regole che governano il mondo ordinario, il che significa che deve essere ragionevole, logico e chiaro”.
E questo Bohm non lo chiedeva solo ai mistici, ma soprattutto ai fisici quantici contemporanei, molti dei quali, alla luce delle paradossali scoperte sul regno subatomico, si erano sentiti dispensati dalla necessità di offrire spiegazioni concrete o avevano sviluppato teorie e persino cosmologie più mistificanti delle visioni di uomini religiosi o spirituali. Ironicamente, fu proprio la richiesta di Bohm di spiegazioni puramente fisiche dei fenomeni quantici che lo portò a essere evitato da molti suoi colleghi.
Tuttavia, coloro che approvavano questo invito nutrivano per Bohm una grande fedeltà. Uno di questi è lo scrittore e fisico F. David Peat, che da giovane ascoltò catturato le spiegazioni di Bohm sulla meccanica quantica alla radio “BBS”, senza sapere che diversi anni più tardi avrebbe incontrato il suo eroe, apparentemente per caso, che sarebbero diventati amici e colleghi, che avrebbero scritto un libro insieme (Science, Order and Creativity), e che lui stesso avrebbe scritto alla fine la biografia di Bohm, Infinite Potential: The Life and Times of David Bohm.
Autore di molti libri, Peat è un uomo dai molteplici interessi, che l’hanno portato a girare tutto il mondo: tra questi la fisica moderna, le arti visive, la psicologia junghiana e la spiritualità dei nativi americani. La nostra intervista è stata condotta telefonicamente da Pari, il paese vicino a Siena dove egli vive attualmente. E’ stato un piacere parlare di David Bohm con qualcuno che lo conobbe intimamente e i cui ricordi sono ancora vivi nella sua memoria. Come si intuisce dalla nostra conversazione, il pensiero di Peat è stato influenzato, sotto molti aspetti, da Bohm.
Infinite Potential è un ritratto completo e imparziale. La maggior parte del lavoro di Bohm è una straordinaria fonte di ispirazione, frutto di una grande integrità, ma Peat ha ben presenti anche i difetti del suo amico. “Bohm visse per il trascendente”, scrive Peat, “sognava una luce universale… Ma la sua vita fu caratterizzata da una grande sofferenza e da periodi di grave depressione. Durante la sua vita, non raggiunse mai la completezza; tutto ciò che conquistò, e di cui ancora avvertiamo i benefici, fu raggiunto solo al prezzo di grandi sacrifici”.
Simeon Alev: Perché pensa che fosse importante scrivere una biografia di David Bohm, in questo momento?
David Peat: Penso che sia un libro utile perché aiuta a mettere la vita di Dave in prospettiva e perché riunisce tutta la sua opera, cosa che non è mai stata fatta prima. Dave aveva fatto cenno al proposito di scrivere un’autobiografia – da solo o con l’aiuto di qualcuno – e dopo la sua morte, nel 1992, ne parlai con le persone che gli erano state più vicini. Tutti eravamo preoccupati dal fatto che un’altra persona avrebbe potuto improvvisare una biografia, per cui decidemmo che forse avremmo dovuto farne una noi, e subito.
Vede, sembra che il lavoro di Dave abbia molti aspetti diversi: in esso troviamo, per esempio, le ricerche giovanili sul plasma, la teoria delle variabili nascoste, l’ordine sottinteso e la ricerca di nuovi ordini nella fisica; inoltre, la collaborazione con Krishnamurti e le ricerche sulla coscienza e sul significato del soma. Ma quando si considera la sua vita come un tutto, ci si accorge che questi sono aspetti dello stesso modo di vedere l’universo, e quindi non sono diversi. Ho pensato che sarebbe stata una buona cosa che la gente sapesse ciò, particolarmente coloro che, nel mondo della fisica, hanno cominciato a selezionare le idee di Dave, scegliendone alcune piuttosto di altre. Ho pensato che sarebbe stato utile presentarle tutte insieme, in modo che le persone possano rendersi conto del loro livello di integrazione, cosa che non comprendono del tutto nemmeno coloro che conobbero abbastanza bene Bohm.
Simeon Alev: La sua vita e il suo lavoro furono un tutt’uno coerente.
David Peat: Sì, mi sembra che ogni cosa sia legata al resto; semplicemente, non puoi estrarne una parte.
Simeon Alev: Dunque, sembra che la vita e il lavoro di Bohm contengano un messaggio globale per l’umanità?
David Peat: Beh, in un certo senso il messaggio è questa stessa visione dell’interezza… Che naturalmente non è nuova; è contenuta in molte altre filosofie e se ne parla da tempo. Ma credo che ogni volta che qualcuno ne parla, la rinnova o la reinventa, riportandola in vita per il tempo presente. E io penso che David lo abbia fatto per la nostra epoca. Egli, inoltre, evidenziò il fatto che la scienza si era scissa sia all’interno di se stessa sia dalle tematiche spirituali e dalla riflessione sulla coscienza e il sé. E nella biografia è possibile vedere come queste idee si esprimessero attraverso la sua lotta. La sua vita fu allo stesso tempo l’intuizione di qualcosa di trascendente e una lotta per raggiungere questa condizione di integrità. E oggi il suo lavoro appare sempre più rilevante.

02/01/15

La meditazione e il Campo Unificato - una esperienza trascendente.



Chi sperimenta le tecniche di meditazione - in particolare quella trascendentale, formalizzata nei suoi canoni da Maharishi Manesh Yogi nella seconda metà del Novecento - sa che nella radicata tradizione vedica, vecchia di 10.000 anni si può raggiungere un contatto con il cosiddetto Atman, quel soffio vitale o energia, che la psicologia occidentale identifica con il , il nucleo più autentico dell'individuo, in contatto con il mondo inconscio archetipico. 

La scienza, la fisica moderna è al lavoro sulla identificazione del Campo unificato, sulla base di quella intuizione di Albert Einstein, che passò gli ultimi anni della sua vita alla ricerca di una teoria di unificazione dei campi (oggi chiamata variamente Teoria del tutto) in grado di tenere insieme la gravità e l'elettromagnetismo, insieme o oltre la legge della relatività generale.   

Oggi molti teorici sono convinti dell'esistenza di questo Campo unificato, per la dimostrazione del quale mancano alcuni definitivi tasselli sperimentali, una specie di campo delle possibilità (la meccanica quantistica è già realtà, si lavora alla supersummetria) dove ogni particella è sospesa tra esistenza e non esistenza, una sorta di mare quantico, misteriosa origine di ogni cosa, visibile ed invisibile. 

La possibilità di accedere (intuitivamente, ma anche concretamente) a questo campo sottostante la nostra stessa vita individuale è una possibilità che offrono le tecniche di meditazione. 

Ed è un peccato non approfittarne, anche per comprendere come sia molto labile il confine delle nostre occupazioni e pre-occupazioni quotidiane e come in fondo il nostro irrompere sulla scena del mondo sia molto.... relativo (per dirla con Einstein), ma allo stesso tempo molto collegato a una rete molto più ampia di quello che possiamo anche soltanto immaginare.

Fabrizio Falconi


12/07/14

Il mistero del numero 137, Pauli, Jung e la matematica che è in noi (e fuori di noi).



In questi giorni sto leggendo un bel saggio di Arthur J. Miller, professore emerito di storia e filosofia della scienza presso l'University  College di Londra: L'equazione dell'anima, pubblicato da Rizzoli nel 2009, che descrive e racconta l'ossessione per un numero nella vita di due geni, Carl Gustav Jung e il fisico Wolfgang Pauli.

Negli anni '30, ad appena trent'anni, Pauli è uno dei teorici più brillanti della nascente fisica quantistica.  Eppure ogni notte si ritrova a vagare nei quartieri a luci rosse in preda all'alcol e alla depressione.
Wolfgang Pauli

Ed è proprio la sua doppia vita ad indurlo a rivolgersi a Carl Gustav Jung, il discepolo eretico di Freud, divenuto in quegli anni un punto di riferimento della ricerca psichica mondiale.

Carl Gustav Jung

L'incontro tra questi due geni, tra ragione e misticismo, diviene una potente alleanza tra due giovani scienze, la psicoanalisi e la meccanica quantistica, all'insegna di quello che appare come un numero magico: il 137. 

Un numero che da un lato descrive con grande precisione il dna della luce e dall'altro è la somma dei valori numerici dei caratteri ebraici che compongono la parola Kabbalah (Cabala). 

L'ossessione che accompagna Pauli fino al letto di morte, diventa anche un terreno di indagine parallela per Jung e per le sue ricerche sulla essenza e sul Sè.

La suggestione è quella di trovare un numero alla base dell'universo, un numero primordiale, un numero da cui tutto dipende e dà conto di tutto.

E' un vecchio sogno umano, inseguito da astronomi, scienziati, alchimisti, mistici, filosofi, matematici.

Più andiamo avanti con le nostre conoscenze, più ci appare evidente che il mondo e l'universo che ci contengono si fondano su principi matematici.  E la matematica è anche alla base della nostra vita biologica. Tutto sembra ridursi a questo: anche la nostra mente sembra essere predisposta per leggere secondo criteri matematici. Ma da dove deriva tutto questo, e perché esiste ?

Ecco un brano di una intervista rilasciata poco tempo fa da Giandomenico Boffi, ordinario di algebra all'Università degli Studi Internazionali di Roma (UNINT) e considerato uno dei migliori matematici italiani. 

Che la matematica sia pura creazione della mente è un fatto largamente condiviso. 
Desta perciò meraviglia l'eccezionale efficacia che questa scienza ha dimostrato nel consentire da un lato l'interpretazione della realtà e dall'altra l'intervento concreto, anche tecnologico, su di essa. 
La matematica è una delle poche cose universali che noi sperimentiamo, e già questo è sorprendente. 
Lo è ancora di più il fatto che l'universo risponde in qualche modo alle nostre sollecitazioni basate sugli strumenti matematici. 
Da questa attività creativa dell'uomo emerge quasi un potere predittivo nei confronti della realtà, che è alquanto sconcertante. 
Nella misura in cui non si è ancora riusciti a giustificare l'indubbia consonanza verificabile tra una creazione della nostra mente, la matematica, e una realtà data a prescindere da noi, diventa legittimo ipotizzare l'esistenza di un Ente superiore intelligente che si pone alla radice tanto della realtà che ci circonda, quanto della nostra stessa mente. 
Il dato fondamentale è che esiste in qualche modo una sintonia tra la mente e la realtà esterna alla mente, sintonia che si spiega bene con l'esistenza di qualcosa che sta sopra e unifica.

Fabrizio Falconi

29/03/14

La sapienza dell'Oriente e l'infelicità moderna.




Eve Arnold, Retired woman, China (1979)


C'è una obiezione di fondo che muovo ai filo-orientalisti: coloro che sostengono la superiorità della sapienza e della tradizione dell'Oriente in confronto a quella occidentale. 

Sono il primo ad essere convinto che il misticismo orientale - molto più di quello maturato e sviluppatosi nell'Occidente - si sia avvicinato alle cosiddette verità ultime.  

Basta leggere un libro di grande divulgazione come il Tao della fisica, per rendersi conto che 3.000 anni fa i grandi pensatori e mistici d'Oriente, i fondatori del buddhismo, del taoismo, dello zen, dell'induismo, compresero (molto meglio e molto più propriamente dei filosofi  e dei mistici occidentali), ciò che oggi la fisica moderna, la meccanica quantistica, la teoria einsteniana, ci stanno dicendo sul mondo. E su quella che noi chiamiamo realtà.

Ciò che stiamo scoprendo, cioè, è stato anticipato ed elaborato dalle grandi tradizioni filosofiche e mistiche orientali molti e molti secoli fa: oggi sappiamo che non esiste sostanza (gli atomi sono fatti quasi esclusivamente di vuoto e per il resto di relazioni, campi, interconnessioni e probabilità, non sostanza), che lo spazio e il tempo sono convenzioni (e solo un accidente della realtà), che le cose invisibili sono molto più di quelle invisibili, che gli universi sono infiniti e probabilmente interconnessi, che il mondo che noi conosciamo è tenuto insieme da una misteriosa e complessissima danza cosmica, fatta di interrelazioni, energie, campi, probabilità.  L'opposto di quello che i nostri sensi ci dicono: individuazione dell'io, separazione tra osservato e osservante, ego-centrismo ed elio-centrismo dell'universo, che sono invece i principi su cui si è incardinata la storia del pensiero occidentale (di radice cristiana).

Eppure, l'ammirazione per questa saggezza d'Oriente, capace di cogliere il senso profondo delle cose e la sostanza vera della realtà, suscita l'obiezione di cui dicevo all'inizio:

perché questi grandi sistemi filosofici e mistici e questa sapienza non hanno saputo tradursi nel concreto in una evoluzione umana (e di civiltà) più accettabile della nostra ? 

Il prodotto di 3.000 anni di sapienza e di consapevolezza orientale sono i grandi paesi-continenti dell'oggi: la Cina, il Sud-est asiatico, l'India e da ultimo il Giappone.

Nessuno di questi paesi oggi mostra l'immagine di questa sapienza superiore, arcana, primordiale, maturata non soltanto nel chiuso di qualche antico monastero o nella mente di qualche filosofo, ma dispensata in norme religiose e di vita che sono state con-divise per secoli e secoli da intere popolazioni.

Il prodotto non è confortante: la Cina è oggi un paese terribilmente materialista, forse il paese meno spirituale al mondo, e non c'è democrazia, ma un regime autoritario e autocrate.  L'India è un paese-continente colmo di spaventose disuguaglianze, ancora in gran parte edificato socialmente sul sistema delle caste.  Sud-est asiatico e Giappone, pur avendo aderito (in forme parossistiche) al modello di vita occidentale, sono ancora pervasi da mentalità fondamentaliste, in alcuni casi medievali.

L'Occidente, pur con le sue distorsioni, le sue guerre spaventose, i suoi genocidi, ha creato - dalla grande tradizione dei padri romani e greci - i principi del diritto e della democrazia, oltreché dei principi fondamentali della persona umana (e quindi delle Costituzioni libere) che sono state adottate anche in molte parti d'Oriente.

Insomma: perché tanta sapienza, tanta profonda consapevolezza non si è tradotta, nel corso di così tanti secoli,  in vita migliore, in principi migliori, in equità, in giustizia, tutto sommato, in felicità condivisa e diffusa ?

Resta per me un mistero.


Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata 

14/03/12

Dove è andato quel che ho vissuto (e che non ricordo)?



Qualche settimana fa mi è capitata una strana cosa.

Un mio parente ha ritrovato un vecchio super-8 di famiglia girato nel 1970.  Lo ha trasformato in supporto digitale e messo a disposizione di noi, che all'epoca eravamo poco più che bambini, i cui volti sono rimasti impressi in quella vecchia pellicola.

E' una giornata normale, deve esserci stata qualche cerimonia, la famiglia si è riunita al mare.  Non è inverno e non è estate. Deve essere una giornata come quelle che stiamo vivendo, di primavera prematura e già calda.

La 'pizza' del film dura 3 minuti, ma è un documento molto chiaro. 

E però la particolarità è questa, e mi fa riflettere: riemerge dall'oblio una giornata della mia vita, che io non ricordo assolutamente di aver vissuto. 


Fino al momento prima di vedere quel film, infatti, io non ho minimamente memoria di quella giornata, che pure ho vissuto, come dimostra incontrovertibilmente il filmato girato.

Sono io quel bambino che cammina, si gira, si tocca i capelli. Sono io quello che siede e ascolta i discorsi dei grandi. Sono io, certamente.

Eppure, se questo filmato non fosse riemerso dalle tenebre, io non avrei saputo nemmeno di aver vissuto quella giornata.   Perché la mia memoria ha cancellato quella giornata, come ha cancellato la stragrande maggioranza delle singole giornate che io ho vissuto nella mia vita.

Eppure, come dimostra questo filmato, quelle giornate esistono. O meglio, sono esistite.  Sono esistite ed esistono, a quanto pare, anche se io non le ricordo, e anche se nessuno le ricorda.

Esistono davvero  ?  Non appare in contraddizione questa esistenza, con la constatazione che spesso facciamo secondo cui qualcosa esiste solo finché c'è qualcuno o qualcosa che ne è testimone e che lo ricorda ? 


Oppure i ricordi e le cose che abbiamo vissuto esistono indipendentemente dal fatto che io le ricordi e che qualcun altro le ricordi ? 


Le moderne teorie quantistiche descrivono il tempo come una quarta dimensione della realtà che viene descritta come un foglio ripiegato in infinite (e inaccessibili) sottili piegature (stringhe) che sarebbero allineate una accanto all'altra (o dentro o attraverso l'altra).

Questo darebbe la possibilità - teorica - di srotolare quelle pieghe e di 'disporre' dei singoli momenti del tempo come singole entità TUTTE esistenti.

Dunque, quella giornata che io non ricordavo, esiste ancora, in qualche piega dell'universo ?

In quella piega ci sono ancora io bambino che ascolto i discorsi dei grandi seduti al tavolino ?

Il breve filmato dal ritmo sincopato che è tornato dal buio del passato, vuol forse dirmi questo ? Vuol dirmi che niente, in fondo, fino in fondo, è definitivamente perduto (anche se io non ne ho memoria, anche se io l'ho... dimenticato) ?


14/01/12

Festival delle Scienze di Roma - Julian Barbour: "Il tempo non esiste".



Sarà un meraviglioso viaggio nei gangli della condizione umana più misteriosa - quella del «tempo» - la settima edizione del Festival delle Scienze. 

Tra pochi giorni, dal 19 al 22 gennaio, all' Auditorium Parco della Musica a Roma, prenderà vita uno straordinario itinerario attraverso quello che la fisica e l' astronomia, la musica, l' arte e la storia, hanno prodotto sul significato della quarta dimensione e cioè l'idea del tempo.

Il carnet degli ospiti è davvero d' eccezione: dall' antropologo statunitense Ian Tattersall (sabato 21, alle 16) che discute del «tempo profondo dell' evoluzione» al fisico britannico Julian Barbour (domenica 22, alle 21) autore di quel libro geniale che è «La fine del tempo», pubblicato da Einaudi che giunge ad un 'ripensamento' completo della nostra concezione del tempo alla luce delle cognizioni della meccanica quantistica. 

Nel video qui sopra, una gustosa anticipazione del pensiero di Barbour.