Visualizzazione post con etichetta matrimonio. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta matrimonio. Mostra tutti i post

29/01/22

Come rifare 50 anni dopo, "Scene di un matrimonio" di Bergman e come farlo meravigliosamente bene


Si pensava che fosse impossibile e impensabile imbarcarsi in un remake da un'opera mitologica come "Scene da un matrimonio" che Ingmar Bergman realizzò per la televisione qualcosa come 50 anni fa, nel 1973, archetipo e prototipo delle "serie" televisive, che nasceranno soltanto 30 anni più tardi.

Invece l'israeliano Hagai Levi non solo ci ha provato, ma ha realizzato un miracolo.

D'altronde Levi è il più brillante scrittore e creatore della sua generazione, basti pensare che ha inventato il "format" di In Treatment, (nell'originale israeliano Be Tipul), poi esportato e rifatto negli USA e in decine di altri paesi.

Prodotto dalla Hbo, la più raffinata delle reti, Hagai Levi ha riscritto interamente il copione bergmaniano, operando alcune coraggiose modifiche: tagliando la puntata n.2 di Bergman (quella che aveva il meraviglioso titolo "L'arte di nascondere la polvere sotto il tappeto") - e quindi qui sono 5 non 6 - e invertendo i ruoli dei protagonisti:  nella serie 2021 non è il marito a tradire e a andarsene, ma la moglie. E di conseguenza, tutto avviene a parti invertite.

La sostanza però non cambia. Ma tutto viene "aggiornato" secondo lo zeitgeist, lo spirito del tempo, di oggi.

Ed è una serie dolorosissima, come l'originale, ma necessaria.

5 puntate meravigliose, contenute nel claustrofobico legame tra Jonathan (Oscar Isaac) e Mira (Jessica Chastain), che non riescono ad essere all'altezza dell'amore che li lega, del sentimento che sentono l'un l'altro, che sabotano - come spesso succede - questo rapporto e anche le loro vite individuali, alla ricerca di aria, di libertà, di spazio, di crescita evolutiva, di emancipazione, salvo ritrovarsi poi all'apparente punto di partenza, sconsolatamente orfani di qualcosa che hanno perduto e che non può ormai più essere rimesso in piedi - se non sotto forma di affetto o scarna sessualità estemporanea.

Quest'opera riesce insomma ad essere degna dell'originale bergmaniano (anche se ovviamente, nelle mani del maestro, tutto ciò si trasformava in una delle sue ricerche da entomologo sulla natura e sulle ombre dell'animo umano).

Tutto ciò grazie a due attori veramente straordinari, Jessica Chastain e Oscar Isaac che si mettono in gioco completamente, esponendo con se stessi, la nudità completa dei loro personaggi, indagati instancabilmente da primi o primissimi piani.

I due meritavano e hanno vinto innumerevoli, meritatissimi premi.

Il segreto della loro alchimia sul set, sembra nasca dal fatto che si conoscono da tantissimo tempo, essendo ex compagni di corso nella mitica Julliard School che ha sfornato innumerevoli talenti negli ultimi anni.

Ogni piega, ogni dolore, ogni lacrima, ogni sorriso, ogni violento litigio, ogni compassione o riappacificazione è dunque qui mostrata con naturalezza, con estrema verità.

Una serie che è una delle più belle e sostanziose sorprese di questi ultimi due difficilissimi anni, per tutti.

Fabrizio Falconi - 2022

10/09/21

Carrère, l'autofiction, le accuse della moglie e i confini dei racconti coniugali privati

Emmanuel Carrère con la moglie Hélène Devynck ai tempi della loro relazione 

Leggendo in questi giorni Vite che non sono la mia, pubblicato in Italia nel 2009 (da Einaudi e poi ristampato da Adelphi), non si può non ammirare, ancora una volta, la capacità di scrittura e di racconto di Emmanuel Carrère, anche se, tra una pagina e l'altra, affiora costante per tutto il volume il fantasma, in realtà piuttosto concreto di Hélène Devynck, l'ex moglie dello scrittore, a sua volta giornalista anchor-woman e produttrice televisiva. 

Come nello stile che lo ha reso famoso, Carrère raccontando le vite di altri che non sono lui - in questo caso persone incontrate casualmente durante e dopo lo tsunami dell'Oceano Indiano del 2004, dal quale Carrère e la moglie si salvarono per circostanze fortuite, la sorella morta precocemente di tumore della moglie, a Parigi, e il collega giudice di questa - racconta anche molto, anzi moltissimo di se stesso e delle persone che gli sono vicine, in primis, la moglie Hélène. 

Ma quel che racconta Carrère di se stesso e di ciò che accade nella sua vita è tutto vero? 

La domanda sarebbe peregrina - visto che ogni autore, anche nella pratica ormai molto diffusa della cosiddetta autofiction, inventa, se non fosse che Carrère ha più volte spiegato di pretendere da se stesso una fedeltà assoluta a quanto racconta, anche a costo di mettersi più a nudo di quanto vorrebbe (o che vorrebbe comunque visto che piovono da anni su di lui accuse di megalomania e narcisismo).   

Questo va bene per sé, ma per gli altri? 

Le note vicende seguite all'uscita dell'ultimo libro, Yoga (sempre pubblicato da Adelphi) -  nel quale lo scrittore racconta duramente la sua depressione profondissima seguita al fallimento del suo matrimonio, le cure a base di elettroshock, il ricovero in una clinica di rehab, ecc.. -  hanno riaperto la questione, visto che nuove accuse sono arrivate, roventi, proprio dalla ex seconda moglie Hélène. 

Hélène Devynck, subito dopo la pubblicazione del libro è andata giù assai pesante con un lungo intervento pubblicato sul Vanity Fair francese, nel quale accusa palesemente, in primis, l'ex marito di aver violato l’accordo tra loro due stipulato dopo il divorzio e presenta “Yoga” come una “storia falsa”.

Ricordiamo qualche passo di quell'intervento:

Emmanuel ed io siamo vincolati da un accordo che lo obbliga ad ottenere il mio consenso per utilizzarmi nel suo lavoro. Non ho acconsentito al testo così com’è apparso, nonostante l’autore e il suo editore siano ben consapevoli della mia determinazione a far rispettare questo contratto. Negli anni in cui abbiamo vissuto insieme, Emmanuel ha potuto usare le mie parole, le mie idee, persino la mia sessualità: era innamorato e la mia persona era rappresentata in un modo che si addiceva ad entrambi. 

Ma dopo il divorzio, dice Hélene, le cose sono cambiate e Emmanuel aveva acconsentito ad assumere un impegno a lungo termine: da quel momento in poi avrebbe dovuto chiedere sempre il consenso di lei per poterla rappresentare e non avrebbe dovuto mai inserirla contro la sua volontà. Per sempre, per tutta la durata della sua vita letteraria e artistica. Impegno che ricade anche sulla rappresentazione della figlia. 

Ma proprio mentre Emmauel accettava il patto, mentiva, nascondeva che stava disegnando il mio ritratto. L’ho capito solo pochi giorni dopo la firma di questo accordo, quando ho ricevuto il manoscritto di Yoga con questa nota: “Che io scriva libri autobiografici non deve essere una sorpresa per voi. (...) Questa storia sarebbe incomprensibile se non dicessi nulla sul contesto”. Il contesto, in questo caso, ero io”. 


Hélène accusa esplicitamente Carrère di aver mescolato deliberatamente realtà e finzione. Questa storia, presentata cioè  come autobiografica, è falsa, dice Hélène, organizzata per servire l’immagine dell’autore e totalmente estranea a ciò che la mia famiglia ed io abbiamo passato al suo fianco con omissioni in cui l’autore dice di “essere scivolato, deliberatamete”. 


Il lettore può credere che dopo Saint-Anne (l’ospedale psichiatrico in cui Carrère è stato ricoverato per quattro mesi ndr), Emmanuel se la cavi con due mesi di viaggio per incontrare le disgrazie del mondo, quelle dei giovani rifugiati sull’isola greca di Leros. I due mesi sono durati solo pochi giorni, in parte in mia compagnia. Ma soprattutto, è stato prima dell’ospedale, ancor prima che si facesse la diagnosi del suo comportamento folle e aggressivo, che io cercavo, con i mezzi a disposizione, di contenere. L’episodio dilatato si presenta come una via d’uscita dalla depressione, un ritorno alla vita. L’opposto della realtà. E potrei moltiplicare gli esempi.

Yoga è una favola, l’uomo nudo, onesto, sofferente, che è tornato dall’orlo del baratro. I lettori sono liberi di credere o di dubitare. L’autore è libero di raccontare la sua vita come vuole, come può. Volevo avere la libertà di non farne parte, di non essere associata a uno spettacolo presentato come autentico ma nel quale non mi riconosco perché non l’ho vissuto

E' difficile, leggendo queste parole, non riconoscere la ragione in quello che afferma Hélène. 

Fino a che punto arriva il diritto di raccontare "le vite degli altri"?  Se si professa fedeltà ai fatti, come si possono mescolare ad essi invenzioni arbitrarie?  Se si verifica che diverse cose raccontate nel libro non sono vere, ma frutto di invenzione, come si può credere alla fedeltà degli altri fatti?  Se invece, tutto è scrittura e tutto è letteratura, non si dovrebbe rispettare la scelta di chi  non vuol far parte del "contesto"?  

Domande che ronzano nella testa durante la lettura e che rovinano abbastanza il grande piacere di leggere un gran bel libro come questo. 

Fabrizio Falconi 

03/11/20

Libro del Giorno: "Le cose dell'amore" di Umberto Galimberti

 


Quando dico “ti amo” che cosa sto dicendo di preciso? E soprattutto, chi parla? Il mio desiderio, la mia idealizzazione, la mia dipendenza, il mio eccesso, la mia follia? Non c’è parola più equivoca di “amore” e più intrecciata a tutte quelle altre parole che, per la logica, sono la sua negazione.

Tutti, chi più chi meno, abbiamo fatto esperienza che l’amore si nutre di novità, mistero e pericolo e ha come suoi nemici il tempo, la quotidianità e la familiarità. Nasce dall’idealizzazione della persona amata di cui ci innamoriamo per un incantesimo della fantasia, ma poi il tempo, che gioca a favore della realtà, produce il disincanto e tramuta l’amore in un affetto privo di passione o nell’amarezza della disillusione.

Qui Freud ci pone una domanda: “Quanta felicità barattiamo in cambio della sicurezza?”.

Umberto Galimberti ci consegna un volume in cui l’acutezza del pensiero penetra i meandri del sentimento e del desiderio, registrando i mutamenti intervenuti nelle dinamiche dell’attrazione, nel patto con l’amato/a, nei percorsi del piacere (dall’onanismo alla perversione). Sullo sfondo si muove, come un fantasma, continuamente evocato e rimosso, quello che propriamente o impropriamente gli uomini non smettono di chiamare amore.

In 19 capitoletti di poche pagine - originariamente articoli apparsi su La Repubblica -  densissime, la parola amore viene declinata con parole-corrispettivo, in un range che ne scandaglia ogni risvolto:  Trascendenza; Sacralità; Sessualità; Perversione; Solitudine; Denaro; Desiderio; Idealizzazione; Seduzione; Pudore; Gelosia; Tradimento; Odio; Passione; Immedesimazione; Possesso; Matrimonio, Linguaggio; Folli






08/10/18

Quanto amore c'è in una passione ? Umberto Galimberti.




Il matrimonio è l'impresa più difficile che si possa intraprendere, perché in ciascuno di noi c'è un conflitto tra il nostro bisognodi "individuazione" e il nostro bisogno di "coesione", che sono tra loro in un rapporto inversamente proporzionale, perché a un aumento di individuazione corrisponde una diminuzione di coesione e viceversa. 

Se il bisogno di individuazione raggiunge una sua maturità e si emancipa dal tratto infantile di chi vuol essere semplicemente diverso dagli altri fino al punto di assumere un atteggiamento reattivo nei confronti degli altri, e se il bisogno di coesione compie lo stesso processo di maturazione, emancipandosi dal bisogno simbiotico con l'altro che ricalca il rapporto infantile che ciascuno di noi ha avuto con la madre, allora ci sono le condizioni per un felice matrimonio e una sua lunga durata, garantita dal fatto che ciascuno dei due ha bisogno dell'altro per lo sviluppo delle rispettive potenzialità. 

Tutti capiscono che una condizione del genere è un'opera d'arte.

E non tutti siamo artisti, anche se non sarebbe male che ciascuno, prima di unirsi in matrimonio, esaminasse con cura di che natura è il suo bisogno di individuazione e il suo bisogno di coesione. 

A differenza che in passato quando la famiglia, le condizioni di ceto o di classe, le condizioni economiche, le leggi dello Stato, le norme del diritto, i precetti della Chiesa avevano una notevole influenza sulla scelta matrimoniale, oggi questa scelta è del tutto individuale, come se l'amore, rispetto a tutte le leggi che governano la nostra quotidianità, reclamasse una sua assoluta autonomia e non riconoscesse altra autorità che non sia la propria decisione soggettiva. 

Ma se le cose stanno così, allora quell'esaminare se stessi prima di inaugurare una vita in comune con un'altra persona assume una rilevanza ancora maggiore. Soprattutto se questo essere padroni assoluti della propria scelta si vincola all'essere padroni assoluti della propria felicità. 

In questo caso se la felicità è misurata esclusivamente sull'intensità della passione (e questo non è difficile da riconoscere), allora è ovvio che il matrimonio, oltre a non prevederlo come una scelta irrevocabile, diventa come scriveva Tolstoj "un inferno". 

Ma la passione è l'unico modo in cui si può declinare l'amore?

La passione come diceva Stendhal "non è cieca, è visionaria". E di visione in visione si può arrivare anche all'allucinazione. E' vero che senza idealizzazione non nasce nessun amore, ma non dobbiamo dimenticare che la passione ci rende passivi, perché è lei a condurci in quella condizione caratterizzata dal "patire l'altro", mentre l'amore non si accontenta di "patire" perché vuole agire, e perciò col tempo rifiuta di declinarsi sul solo versante della passione, trascinato dalla discontinuità delle sue oscillazioni. 

E rifiutandosi di subire, l'amore crea, come un artista, la sua opera d'arte. 

Se poi l'opera d'arte non riesce e la relazione si chiude, ascoltiamo i consigli di James Hillman che ci invita ad evitare la vendetta che è una risposta emotiva che non emancipa la coscienza, a non cadere nel cinismo che nega il valore dell'altro che un tempo avevamo sopravvalutato, e ci induce a concludere che i grandi amori sono per gli ingenui.  Non ridicolizziamo i sentimenti più profondi per evitare di vergognarci di averli un giorno provati.  Ed evitiamo infine di diventare paranoici pretendendo da un nuovo amore che dovesse sorgere, prove di devozione, giuramenti di mantenere la promessa, dichiarazioni di fedeltà eterna. 

La fedeltà in sé non è un valore.

Un valore è l'amore, perché quando si è innamorati non c'è bisogno di imporsi alcuna forma di fedeltà.

Umberto Galimberti, da Lettere a Galimberti, D di La Repubblica 29 settembre 2018, p. 126

16/05/18

"Miracoli d'amore coniugale" di Vittorio Sgarbi.



Che cos’è l’amore? Che cos’è arte? Due domande assolute, irricevibili.

Ma la seconda può essere utile a rispondere alla prima. Parliamo di amor sacro e, anche, del matrimonio: per molti una pena e una dannazione, tenacemente perseguita, per consuetudine, per ordine sociale, come la maturità, la patente e la laurea. Per altri l’apice di un rapporto amoroso (che di per sé non lo richiederebbe). Per chi crede fermamente: un sacramento.

La mia visione del Cristianesimo è troppo legata alla sua ragione storica perché io mi possa dire di fede cristiana. Dirò che sono di ragione cristiana. E testimone grato della civiltà cristiana. Non coincidendo in me fede e ragione, devozione a Dio e vita quotidiana, nella loro frequente contraddizione, non mi sono mai sposato.

Ma ne provo nostalgia, pensando ai miei genitori e, più ancora, meditando a una pagina sublime della storia dell’arte: l’affresco di Giotto con l’incontro di Gioacchino e Anna alla Porta aurea nella Cappella degli Scrovegni, a Padova. 

Chi vi si reca in pellegrinaggio (pur disturbato dalla fastidiosa camera iperbarica dell’ingresso posteriore, per contingentare e “spolverare” i turisti) può astrarsi davanti a quella visione, e trasferire in una dimensione ideale, di una propria vita mancata o non vissuta, l’incontro di quegli sposi. Giotto descrive un ricongiungimento dopo una lunga assenza. Gioacchino è andato nel deserto per insofferenza e infelicità. Anna non riesce a renderlo padre. E il matrimonio è, letteralmente, il “dono della madre”.

Malinconico, tra i pastori, nel deserto, Gioacchino ha l’apparizione dell’Angelo. Che lo esorta a rientrare a casa, dove tutto si è compiuto. Così, alla buon’ora, accompagnato da un pastore che, nel taglio della composizione, è diviso a metà per farci sentire il cammino di lungi, Gioacchino torna verso Gerusalemme.

E, sul ponte, subito fuori dalla Porta aurea, incontra Anna. Giotto riesce, per la prima volta, a farci sentire l’intensa emozione del loro abbraccio. Gioacchino inchina leggermente in avanti il corpo, Anna piega il busto, così che loro vesti si fanno una sola, in un congiungimento che allude alla maternità. 

E, mentre si abbracciano, i loro corpi diventano uno solo: un naso, due occhi, una bocca, contro lo spigolo della torre di guardia, dalle cui feritoie possiamo immaginare lo sguardo commosso dei soldati. Ma l’intimità, che genera una profondissima nostalgia, è espressa nei gesti: lui l’avvicina con il braccio destro sulla schiena; lei, tenerissimamente, gli mette una mano tra la barba e l’altra dietro la nuca. 

Mai gesto fu più intenso e delicato di questo. Dietro, sotto l’arco, il corteo delle donne che hanno seguito Anna, frementi, sorridenti, con i loro abiti variopinti, e i gesti di approvazione. Una tiene lo scialle di Anna. Ma, a dividere loro, felici, dalla coppia felice, c’è una donna vestita di nero, con il velo che le copre metà del volto. Una intuizione formidabile, per contrasto. 

Nella sua austera e dolorosa solitudine, questa immagine nera indica la vedovanza, il lutto. È attraverso questa intuizione che si potenzia il dialogo muto dei gesti di Gioacchino e Anna, colmi di affetto e di gratitudine al Dio che li ha uniti e resi fecondi.

Qualcuno ha scritto: il primo bacio della storia dell’arte. No, l’immagine stessa dell’amore coniugale, come unione per la famiglia. La famiglia cristiana, quella dei miei genitori, quella che io non ho costituito. E che, davanti a Giotto, e alla sua eloquenza, rimpiango.

Vittorio Sgarbi, Miracoli d'amore coniugale, Io Donna, Corriere della Sera, 25 agosto 2018


13/03/18

Il Libro del Giorno: "Distacchi" di Judith Viorst


E' salutare, anche se duro leggere e meditare su questo libro, scritto dalla psicoanalista Judith Viorst nel lontano 1986, e divenuto con gli anni un long-seller in tutto l'Occidente. 

Uno studio che affronta il legame vitale tra ciò che si perde nella vita e ciò che si guadagna, e atutto ciò che si deve rinunciare per poter crescere. 

Viorst parte dalla constatazione che la vita umana è continuamente costellate di perdite, che si verificano lungo tutto il corso della vita e che sono necessarie allo sviluppo stesso della vita e alla crescita psicologica.

Sono, naturalmente, perdite dolorose, a partire dalla rinuncia del bambino alla madre, alle prime separazioni con la madre che l'ha generato, passando per tutte le nostre scelte adulte, cui corrispondono sempre a parziali o totali rinunce o compromessi. 

In 20 densi capitoli, Distacchi descrive la faticosa separazione del sé che avviene nell'io-bambino, la fine dell'infanzia, la difficile gestione dei rapporti di amicizia - che non possono essere sempre completi, ma limitati - la separazione e il lutto amoroso, il distacco - comprensivo di amore e odio - nel matrimonio, il distacco dalla propria immagine giovanile quando si comincia a invecchiare, fino all'ultima e più drammatica separazione rappresentata dalla morte.

Dal modo in cui affrontiamo queste separazioni necessarie - sostiene Viorst - dipende la qualità del nostro crescere come esseri adulti e consapevoli. Dalla comprensione che ogni rapporto umano è ambivalente - e quindi non perfetto - dipende  la nostra maturità e la nostra responsabilità.  Nell'abbandonare le nostre aspettative impossibili, scrive Viorst, "diventiamo un Sé che si lega affettivamente, rinunciando alle visioni ideali di un'amicizia, di un matrimonio, di figli, di una vita familiare perfetti per le dolci imperfezioni di relazioni tutte-troppo umane". 

Ci sono insomma tante cose che dobbiamo abbandonare per poter crescere.  Perché non possiamo amare qualcosa profondamente senza diventare vulnerabili una volta che lo perdiamo.  E non possiamo diventare persone separate, persone responsabili, "persone che stringono rapporti, persone che riflettono, senza perdere qualcosa, senza abbandonare, senza lasciare andare via".

Naturalmente ciascun essere umano sa quanto possa essere doloroso il distacco dalle cose che si amano, fuori e dentro di noi. 

Il libro di Viorst, pur partendo da assunti strettamente freudiani - e questo è il limite, non trascurabile di questo lavoro - non indora la pillola: alcuni capitoli, anzi, come quello sull'invecchiare, sulla morte, e sulla separazione dall'essere bambini, sono dolorosi, necessariamente dolorosi, e non offrono facili vie d'uscita. 

E' però un libro importante anche - e proprio - per questo, in tempi piuttosto vacui e inconsistenti. Ripartire dalla necessità della perdita e dalla consapevolezza lucida e faticosa del lutto - in tutte le nostre cose - può offrire un modo nuovo - e certamente più pieno e vero, di vivere le nostre esistenze. 

Fabrizio Falconi
2018 - riproduzione riservata




22/09/15

Il matrimonio di Jonathan Franzen: vita e ispirazione.




tratto da Repubblica online, 30 ottobre 2012.

Jonathan Franzen, Farther Away, 2012.

Vorrei dedicarmi al concetto di diventare la persona giusta per scrivere il libro che volete scrivere. 

Riconosco che parlando del mio lavoro,e raccontando la storia del mio passaggio dal fallimento al successo, corro il rischio di sembrare immodesto o innamorato di me stesso. Non è poi così strano o deprecabile che un scrittore vada fiero della sua opera migliore e passi molto tempo a esaminare la sua vita. Ma deve anche parlarne? 

In passato avrei risposto di no, e il fatto che ora risponda di sì potrebbe anche rivelare qualcosa di negativo sul mio carattere. 

Ma intendo comunque parlare delle Correzioni, e descrivere alcune delle lotte che ho affrontato per diventarne l' autore

Faccio notare in anticipo che buona parte di quelle lotte hanno riguardato - come credo accadrà sempre agli scrittori profondamente impegnati nel problema del romanzo- il superamento della vergogna, del senso di colpa e della depressione

Faccio anche notare che il semplice fatto di parlarne rinnoverà la mia vergogna

La prima cosa che dovetti fare all' inizio degli anni Novanta fu uscire dal mio matrimonio

Infrangere la promessa e il legame emotivo non è facile quasi per nessuno, e nel mio caso era ulteriormente complicato dal fatto di aver sposato una scrittrice. Mi rendevo vagamente conto che eravamo troppo giovani e inesperti per votarci a una monogamia perpetua, ma le mie ambizioni letterarie e il mio idealismo romantico ebbero la meglio.

Ci sposammo nell' autunno del 1982, quando avevo appena compiuto ventitré anni, e cominciammo a lavorare insieme, in squadra, per produrre capolavori letterari. Avevamo progettato di lavorare fianco a fianco per tutta la vita.

 Non ritenevamo necessario avere un progetto di riserva, perché mia moglie era una newyorkese sofisticata e piena di talento che sembrava destinata al successo, probabilmente molto prima di me,e io sapevo che sarei sempre riuscito a cavarmela.

E così ci mettemmo entrambi a scrivere romanzi, e restammo entrambi sorpresi e delusi quando mia moglie non riuscì a vendere il suo. 

Quando io vendetti il mio, nell' autunno del 1987, mi sentii emozionato ma anche molto, molto in colpa.

27/08/14

Erica Jong: "Ho detto tante cose terribili, ma ero giovane e cinica."



Al volante di un fuoristrada nero, Erica Jong aspetta davanti alla stazione di Westport, Connecticut. C’è una coperta sul sedile posteriore per evitare che, quando i cani saltano a bordo, lo coprano di peli. Poco dopo, Ken arriva puntuale in treno da Manhattan, con il Times, il Post e il Daily News sotto il braccio e, a tracolla, una borsa che gli curva la schiena. Lei gli cede il posto alla guida. Lui imposta il navigatore per trovare il ristorante Whelk. «Questa macchina è nuova, ci sta facendo impazzire» commenta Erica nell’elegante tubino nero e giallo.

Scene di una tranquilla vita di coppia in questa specie di colonia estiva dei newyorchesi. Ma quello che colpisce è quanto siano cambiate le cose da quando l’autrice di Paura di volare aprì il suo bestseller con la seguente massima: «Bigamia vuol dire un marito di troppo, monogamia pure».

Sono passati quarant’anni e, due settimane fa, Erica ha festeggiato le nozze d’argento. Venticinque anni con lo stesso uomo. «Non ci avrei creduto se me l’avessero detto» racconta infilzando i gamberetti fritti in salsa barbecue, inframmezzati da sedanini sottaceto.

Proprio lei che sentenziò che «anche se si ama il proprio marito, arriva inevitabilmente il momento in cui scopare con lui è come mangiare un formaggino alla panna: riempie, ingrassa perfino, ma niente sapori eccitanti… e quello che si vuole invece è un pezzo di camembert stagionato» — adesso spizzica dal piatto di Ken le vongole con bacon, anch’esse in salsa barbecue.

«Ho detto tante cose terribili sul matrimonio, ma ero giovane e cinica. Ora penso che la cosa più preziosa sia avere qualcuno che ti guarda le spalle». Lancia uno sguardo al marito, seduto al suo fianco sullo sfondo delle acque verdi e placide del Long Island Sound, il braccio di mare che separa Long Island dal Connecticut.
«Penso che il matrimonio sia molto importante… se è quello giusto» conclude. Ma Ken puntualizza: «È importante anche se non è quello giusto. È così che mi guadagno da vivere». Fa l’avvocato ed è specializzato in divorzi difficili (etero e gay).

Venticinque anni fa, li ha presentati un’amica comune a New York. «Ma la storia interessante — interviene l’avvocato, sollevando prontamente lo sguardo dai cavatelli al nero di calamari — è come abbiamo deciso di sposarci. Ci frequentavamo da un paio di mesi, ma non avevo mai incontrato i genitori di Erica. Anche loro avevano una casa per i weekend qui in Connecticut e così un sabato sono venuti a trovarci. Ho conosciuto suo padre, uomo incantevole, e ho conosciuto sua madre. Più tardi, in auto su Riverside Avenue, ho detto a Erica: “Ti ho amato dal momento in cui ti ho incontrata, ma non capivo perché. Adesso so che hai bisogno di me».




27/06/12

"Il matrimonio ucciso dal sesso." Un articolo di Keith Botsford.



Non mi capita spesso, debbo dire, di vedere Montaigne, uno degli uomini più saggi e spassionati, citati sui giornali. Eppure eccolo lì, su Le Figaro del 13 agosto: “il matrimonio è un legame religioso e devoto; perciò il piacere che ne traiamo dovrebbe essere un piacere limitato, serio, e in qualche misura anche severo. Dovrebbe essere una voluttà prudente e coscienziosa." 

Ho letto queste parole e, come era successo allo scrittore francese Pascal Bruckner che le citava, mi hanno dato da pensare. Perché questa non è certo la descrizione delle unioni del nostro tempo. Oggi il matrimonio – quando esiste, o per quanto dura – raramente è religioso e ancor più raramente è devoto e il piacere che ne deriva è la stessa gratificazione istantanea disponibile anche al di fuori del matrimonio. Vale a dire, pura libidine. Ed essendo solo quello, appassisce col tempo. 

La nostra cultura tradizionale, ci ricorda Bruckner, riconosceva la fragilità dell’erotismo. Per questo occorreva qualcos’altro per garantire la durata del matrimonio – la “prudenza e coscienziosità” di Montaigne. Noi invece abbiamo imboccato la strada opposta: siamo imprudenti e trascurati. Appena consumata una unione, passiamo a un’altra e a un’altra ancora. Di fatto la situazione è ancora peggiore di quanto ammetta Bruckner, perché il nostro eros oggigiorno cerca il suo oggetto senza nessuna considerazione per la durata o la continuità. E lo cerca in se stesso; nell’informe e nell’androgino; nei bambini; negli animali; nel senso della comunità, o in tutte quelle fantasie perverse che, a lungo sepolte nell’inconscio, sono ora venute alla luce sotto forma di pornografia, che illumina la coppia moderna o l’onanista solitario. 

Nulla è più peculiare del nostro tempo di questa continua ricerca di novità, di conoscenza di una funzione biologica, di “liberazione” da quei vincoli che hanno fatto dell’amoreggiare un atto umano anziché animalesco. Nel corso della mia vita – anzi, nella mia stessa vita – ho assistito a questa trasformazione chiamata eufemisticamente “liberazione”. 

Questa liberazione, osserveranno probabilmente gli storici del futuro, non è soltanto delle donne – non concepire (contraccezione), non far nascere (aborto) e non sposarsi (divorzio) – ma anche dei loro potenziali partner che ora, affrancati dal rischio e dalla responsabilità della relazione erotica (procreazione e/o matrimonio) possono andare a briglia sciolta con l’immaginazione. E lo fanno. 

I risultati, come li elenca Bruckner, dovrebbero far riflettere chiunque. Avendo la società rinunciato (con un libero voto !) a porre vincoli, nessuno è implicato nella relazione di due adulti. La prima conseguenza è abbastanza terribile: significa che “se l’unione fallisce, uno può biasimare solo se stesso. “ Ma in che cosa consiste questo fallimento ? 

16/06/11

'Considerate ciò che c'è sulla terra !'


Nei giorni scorsi il Vicariato di Roma ha diffuso due dati che, mi sembra, siano passati un po’ sotto silenzio e che invece forse vale la pena di meditare. Sono due dati piuttosto eloquenti che riguardano la città simbolo del cattolicesimo:
1. i matrimoni celebrati con rito religioso a Roma si sono, nel giro del ventennio 1990-2010 quasidimezzati (da circa 8,500 a 5000), mentre quelli civili sono rimasti invariati.
2. 1 bambino su 2 che nasce oggi a Roma, non viene battezzato (14.000 battezzati su 25.200 nel 2010).   Questi dati vanno ad aggiungersi ad un terzo, secondo il quale poco meno del 10% della popolazione partecipa più o meno saltuariamente alla messa domenicale.
I dati potrebbero essere tranquillamente allargati al resto del paese e manifestano quel che già appare evidente e cioè una scristianizzazione in atto – già piuttosto avanzata – della società italiana.
I numeri sono importanti ma di per sé non spiegano tutto. Qualcuno, analizzandoli, anzi vi troverà perfino aspetti positivi: meglio pochi cristiani ma convinti, si dirà, pochi cristiani che credono veramente e che ricominciano daccapo, piuttosto che un cristianesimo ‘di massa’, ma costruito su formalismi, non sentito, e tutto sommato dannoso perché ipocrita.
E però, comunque la si rigiri, i dati sono inequivocabili: Cristo è scomparso – anche come problema, come questione, come interrogativo – per una grande parte di persone, che stanno diventando rapidamente maggioranza.
Ecco: ma perché questo è successo ?  Certamente non è questo un luogo dove si possa tentare un’analisi seria di un fenomeno che ha radici antropologiche, culturali, sociali, complessissime.
Per quanto mi riguarda poi, non vorrei dare risposte – che non ho, ma suscitare domande.
La mia domanda è questa: ma non sarà che il mondo – il nostro mondo – sta diventando meno cristiano perché, molto semplicemente, Cristo è scomparso dalle nostre vite ?
Non sarà che sta finalmente trionfando quel sistema secondo cui la fede è sostanzialmente un fatto privato (il contrario, mi sembra di quanto è stato fondamentalmente e storicamente il cristianesimo) ?
Non sarà che la scristianizzazione dipende semplicemente che il nome di Cristo – e le parole che lui ha professato – sono scomparse dai comportamenti collettivi, pubblici, sociali ?
“Fondandosi sulla vita di un uomo e sulle sue azioni” – constatava amaramente Lev Tolstoj nelle sue‘Confessioni’ – “è assolutamente impossibile  capire se costui sia credente o meno. Se vi è una differenza tra coloro che professano esplicitamente la fede e quelli che la negano, ebbene, tale differenza non va certo a favore dei primi.”
Se una persona si professa ‘di fede’, e cioè cristiana, diceva in sostanza Tolstoj, ma non è intelligente, non è onesta, non è buona, non è retta, non ha sentimento etico (tutte manifestazioni che si sostanziano in comportamenti pubblici), costui, che cristiano è ?
Se il nostro cristianesimo serve a farci stare bene, a farci sentire migliori, più buoni,  ma non produce nullaper il mondo, per il resto della collettività – se addirittura lo stesso nome di Cristo è tabù (io stesso lo sento pronunciare pochissimo anche dagli stessi religiosi, fuori dai riti e dalle messe), cancellato dal consesso della vita comune – a cosa serve ?
Sono le stesse domande che si poneva Dietrich Bonhoeffer in anni cruciali, nei quali il nome di Cristo oltre ad essere tabù rischiava di generare di per sé, una condanna a morte.
Bonhoeffer la sua scelta la fece, e già nel 1932, intravvedendo che la semplice scelta di un cristianesimo timido e individuale avrebbe portato conseguenze tragiche per l’intera società in cui viveva.  Togliere Cristo di mezzo, infatti, relegarlo nei nostri spazi privati, gli sembrava una limitazione colpevole, una rinuncia che tradiva lo spirito stesso dei Vangeli, la parola più rivoluzionaria mai udita su questa terra, per l’uomo e per il mondo.
“Considerate ciò che c’è sulla terra !” scrisse “Da ciò dipendono molte cose: se noi cristiani abbiamo forza sufficiente per testimoniare al mondo che non siamo visionari o sognatori.  Che non lasciamo che le cose rimangano come sono, che la nostra fede non è veramente quell’oppio che ci rende felici in un mondo ingiusto.  Ma che noi, proprio perché tendiamo a ciò che è lassù, protestiamo tanto più ostinati e risoluti su questa terra.”
Fabrizio Falconi

25/06/08

"Fare sesso" - Lucetta Scaraffia.



Come proclamò il famoso mantra di Nanni Moretti anni fa, le parole sono importanti. Anche quando non ce ne accorgiamo.

Così è importante questa riflessione pubblicata ieri da Lucetta Scaraffia sul Calendario del Corriere della Sera che induce a soffermarsi su un (ormai) vieto modo di dire:

"Mai però si era sentita una espressione volgare come "fare sesso", scrive Aldo Cazzullo su Io Donna di sabato scorso, e non si può non dichiararsi d'accordo.

Dal momento che le cose sono anche il loro nome, questo modo di dire ormai universalmente diffuso (naturalmente noi italiani l'abbiamo importato dagli americani 'make sex', nota mia) - che fa il paio con l'altra definizione "sessualmente attivo" - costituisce la dimostrazione più evidente del fallimento della rivoluzione sessuale, della grande utopia che ha attraversato il Novecento e che prometteva a tutti una felicità a portata di mano.

Invece, dopo aver liberato il sesso prima dalla procreazione, poi dal matrimonio, e infine dall'amore, lo si è ridotto ad una attività ludica simile a tante altre: un po' come si dice 'fare jogging', ' fare shopping', o 'fare un week end'.

E quello che è andato perso non è soltanto l'impegno procreativo, o l'impegno amoroso: in questa dissacrante leggerezza si è forse perso il senso dell'umano, dell'incontro tra due esseri che, come bene dice un antico testo di una qualche notorietà, unendosi ' si conoscono."