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01/10/19

La millenaria storia della Basilica di San Pancrazio a Roma


La Basilica di San Pancrazio

Le storie dei martiri del primo cristianesimo romano sono sempre molto interessanti, anche perché sono quasi sempre legate con i luoghi di Roma e raccontando la storia di queste figure si finisce per raccontare anche la storia dei luoghi. E’ così anche per San Pancrazio, cui è intitolata l’antica Basilica sul  colle gianicolense.

Pancrazio, come racconta l’agiografia, tratta dalle memorie dei martiri romani, nacque da ricchi genitori di una famiglia romana nell’anno 289 d.C. a Sinnada, una cittadina della Frigia, in Asia Minore. 

Rimasto orfano all’età di otto anni (la madre era morta al momento del parto) Pancrazio fu affidato allo zio  Dionisio, al seguito del quale si trasferì a Roma, dove andò ad abitare in una splendida villa sul Celio, una zona della Città dove erano già attive numerose comunità di cristiani

Anche Pancrazio e Dionisio dunque furono battezzati e ricevettero l’Eucaristia. 


I tempi però erano molto pericolosi, visto che era scoppiata nel frattempo la feroce persecuzione di Diocleziano. Nel 303 d.C. la repressione – che causò complessivamente quindicimila vittime – si estese dalle province dell’impero fino a Roma, abbattendosi su chi si rifiutava di sacrificare agli dèi.

Questa sorte toccò anche al giovane Pancrazio – appena quattordicenne – il quale chiamato a riconoscere l’autorità dell’imperatore e rifiutandosi fermamente, fu condotto dinnanzi a Diocleziano stesso per essere giudicato.

Diocleziano.  Il sovrano, colpito dalla bellezza e dalla nobiltà del giovane, cercò perfino di convincerlo, senza risultato. La costanza sua fede gli valsero dunque l’ammirazione dei cortigiani presenti e lo sdegno dell’imperatore il quale ordinò l’esecuzione pubblica per decapitazione. 

Condotto fuori dalle mura, lungo la via Aurelia, il 12 maggio del 304, Pancrazio fu giustiziato alla presenza della matrona romana, una delle più famose del tempo, Ottavilla, la quale, sconvolta dalla sorte del ragazzo, fece raccogliere il capo e il corpo e li fece deporre in un sepolcro nuovo, lì dove sorgevano le catacombe della sua famiglia. 

Sul luogo del martirio, che è lo stesso dove oggi sorge la Basilica di San Pancrazio, si legge l’iscrizione Hic decollatus fuit Sanctus Pancratius (Qui fu decollato San Pancrazio), non lontano dall’altare dove si conservano i resti del corpo del ragazzo.


Fin qui l’agiografia ufficiale. C’è da aggiungere che la vicenda di Pancrazio si basa sostanzialmente sugli Acta - Passio sancti Pancratii - che furono scritti quasi due secoli dopo, al tempo in cui Papa Simmaco ordinò l’edificazione della grande basilica e che alcuni particolari della sua vicenda hanno generato confusione con quella di Calepodio, sacerdote romano martirizzato nel 232 d.C.

Il Martyrologium Romanum ancora oggi riporta in data 12 maggio la seguente commemorazione: A Roma, al secondo miglio lungo la Via Aurelia, memoria di S. Pancrazio, che ancora adolescente fu ucciso per la fede di Cristo; presso il luogo della sua sepoltura papa Simmaco innalzò la celebre basilica, e papa Gregorio Magno non perse occasione per invitare il popolo ad imitare un simile esempio di verace amore a Cristo. In questa data si commemora la deposizione delle sue spoglie.

Gli scavi archeologici operati nella zona hanno confermato che al di sotto dell’attuale Basilica esisteva un complesso di antiche origini, un porticato di una casa di una certa importanza, probabilmente la casa di Ottavilla, che doveva sorgere nei pressi del luogo dove fu eseguita la condanna a morte.

La fama di Pancrazio, specie dopo l’intitolazione della Basilica da parte di Simmaco, divenne enorme, si diffuse in molte parti d’Europa e a Roma condizionò i toponimi della zona al punto che anche l’antica Porta Aurelia, del circuito delle mura aureliane, cambiò il nome in Porta San Pancrazio, che mantiene anche oggi.

La Basilica fu nei secoli più volte rifatta, dapprima sotto il pontificato di Onorio I e poi nel 1609 dal cardinale Ludovico da Montereale che disseminò gli stemmi della sua casata un po’ ovunque. 

Un piccolo museo completa l’insieme della Basilica, con parte dei reperti provenienti dalle catacombe alle quali si può accedere nei pressi: vi è quella della matrona Ottavilla e quella di San Pancrazio (solo la seconda aperta al pubblico) ancora perfettamente conservate dopo duemila anni. 

06/02/18

Quando il Colosseo era un Chiesa. Una straordinaria foto dell'Ottocento.




In rarissime foto d'epoca, il Colosseo, il monumento di Roma più  celebrato, appare davvero in una veste insolita. 

Si tratta di scatti compiuti prima del 1874, quando il comune di Roma dispose la rimozione della Croce al centro dell'arena (ricoperta di terra chiara) e delle dodici edicole marmoree della Via Crucis disposte in tondo.

L'arena dei Gladiatori era dunque divenuta anch'essa un tempio cristiano, una chiesa ? Sì, e lo era da più di un secolo. 

Era stato infatti Papa Benedetto XIV, nel 1749, a disporre la Croce e le edicole, in memoria dei martiri cristiani trucidati nell'Arena eretta dall'imperatore Flavio Vespasiano. 

Bisogna ricordare che all'epoca l'enorme monumento non era protetto da alcuna cancellata e i viaggiatori del Grand Tour, ma anche i romani potevano accedervi sia di giorno che di notte. 

Perlopiù, intorno al Colosseo c'erano campi aperti, colmi di rovine, che ospitavano greggi e bestiame di passaggio. 

Questa foto fu realizzata nell'arena deserta, in pieno giorno, presumibilmente nel 1871, quando i giardinieri del comune avevano ripulito il Colosseo dalle erbacce, dai cespugli e dagli arbusti cresciuti selvaggiamente tra le antiche mura. 

Tre anni dopo, la croce e le edicole sarebbero state per sempre rimosse. E sarebbe finito il periodo della trasformazione dell'Arena in tempio cristiano: una delle tante fasi vissute da questo nobile monumento che ha attraversato i secoli come un'Arca del Tempo. 

Fabrizio Falconi
2018 - riproduzione riservata

26/12/16

Chi era Stefano - Il protomartire cristiano e la storia delle reliquie.




La celebrazione liturgica di s. Stefano è stata da sempre fissata al 26 dicembre, subito dopo il Natale, perché nei giorni seguenti alla manifestazione del Figlio di Dio, furono posti i comites Christi, cioè i più vicini nel suo percorso terreno e primi a renderne testimonianza con il martirio. 

Così al 26 dicembre c’è s. Stefano primo martire della cristianità, segue al 27 s. Giovanni Evangelista, il prediletto da Gesù, autore del Vangelo dell’amore, poi il 28 i ss. Innocenti, bambini uccisi da Erode con la speranza di eliminare anche il Bambino di Betlemme; secoli addietro anche la celebrazione di s. Pietro e s. Paolo apostoli, capitava nella settimana dopo il Natale, venendo poi trasferita al 29 giugno. 

Di s. Stefano, si ignora la provenienza, si suppone che fosse greco, in quel tempo Gerusalemme era un crocevia di tante popolazioni, con lingue, costumi e religioni diverse; il nome Stefano in greco ha il significato di “coronato”

Si è pensato anche che fosse un ebreo educato nella cultura ellenistica; certamente fu uno dei primi giudei a diventare cristiani e che prese a seguire gli Apostoli e visto la sua cultura, saggezza e fede genuina, divenne anche il primo dei diaconi di Gerusalemme

Gli Atti degli Apostoli, ai capitoli 6 e 7 narrano gli ultimi suoi giorni; qualche tempo dopo la Pentecoste, il numero dei discepoli andò sempre più aumentando e sorsero anche dei dissidi fra gli ebrei di lingua greca e quelli di lingua ebraica

I dodici Apostoli allora riunirono i discepoli e vennero eletti, Stefano uomo pieno di fede e Spirito Santo, Filippo, Procoro, Nicanore, Timone, Parmenas, Nicola di Antiochia; a tutti, gli Apostoli imposero le mani; la Chiesa ha visto in questo atto l’istituzione del ministero diaconale. 

La tradizione dice che Stefano compiva grandi prodigi tra il popolo, non limitandosi al lavoro amministrativo ma attivo anche nella predicazione, soprattutto fra gli ebrei della diaspora, che passavano per la città santa di Gerusalemme e che egli convertiva alla fede in Gesù crocifisso e risorto. 

Nel 33 o 34 ca., gli ebrei ellenistici vedendo il gran numero di convertiti, sobillarono il popolo e accusarono Stefano di “pronunziare espressioni blasfeme contro Mosè e contro Dio”. 

Gli anziani e gli scribi lo catturarono trascinandolo davanti al Sinedrio e con falsi testimoni fu accusato: “Costui non cessa di proferire parole contro questo luogo sacro e contro la legge. Lo abbiamo udito dichiarare che Gesù il Nazareno, distruggerà questo luogo e cambierà le usanze che Mosè ci ha tramandato”. E alla domanda del Sommo Sacerdote “Le cose stanno proprio così?”, il diacono Stefano pronunziò un lungo discorso, il più lungo degli ‘Atti degli Apostoli’, in cui ripercorse la Sacra Scrittura dove si testimoniava che il Signore aveva preparato per mezzo dei patriarchi e profeti, l’avvento del Giusto, ma gli Ebrei avevano risposto sempre con durezza di cuore. 

Fu il colmo, elevando grida altissime e turandosi gli orecchi, i presenti si scagliarono su di lui e a strattoni lo trascinarono fuori dalle mura della città e presero a lapidarlo con pietre, i loro mantelli furono deposti ai piedi di un giovane di nome Saulo (il futuro Apostolo delle Genti, s. Paolo), che assisteva all’esecuzione

In realtà non fu un’esecuzione, in quanto il Sinedrio non aveva la facoltà di emettere condanne a morte, ma non fu in grado nemmeno di emettere una sentenza in quanto Stefano fu trascinato fuori dal furore del popolo, quindi si trattò di un linciaggio incontrollato. 

Gli Atti degli Apostoli dicono che persone pie lo seppellirono, non lasciandolo in preda alle bestie selvagge, com’era consuetudine allora; mentre nella città di Gerusalemme si scatenò una violenta persecuzione contro i cristiani, comandata da Saulo

Dopo la morte di Stefano, la storia delle sue reliquie entrò nella leggenda; il 3 dicembre 415 un sacerdote di nome Luciano di Kefar-Gamba, ebbe in sogno l’apparizione di un venerabile vecchio in abiti liturgici, con una lunga barba bianca e con in mano una bacchetta d’oro con la quale lo toccò chiamandolo tre volte per nome. 

Gli svelò che lui e i suoi compagni erano dispiaciuti perché sepolti senza onore, che volevano essere sistemati in un luogo più decoroso e dato un culto alle loro reliquie e certamente Dio avrebbe salvato il mondo destinato alla distruzione per i troppi peccati commessi dagli uomini. 

Il prete Luciano domandò chi fosse e il vecchio rispose di essere il dotto Gamaliele che istruì s. Paolo, i compagni erano il protomartire s. Stefano che lui aveva seppellito nel suo giardino, san Nicodemo suo discepolo, seppellito accanto a s. Stefano e s. Abiba suo figlio seppellito vicino a Nicodemo; anche lui si trovava seppellito nel giardino vicino ai tre santi, come da suo desiderio testamentario. 

Infine indicò il luogo della sepoltura collettiva; con l’accordo del vescovo di Gerusalemme, si iniziò lo scavo con il ritrovamento delle reliquie. 

La notizia destò stupore nel mondo cristiano, ormai in piena affermazione, dopo la libertà di culto sancita dall’imperatore Costantino un secolo prima. 

Da qui iniziò la diffusione delle reliquie di s. Stefano per il mondo conosciuto di allora, una piccola parte fu lasciata al prete Luciano, che a sua volta le regalò a vari amici, il resto fu traslato il 26 dicembre 415 nella chiesa di Sion a Gerusalemme. 

Molti miracoli avvennero con il solo toccarle, addirittura con la polvere della sua tomba; poi la maggior parte delle reliquie furono razziate dai crociati nel XIII secolo, cosicché ne arrivarono effettivamente parecchie in Europa, sebbene non si sia riusciti a identificarle dai tanti falsi proliferati nel tempo, a Venezia, Costantinopoli, Napoli, Besançon, Ancona, Ravenna, ma soprattutto a Roma, dove si pensi, nel XVIII secolo si veneravano il cranio nella Basilica di S. Paolo fuori le Mura, un braccio a S. Ivo alla Sapienza, un secondo braccio a S. Luigi dei Francesi, un terzo braccio a Santa Cecilia; inoltre quasi un corpo intero nella basilica di S. Lorenzo fuori le Mura. 

La proliferazione delle reliquie, testimonia il grande culto tributato in tutta la cristianità al protomartire santo Stefano, già veneratissimo prima ancora del ritrovamento delle reliquie nel 415. 

Chiese, basiliche e cappelle in suo onore sorsero dappertutto, solo a Roma se ne contavano una trentina, delle quali la più celebre è quella di S. Stefano Rotondo al Celio, costruita nel V secolo da papa Simplicio

Ancora oggi in Italia vi sono ben 14 Comuni che portano il suo nome; nell’arte è stato sempre raffigurato indossando la ‘dalmatica’ la veste liturgica dei diaconi; suo attributo sono le pietre della lapidazione, per questo è invocato contro il mal di pietra, cioè i calcoli ed è il patrono dei tagliapietre e muratori.


La Basilica di Santo Stefano Rotondo al Celio, Roma

23/03/15

Le catacombe di Santa Priscilla e il "Lupo Mannaro" della seconda guerra mondiale.

Cortile delle Catacombe di Santa Priscilla (foto Fabrizio Falconi)


Le catacombe di Santa Priscilla e il Lupo Mannaro della seconda guerra mondiale.

La fama di quelle catacombe – che si è sempre saputo essere molto estese, secondo alcuni le più grandi di Roma, con oltre tredici chilometri di cunicoli sotterranei – ha sempre fortemente influenzato il quartiere Trieste che le ospita, al confine con il Salario. 

Un altro toponimo di queste strade – la piazza Acilia, che è attraversata dalla Via Nemorense – rimanda direttamente alla storia delle catacombe. Il nome infatti non si riferisce alla cittadina sulla via Pontina, ma alla gens Acilia, alla quale con ogni probabilità apparteneva la donna che oggi dà il nome alle catacombe, anzi per l’esattezza alla famiglia degli Acilii Glabriones. 

Priscilla era, secondo quanto hanno ricostruito gli archeologi e secondo quanto risulta da una iscrizione funeraria, insieme agli Acilii, la proprietaria dei terreni su cui fu costruita la necropoli.  
Il nucleo più antico delle catacombe risale al II secolo d.C. quando si iniziò a scavare la collinetta tufacea nella zona che oggi sovrasta Villa Ada e che anticamente permetteva di dominare la confluenza dei due fiumi, il Tevere e l’Aniene. 

 Ma fu nel III e nel IV secolo che il cimitero divenne vastissimo, quando esso cominciò ad ospitare i numerosi martiri delle persecuzioni anticristiane di quell’epoca, compresi i corpi di sette papi. 

Nei cunicoli, disposti su tre livelli che si spingono fino a quaranta metri di profondità, furono sepolti migliaia di corpi, secondo alcune stime fino a quarantamila persone, non soltanto cristiane. 

Come capitò ad altre catacombe anche queste, dopo le invasioni barbariche furono abbandonate nel VI secolo dopo Cristo, finché a partire dalla fine dell’Ottocento non furono riscoperte, insieme ai resti della Basilica (poi divenuta soltanto una chiesetta) di San Silvestro sulla Via Salaria, costruita nel IV secolo d.C., dopo l’Editto di Costantino e ricostruita in forme moderne. 

Fu proprio durante questo periodo, nella prima parte del Novecento, che lo scalpore per la scoperta delle catacombe e della loro incredibile estensione, si diffuse per il quartiere che si andava in quegli anni densamente popolando. 

Come sempre, le catacombe portarono con loro una fama oscura, gotica. Era stato così da sempre a Roma, nel corso dei secoli e fu così anche nei primi del Novecento. 

Quei misteriosi cunicoli, che si snodavano per chilometri e per molte profondità, alimentarono la fantasia popolare, insieme al crescere degli incubi che la minaccia bellica diffondeva anche sulla Capitale

Cominciarono a diffondersi sinistre leggende su inquietanti visitatori di quei cunicoli che si diceva vi emergessero soltanto nottetempo. 

Proprio negli anni del secondo conflitto mondiale, la zona di Piazza Vescovio, poco distante dalle Catacombe cominciò a convivere con una misteriosa presenza che terrorizzava i cittadini: si sentivano strane urla di notte, si scorgevano ombre curve, una sinistra figura inafferrabile che gli abitanti del quartiere si dissero certi fosse un lupo mannaro, visto che le sue visite parevano manifestarsi con maggiore frequenza nelle notti di plenilunio. 

Preoccupati da ben altre incombenze, quelle derivanti dai bombardamenti degli alleati, le autorità dell’epoca non tardarono a risolvere la questione assicurando che il responsabile era stato trovato: si trattava di un povero malato mentale che passava le notti ad urlare ed ululare. 

E che fu per questo condotto in manicomio, liberando il quartiere da quei funesti sospetti. 

Le catacombe di Santa Priscilla, oggi visitabili soltanto in minima parte, colpiscono i visitatori con le loro splendide pitture, sopravvissute ai secoli e ai millenni

In particolare quella dell’Orante del III secolo (in realtà si tratta di una donna velata, con le braccia levate, raffigurata in un lunetta); la figura della Madonna con Bambino – ritenuta la prima raffigurazione mariana della storia – al lato del profeta Isaia che addita una stella (II secolo); la cosiddetta Cappella Greca, con iscrizioni tracciate in rosso, con stucchi pregevoli; l’affresco con Santa Susanna; quello che raffigura l’Epifania e la fractio panis; il ninfeo; l’ipogeo degli Acilii con splendide decorazioni. 

Alle catacombe, il cui sito è curato dalle Suore Benedettine di Priscilla, si accede oggi dal civico 430 di Via Salaria.


Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. Tratto da Misteri e segreti dei Rioni e dei Quartieri di RomaNewton Compton Editore