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04/10/20

La Capanna di Heidegger nella Foresta Nera

 

Martin Heidegger nella baita a Todtnauberg, 1968 FotoDigne Meller MarcoviczCourtesy Bildportal der Kultur-einrichtungen, Berlin © bpk / Digne Meller Marcovicz

LA CAPANNA DI HEIDEGGER NELLA FORESTA NERA

Nel corso del 1922 la moglie di Heidegger, Elfride, fece costruire a Todtnauberg (nella Foresta Nera) una baita (Hütte) dallo stile semplice. Il grande filosofo cominciò così a trascorrervi i periodi liberi dagli impegni accademici.
Qui, fra le altre cose, Heidegger compose la gran parte della sua opera capitale, "Essere e Tempo" (1927) al suono del vento che soffiava tra gli abeti della foresta intorno e sulle travi del tetto.
Heidegger amava visceralmente la Foresta, che utilizzò anche come metafora nella celebre descrizione dell'Essere:
L'Essere scrive è simile a una foresta buia e intricata, dentro la quale si è costretti a vagare lungo i suoi sentieri senza poterla cogliere in maniera oggettiva e distaccata. Saltuariamente, tuttavia, si approda a un diradamento, una «radura» che consente di averne una visuale più ampia pur dal suo interno.
A questa casa-capanna, il filosofo tornò durante tutta la vita, e ancor di più negli anni - difficili - del dopoguerra.
La baita nella foresta nera dove il filosofo scriveva le sue opere esiste ancora: è una modesta costruzione di circa 50 metri quadrati, realizzata tutta in legno poggiante su un basamento di pietre, senza acqua corrente.
Il filosofo e la moglie attingevano l’acqua da un piccolo fontanile poco distante.
Sulla fontana era incisa una stella scolpita nel legno posta come simbolo del sacro collegato ad ogni fonte.
La baita appartiene oggi agli eredi e non è possibile visitarla nell'interno.
E' comunque di semplicità spartana (poco più di una capanna), composta all’interno di quattro stanzette, con una stufa a legna centrale per riscaldarla e per cucinare.
Una piccola scrivania posta davanti ad una finestra che da sulla vallata è il luogo in cui il filosofo scriveva.
La baita è centrale, nel pensiero di Heidegger: simbolo per riflettere sul concetto di sradicamento; l’uomo moderno ha perso il suo rapporto con la terra, e non riesce nel mondo di oggi a ritrovare origine, appartenenza, casa.
Un razionalismo astratto e privo di radici è alla base del consumismo e della commercializzazione di ogni cosa e minaccia nelle fondamenta questo sentimento di appartenenza e con l'ambiente naturale.
Ad Heidegger comunque non riuscì, come avrebbe desiderato, morire in questo luogo. Morì invece a Friburgo a 87 anni nel 1976, poco dopo la morte di Hannah Arendt (1975).

Fabrizio Falconi - 2020
La capanna di Heidegger a Todtnauberg



05/06/19

Libro del Giorno: Roberts Avens: "Heidegger, Hillman e gli Angeli - Per una nuova gnosi" .


E' un libro importantissimo, questo pubblicato dalle splendide Edizioni Atlantide, e speriamo che qualcuno - nel distratto mondo della cultura italiano, o di quel che ne resta - se ne accorga.

E' stato pubblicato nel 2003 negli Stati Uniti ed era finora inedito in Italia.

Roberts Avens (1923-2006) è stato uno dei più importanti filosofi e storico delle religioni. I suoi studi su Henry Corbin (il grande orientalista francese) in relazione al pensiero e alla teologia occidentali sono considerati seminali.

Di origini lettoni e per molti anni Professore Emerito di Studi Religiosi alla IONA di New York, Avens era anche poeta sotto lo pseudonimo di Roberts Mūks.

Credo che proprio questa sua propensione poetica spieghi la qualità del linguaggio filosofico di Avens, il suo essere sempre pienamente in bilico tra immagine e pensiero.

Studioso di Jung, Hillman, Barfield, Cassirer e tanti altri, Avens ha realizzato con "Heidegger, Hillman e gli angeli - per una nuova gnosi"  un'opera di incredibile fascino, che propone un approccio completamente diverso, originale, alla conoscenza della realtà, con la sua concezione di mundus imaginalis, nel quale schiere di angeli (intesi qui non come messaggeri divini, né come spiriti eterei, ma come immagini, attraverso la quale la realtà nascosta e più autentica si manifesta) forniscono il fondamento cosmologico della realtà.

Tra “credo” e “ragione”, tra "fede" e "pensiero", Avens dunque sceglie una terza via, la gnosi.

Attraverso la geniale (e inedita) comparazione tra Heidegger e Hillman (e con il costante riferimento di sottofondo al pensiero di Corbin), Avens ci conduce in un regno misterioso infuso d’anima, di una conoscenza salvifica che passa per le immagini archetipiche. 

Un mundus imaginalis che ha luogo non nel mondo esterno dei fatti storici, ma nel sotterraneo monde dell'anima. Il misticismo di Avens (che si riferisce a quello dell'ultimo Heidegger) è essenzialmente uno stile di coscienza politeistico (non nella accezione pagana, ovviamente), che vede l'anima in ogni cosa, o, come preferirebbe dire Heidegger, "che lascia le cose coseggiare e quindi le ri-lascia nel proprio essere". 

Sono evidenti le correlazioni con il pensiero orientale, e a quello eckhartiano, dove una nozione dell'Essere quasi mistica si manifesta, nell'uomo, attraverso la policentricità della psiche, che come aveva scoperto Jung, e esplicitato il suo allievo James Hillman, si esplica in un campo di multiple particelle luminose, come barlumi o scintille, che corrispondono ai più piccoli fenomeni della coscienza. 

E' soltanto l'Ego che crea un simulacro di unità, l'Ego: un mostro che ingoia ogni molteplicità e ogni differenza. 

Questo libro è una avventura straordinaria attraverso la complessità misteriosa della nostra psiche, della coscienza, del suo collegamento con il mondo fertile e pullulante delle immagini, che come una rete neuronale ci collegano all'anima stessa del mondo, e in definitiva a quella divina, di cui questo nostro pulsare è immagine. 

“Conosciamo il mondo perché la nostra anima personale è, fin dall’inizio, collegata all’anima del mondo” , scrive Avens. 

Un libro difficile, ma enormemente gratificante, quindi imperdibile, nella bella e chiara traduzione di Matteo Trevisani.

Fabrizio Falconi


11/07/18

"L'amore mancato" di Heidegger e Hannah Arendt. Riprendono le pubblicazioni dei Quaderni Neri di Heidegger. Un articolo di Donatella di Cesare.




Dopo una pausa durata più di tre anni, riconducibile al clamore suscitato in tutto il mondo dai primi volumi, riprende la pubblicazione dei Quaderni neri di Martin Heidegger. 

È appena uscito dall’editore Klostermann il volume 98 delle opere complete, curato da Peter Trawny, che contiene le Annotazioni VI-IX e un inserto intitolato Der Feldweg («Il sentiero interrotto»)

... 

Nelle Annotazioni VIII si trova invece la testimonianza velata del primo incontro, nel dopoguerra, con Hannah Arendt, avvenuto a Friburgo, nel febbraio del 1950. L’incipit è una citazione di Agostino: «Nessun invito ad amare è maggiore di questo: prevenire amando». E poi ancora un’altra citazione, questa volta di Meister Eckhart: il «fuoco dell’amore» alimenta il pensiero. 

L’amore è il motivo di fondo. Heidegger si schermisce non senza imbarazzo: «Si dice che nel mio pensiero l’amore non sia pensato. Lo si può forse pensare?» (p. 233). E ancora: «Amare vuol dire privarsi nell’evento; sostenere l’espropriazione» (p. 235)

Nessun possesso dell’altro, dunque. L’amore irrompe inatteso. 

Nella lontana primavera del 1925 Arendt aveva spezzato l’ordo amoris di Heidegger che da quella passione era fuggito, incapace di far fronte alla presenza di lei nella sua vita

Contrario all’«amore borghese», quello dei «viaggi insieme», aveva mancato la chance che si sarebbe rivelata l’unica autentica. 

Senza Hannah era rimasto spaesato, tra la provincia asfittica e l’erranza spensierata. 

L’aveva abbandonata con un augurio apparentemente rispettoso: «amore è la volontà che l’amata sia (…); non desidera, né pretende nulla». 

Ma che amore è quello che non pretende nulla? Dietro quell’augurio si celava a stento la sua fuga. Il sé lasciava andare l’altro, per non esserne a sua volta toccato. Heidegger era tornato alla filosofia.

Dopo quei cinque lustri, il tempo che «ti ha ingiunto di andar via, che mi ha lasciato errare» (così le aveva scritto in una lettera, subito dopo l’incontro del 1950), emergono le inibizioni, gli impedimenti che lo avevano reso prigioniero nel regno della possibilità. 

L’evento, nella sua vita, non aveva saputo accoglierlo. 

Durante il dopoguerra Heidegger teorizza il «passo indietro» («La somma del mio pensiero», p. 57). Nel caleidoscopio dell’amore viene alla luce quell’abbandono che verrà elevato a categoria filosofica, ma anche una rassegnazione amara che lo accompagnerà sino alla fine.

10/03/18

Byung-Chul Han: "Lo smartphone ci promette la libertà, ma è diventato un campo di lavoro, un confessionale e uno strumento di sorveglianza".



Byung-Chul Han è uno dei più brillanti pensatori contemporanei:  insegna Kulturwissenschaft presso la Universität der Künste di Berlino, in Germania, ed è uno scrittore e teorico della cultura, di origine coreane (è nato, infatti, a Seoul nel 1959). Dopo gli studi iniziali di metallurgia in Corea del Sud, ha conseguito il dottorato in Filosofia (1994) all’Università di Friburgo in Brisgovia con una tesi su Martin Heidegger e ha insegnato dapprima a Basilea e, fino al 2012, a Karlsruhe – dove è stato collega di un altro influente pensatore contemporaneo, Peter Sloterdijk. A partire dagli anni 2000, con La società della stanchezza (tr. it. di F. Buongiorno, nottetempo, Roma 2012), Han ha costruito un percorso intellettuale di critica dell’odierna società capitalistica e neo-liberale, indagando i (dis)funzionamenti e le conseguenze antropologiche e sociali dei processi di globalizzazione, ricorrendo a categorie tratte dalla letteratura (come la stanchezza, ripresa dall’opera di Handke) e dalla filosofia sociale (come la trasparenza, cfr. La società della trasparenza, tr. it. di F. Buongiorno, nottetempo 2014), per decostruire le strutture dell’odierno neoliberalismo mercatista. Personalità dal profilo eclettico e sfuggente, Han rifiuta generalmente di rilasciare interviste ed evita di divulgare dettagli riguardanti la sua biografia.
Questo brano è tratto dalla bellissima intervista rilasciata a Federica Buongiorno per Doppiozero:


Oggi viviamo nell’illusione di essere liberi, ma non lo siamo affatto: vediamo infatti come la comunicazione, che si presenta come libertà, si rovescia in controllo. Comunicazione e trasparenza producono anche una costrizione al conformismo: oggi crediamo di non essere soggetti sottomessi ma liberi, crediamo di essere un progetto che si delinea in maniera sempre nuova, che si reinventa e si ottimizza. Il problema è che questo progetto, nel quale il soggetto sottomesso si libera, si rivela esso stesso una figura della costrizione. 

L’io come progetto sviluppa delle costrizioni interiori, per esempio nella forma della prestazione e dell’ottimizzazione sempre maggiori. Oggi viviamo in una fase storica particolare, nella quale la stessa libertà implica costrizioni. Per Karl Marx il lavoro conduce all’alienazione: il Sé viene distrutto dal lavoro. Attraverso il lavoro si viene alienati dal mondo e da se stessi: per questo ho sostenuto che il lavoro è una de-realizzazione del Sé. 

Oggi il lavoro assume la forma della libertà e dell’auto-realizzazione. Sfrutto me stesso nella convinzione di realizzarmi. Il sentimento dell’alienazione, qui, non sorge; così, questo è anche il primo stadio dell’euforia da burnout. Mi butto entusiasticamente nel lavoro, fino a esserne annientato: mi realizzo morendo. Mi ottimizzo nella morte. Mi sfrutto volontariamente, fino a distruggermi. Questo auto-sfruttamento è più efficace dello sfruttamento estraneo di Marx, proprio perché procede insieme al sentimento della libertà

Il dominio neoliberale si nasconde dietro la libertà percepita: si dà, anzi, esso stesso come libertà. Il dominio raggiunge la forma più stabile laddove coincide con la libertà. L’odierna società non è la società della repressione, anche se la fine della repressione non implica la libertà. Oggigiorno, piuttosto, noi siamo depressi: la società della repressione cede il passo alla società della depressione.

Prima di tutto, c’è lo smartphone: ho sostenuto che lo smartphone è una forma di campo di lavoro. Con lo smartphone noi ci portiamo dietro un campo di lavoro.

Esso ci promette la libertà, ma di fatto è diventato un campo di lavoro, un confessionale e uno strumento di sorveglianza. Il tratto peculiare del contemporaneo campo di lavoro è che siamo al tempo stesso detenuti e sorveglianti. Non siamo servi, soggetti allo sfruttamento di un padrone. Piuttosto, siamo insieme servi e padroni.

I servi, infatti, devono accettare ogni lavoro: non sono liberi. Il neoliberalismo produce l’obbligo ad accettare ogni lavoro, perché non conosce il concetto della dignità umana. L’ha interamente sostituito con il prezzo

28/06/16

Il libro del giorno: "Heidegger e il suo tempo" di Rudiger Safranski.





Safranski scrive una monumentale biografia (518 pagine + 60 pag. di note) molto curiosa dal punto di vista dell'organizzazione del materiale: soffermandosi per quasi 200 pagine sul periodo compreso tra gli anni '20 e '30 (con minuziose ricostruzioni sugli 'sgarri' accademici tra Heidegger e i suoi colleghi dell'epoca) e sorvolando con leggerezza sul periodo del dopoguerra, radunando in un centinaio di pagine gli anni dal '45 al '75 che hanno rappresentato così tanto nella storia filosofica di Heidegger. 

Per il resto Safranski sembra attratto e contemporaneamente distante dal suo Heidegger, con incomprensibili lacune come quella riguardante l'Olocausto. 

Come ne viene fuori Heidegger?

Il suo pensiero oscuro, seduttivo, visionario e criptico allo stesso modo allontana, attira, innervosisce e scuote, come sempre.  La filosofia prevale sempre sulla biografia mettendo in ombra il personaggio Heidegger, ambiguo, ambizioso opportunista, maschilista, tutto sommato 'pover'uomo' dal punto di vista umano, a quel che da questi atti risulta.  

Ma il monumento della sua filosofia merita di essere diluito dal passaggio dei giorni e degli anni. Cominciando magari dalla diretta lettura di Essere e Tempo. 

Poesia e filosofia, Duns Scoto, Meister Eckhart, la gettatezza e l'esserci - il Da Sein - Husserl e i marxisti. Impressionanti visioni sul Novecento. 


Rudiger Safranski
Heidegger e il suo tempo, 
Traduzione di Nicola Curcio
Edizione italiana a cura di Massimo Bonola
Longanesi editore, 1996.