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12/08/13

In viaggio con la zia - di Graham Greene. Una riscoperta.





Mi piace andare controcorrente. Mi piace rileggere vecchi libri che nessuno legge più. E qualche volta anche libri di autori considerati snobisticamente troppo popolari, troppo di successo. 

Graham Greene (1904-1991) è uno scrittore meraviglioso.  Che, un po' come accadde a William Somerset Maugham o a Simenon, capitò in vita l'accidente di avere molto, molto successo. 

Cosa che, per la critica militante e benpensante dell'epoca, era imperdonabile. 

Greene ha venduto milioni di copie di libri in tutto il mondo, tradotti in ogni lingua. E quasi ogni suo romanzo, dei molti che ha scritto, sono diventati film e a loro volta grandi successi al cinema. 

E' accaduto anche a In viaggio con la zia, scritto nel 1969 e divenuto un grande successo internazionale con il film girato da George Cukor nel 1972 per la MGM che aveva come protagonista la grande Maggie Smith.

Come è accaduto a Maugham e a Simenon (ma un po' più a rilento rispetto a loro), anche per Greene è cominciata l'epoca della riscoperta. 

La scrittura facile di Greene, non è mai facile

E come sa bene chi scrive, scrivere bene facile è molto, molto più difficile che scrivere difficile (o complicato). 

Greene possedeva un talento naturale per la leggerezza (che non è mai superficialità).  Ha scritto romanzi importanti e di argomento molto serio e storie apparentemente più esili o divertenti, a cui apparterrebbe anche In viaggio con la zia. 

Che riletto oggi è però, un grande romanzo. 

Un romanzo nel quale il puro divertimento della lettura  si unisce all'intelligenza, alla sagacia, alla comprensione profonda delle leggi umane. 

Il pretesto è noto: Greene mette al centro di questa storia  la zia Augusta (modello neanche tanto nascosto della Zia Mame del recente romanzo che ha avuto successo notevole internazionale), dama smisuratamente eccentrica, formidabile esemplare di quella galleria di vecchie anticonformiste che sono una specialità della letteratura inglese. Insieme con noi ne fa la conoscenza il cinquantacinquenne Henry Pulling, suo nipote, educato, ironico, un po' timido, e che, dopo aver trascorso una decorosa esistenza in una banca della City, già pregusta un tranquillo life-end trascorso coltivando dalie nel suo giardinetto. 

L'incontro, al funerale della madre, sconvolgerà i suoi piani: recatosi a casa della zia avrà la sorpresa di vedere l'urna con le ceneri della madre trasformata in un contenitore di marijuana; verrà poi coinvolto in uno sfrenato carosello che lo trascinerà ai quattro angoli del mondo, al seguito sempre della terribile parente, e gli farà conoscere un variegato universo di loschi trafficanti, di ragazzine hippie in via per Katmandu, di decrepiti avventurieri italici, di agenti della CIA.

Il tutto scandito da una narrazione pirotecnica, sempre brillante, che nella seconda parte del libro diventa sempre più grave e introspettiva, con il lento dipanarsi del segreto che il lettore non tarda a scoprire (prima del protagonista).

Se siete alla ricerca di un libro per l'estate (ma anche per l'inverno), non vi pentirete di aver scelto questo romanzo.  

Fabrizio Falconi

16/03/12

Downton Abbey - Le vite, i destini.




E' facile comprendere perché
Downton Abbey, la serie televisiva BBC scritta da Julian Fellowes abbia fatto man bassa di tutti i premi possibili, negli ultimi due anni.

Non si riescono a trovare difetti a quest'opera - giunta alla seconda stagione, ma è già in cantiere la terza serie per la gioia degli aficionados di mezzo mondo - compiuta, realizzata con standard qualitativi inimmaginabili per la gran parte dei prodotti di fiction pensati e realizzati oggi, non soltanto per la televisione ma anche per il cinema. 

Attori eccellenti - su tutti Jim Carter, che interpreta il vecchio maggiordomo e la mitica Maggie Smith nel ruolo della nonna, matriarca della famiglia Crawley, conti di Grantham - ricostruzioni di scene e costumi minuziosi fino al più piccolo particolare, sceneggiatura impeccabile, senza cadute o forzature, regia non convenzionale, scrittura dei dialoghi mai banale, all'altezza anzi di un vero grande romanzo letterario (si è appresa e studiata la lezione di Henry James). 

Julian Fellowes è l'autore di Gosford Park, l'ultimo grande film di Robert Altman e il copione di Downton Abbey ripete le orme di quello del film:  una grande casa nobiliare della Vecchia Inghilterra dentro la quale si intrecciano le vicende della famiglia possidente (padre, madre, tre figlie femmine e vari parenti al seguito) e quelle della numerosa servitù che vive all'ombra dei ricchi proprietari.

Ha molto da dire, Downton Abbey perché le cose che ci racconta sono propriamente le cose umane: le ambizioni e i rimpianti; le incapacità dei caratteri, le bassezze, le piccole meschinità del cuore, che sempre rendono amara la vita propria e quella degli altri; i gesti di generosità gratuita, le qualità umane, i dolori, le sofferenze taciute e quelle manifeste; soprattutto la velleità di orientare la propria vita alla radice di un senso, che è quello di una eterna ricercata (e continuamente perduta) pienezza.

Downton Abbey - è stato fatto notare, inevitabilmente - ha riscosso così unanime consenso perché ci riporta ad un'epoca in cui la vita e i destini individuali sembravano ancora obbedire a regole condivise, a forme di convivenza che promettevano ordine e restituivano un senso.

Un mondo che nel Novecento ha conosciuto una crisi fortissima, una vera e propria catastrofe.

Non è un caso che le vicende di Downton Abbey prendono avvio alla vigilia del Primo Conflitto Mondiale, che segna proprio la linea di discrimine tra classicità e modernità, la fine di un mondo ormai decaduto e decadente e la nascita - catastrofica - di un 'nuovo mondo'. 

Quei personaggi di Downton Abbey parlano a noi. Parlano di quel che eravamo e di quel che siamo diventati.  Perché ciò che eravamo è ancora dentro di noi. E per comprendere ciò che siamo oggi non possiamo e non potremmo mai smettere di interrogarci su quel che eravamo.