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04/08/21

Mogol spiega L'Arcobaleno, la canzone "dettata" dall'aldilà da Lucio Battisti



Non tutti probabilmente conoscono la storia della canzone L'Arcobaleno, portata al successo nel 1999 da Adriano Celentano, scritta da Gianni Bella e Mogol.  La riporto qui - nel racconto diretto di Mogol, assai godibile, in un video - non tanto per il valore artistico della canzone (che resta comunque una bella canzone di musica leggera italiana), ma per la storia - piuttosto esoterica - che nasconde e che ha incuriosito migliaia di persone  e non soltanto i fan del compianto Lucio Battisti, genio della musica pop italiana, morto davvero troppo prematuramente, nel 1994 e come si sa era molto amico sia di Adriano Celentano che di Mogol, suo paroliere per interi decenni. 

Qui di seguito il video della canzone:




20/11/20

Spunta fuori un Lucio Battisti inedito: "Non faccio interviste, le manipolano"



"Non faccio interviste nei giornali dove esiste quella manipolazione smaccata, sfacciata e insopportabile, non esiste che faccio un discorso bello aperto e poi mi trovo completamente diverso da quello che sono": sono le parole di Lucio Battisti in un'intervista inedita del 1976 fatta ascoltare durante la Milano Music Week, in occasione della presentazione della rinascita dell'etichetta Numero Uno, che pubblico' proprio gli album di Battisti

"Sono cinque anni che non faccio interviste di quelle con registratore e matita e continuano a scrivere le stesse cose" dice ancora Battisti, spiegando che con la scelta di non dare piu' interviste ai giornalisti della carta stampata "non ho risolto sul piano generale ma su quello personale, non sono piu' a disposizione, se non altro non sono responsabile di cio' che scrivono"

"Almeno non mi sento connivente del fare foto con l'albero di Natale o il panettone" continua l'artista, spiegando che comunque "si puo' fare se esiste un discorso di reciproca realta'". 

In radio, invece, e' diverso e per questo "non l'ho mai completamente abbandonata"

Nella carta stampata, invece, "la manipolazione arriva al punto di inventare notizie, frasi", c'e' "il gusto di schiacciarti", ma "e' una lotta persa perche' si sa che i giornali non hanno mai influito sull'opinione pubblica" ne' hanno mai creato o distrutto un artista. 

E quindi "o reciti per convenienza" o "dici io non ci sto, non so - conclude Battisti - se mi sono spiegato". 

30/03/19

Libro del Giorno: "Battisti-Panella, da Don Giovanni a Hegel" di Alexandre Ciarla.



Da tempo, personalmente, aspettavo un libro come questo. 

Faccio parte infatti di quella esigua minoranza di pazzi maniaco-ossessivi che dal primo CD - Lp, allora - pubblicato da Lucio Battisti con il nuovo paroliere, il poeta romano Pasquale Panella, Don Giovanni (1986), dopo la lunghissima era Mogol, e dopo il brutto inciampo dell'album E già (1982), realizzato con i testi scritti dalla moglie del cantautore che si firmò Velezia, si innamorò perdutamente di quelle sonorità e di questi testi completamente poetici ed ermetici, del tutto insurrezionali rispetto a quanto si era finora sentito nella musica leggera o d'autore italiana. 

Con gli album seguenti a quello, i cosiddetti bianchi (divenuti di culto per tutti i battistiani della seconda generazione),  L'apparenza (1988), La sposa occidentale (1990), Cosa succederà alla ragazza (1992), Hegel (1994), prima della precoce scomparsa del geniale musicista di Poggio Bustone morto nel 1998 a soli 53 anni, ho convissuto per molti anni, non stancandomi mai di riascoltarli (una delle caratteristiche di questi album infatti, come sottolinea l'autore di questo libro nelle ultime pagine è quella, misteriosa, di non invecchiare e di non "stancare" mai l'ascolto come avviene per quasi tutta la musica "leggera" dopo un certo numero di ascolti).

Con i 5 bianchi Battisti e Panella scioccarono il consolidato pubblico battistiano assuefatto - e per sempre orfano - delle romantiche rime mogoliane e al  contempo la schiera dei critici musicali italiani, proponendo una ardua, sempre più ardua fusione tra sperimentazioni elettroniche - sempre più estreme, giocate da Battisti negli eremitici e inaccessibili, asettici studi londinesi -  e testi apparentemente "astrusi", che invece si rivelavano, mano a mano, del tutto geniali e fecondi di sorprese e di vera sostanza poetica. 

Alexandre Ciarla in questo libro dimostra di far pienamente parte di questa schiera di maniaco-ossessivi che hanno ruminato questi cinque album ad libitum e ancora continuano a farlo. Ma fa di più: li scandaglia minuziosamente, con una pazienza e una precisione da entomologo, analizzando verso per verso non soltanto i testi delle canzoni di Panella - e confrontandolo con le rarissime ed enigmatiche interviste rilasciate dal poeta romano che oltretutto "per contratto" non ha mai potuto o voluto rivelare i particolari con quel cantautore che dell'ombra aveva fatto la sua casa, rifuggendo, più ancora di Mina, qualunque contatto con il pubblico e con la stampa, sparendo praticamente nel nulla -  ma anche le allusioni nascoste nelle enigmatiche copertine, i giochi di rimando da un album all'altro e con gli altri scritti da Panella per altri cantautori conteporanei, ma molto meno geniali di Battisti.

Ciò che emerge da questo studio così minuzioso e approfondito - e a tratti veramente geniale - è la conferma che Battisti e Panella, con questi cinque album misero veramente a soqquadro decenni di musica italiana, scardinandone il senso sentimentale - delle emozioni, del racconto d'amore - che facevano da fil rouge di quasi tutta la produzione musicale del nostro paese.  

Queste canzoni parlano d'altro - anche se di cosa esattamente è difficile dire: parlano di filosofia, di estetica, del corpo femminile, della illusione di ogni incontro, delle divagazioni e delle insincerità del "cantar leggero", del nascondersi e del rincorrersi, delle incertezze e dei dubbi: una materia dunque sfuggente e ambigua e lontanissima da qualsiasi altro "prodotto" della musica italiana degli ultimi decenni.

E' per questo che queste canzoni sembrano non invecchiare mai e anzi, ringiovanire ad ogni ascolto: è come se fossero state scritte fuori dal tempo, in un tempo oltre.  E, grazie a Battisti, che con il suo genio era in grado di "musicare anche l'elenco del telefono", con una veste formale-musicale assolutamente unica e anch'essa fuori dal tempo.

Lode dunque ad Alexandre Ciarla che dopo anni di minuziose ricerche e di cura di un fortunato blog personale al duo Battisti-Panella, si è autoprodotto e stampato questo forbito e documentatissimo libro fortemente raccomandato agli appassionati... ma non solo.

Fabrizio Falconi


Alexandre Ciarla
Battisti-Panella da Don Giovanni a Hegel
Analisi e spiegazione di tutte le canzoni 
prefazione di Renzo Stefanel
2015 - Amazon edizioni

10/02/19

Poesia della Domenica - "Stanze come questa" di Pasquale Panella.






Stanze come questa

Prendiamo una carrozza anacronistica, 
aggiornandola in quanto inesistente. 
Saliamo alla sua guida. 
Di redini, di lacci se ne trovano, 
di legami tra noi, di dolci bende. 
Bardiamo un animale a caso il cuore 
dai fianchi pretenziosi da roano. 
Ecco che trotta. Che ci prende la mano. 
Abbiamo visto le regge, dietro le inferriate, 
e le foreste nere e le campate
non so di quanti ponti. 
Ho visto la tua nuca ad Alessandria, 
e poi me lo racconti se ci sei mai stata, 
se ti senti, ti sentivi osservata. 
Il posto è qui. 
è qui quel lavorio 
dell'erba, simile al pensiero 
che contiene nel vello 
quell'orma del tuo corpo 
ed uno stelo sconvolto 
dal tuo gomito che avrebbe 
dimenticato d'essere carnale, 
per non dimenticarlo in generale. 
Qui si incavano, 
senza corpi a pesare, 
le nostre impronte a muoversi, a sedere. 
Vedi là, vedi là 
e gli occhi saltano 
come chiaro e pupilla capinere. 
Ci sono posti al mondo
dai quali non c'è fuga. 
Stanze come questa, nelle quali 
restano le nostre rappresentanze, 
i nostri uffici doganali. 
Dove noi veramente 
ci impieghiamo, 
avviluppati in teneri sofismi, 
cavilli di permessi, 
arzigogoli, tropismi 
nella nostra direzione. 
Una frontiera è fatta di due righe. 
E bastavano le dita di una sola mano 
mandata avanti 
in viaggio, e l'altra le 
farà da testimone 
si può vedere tutto; 
e fermamente, 
se di due righe è fatta, 
facciamo la frontiera 
dove passa fauna e flora straniera. 


Stanze come questa è stata musicata da Lucio Battisti nel periodo di collaborazione con il poeta durato 8 anni (dal 1986 al 1994) e 5 album (da Don Giovanni a Hegel). 
Pubblico qui di seguito il video con la canzone originale.


01/02/19

Una rara intervista a Pasquale Panella il poeta autore dei testi degli ultimi 5 album in studio di Lucio Battisti.






A beneficio degli appassionati e non pubblico in questo blog una delle rarissime (e più complete) interviste realizzate a Pasquale Panella, poeta romano, autore dei testi degli ultimi 5 album in studio di Lucio Battisti,  da Don Giovanni a Hegel che conclusero la sua esperienza artistica e costituiscono ancora oggi un corpus eccentrico e affascinante. 

LE CANZONI SONO SOLO VAPORI
(primavera 2000)
Il vate aveva accettato di incontrarmi, ma ho preferito telefonargli. Sapevo già che è al telefono che dà il suo meglio. Leggendario, diluviante, Panella vive con il telefono appiccicato all’orecchio, e soprattutto alla bocca. Forse perché (tranne una recente acquisizione) non ha mai avuto uno stereo, e il telefono è un buon modo per ascoltare qualcosa, soprattutto se stesso. Forse perché come Elias Canetti ha subìto (o prodotto) l’autodafé dell’immensa biblioteca della sua cultura, optando per la comunicazione orale. Forse perché è un autore-attore senza spettacoli, se non quelli che telefona tutti i giorni alle sue incantate vittime. Perché le parole sono milioni e lui ha bisogno di pronunciarle tutte, articolandole nella sintassi del paradosso e del nonsense. Forse anche perché disprezza i cantanti (cioè gli autori), e preferisce al limite i giornalisti, purché le sciocchezze che scrivono possa firmarle un genio, per ribaltarne il senso. Lui stesso, paroliere per caso, firma quello che gli fuoriesce dalla macchina da scrivere, come in un incubo del suo amato Burroughs. Non parla mai di quello che fa, e nemmeno di quel che si fa, o si fa fare. Parla del linguaggio, provando sempre a soffocarlo nelle sue stesse spire.

Parlare con lui di Lucio Battisti, come avrei voluto fare, è stato molto illuminante. Perché Panella di Battisti non racconta quasi niente, ma quello che non dice è molto più di racconto. E’ il mistero della medietà, caratteristica intrinseca delle canzoni, ma anche delle persone.

Ho dimenticato, con lui, di provare a pronunciare la parola genio. Ma, proprio per questo, dalla nostra conversazione tale parola brilla di luce intensa per la sua assenza. In fondo il genio è un vapore della medietà, la capacità di trovare quello che neppure si cerca, come diceva Picasso. Di trovare ovvie le cose meno ovvie e così, genialmente, scoprirle. O meglio ancora (si fa prima) crearle ex novo. Dal vapore, dal nulla.
La chiamo per parlare con lei degli autori di canzoni.
Non ci sono autori, ci sono solo cantanti. Quelli che si dicono autori sono autori solo di quello che ascoltano: dunque sono cantanti. I cantanti sono sempre qualcosa di meno.
Eppure lei esordì come autore di testi con Enzo Carella, che cantò Barbara, vincendo un secondo posto al Festival di Sanremo del 1979.
I cantanti sono parecchi. Enzo Carella è il meno parecchio di tutti, ovviamente perché è il primo, e come in tutte le cose la prima è sempre quella buona. Con Carella si è fatto tutto. Proprio ieri ho chiesto di darmi quelle vecchie registrazioni, che non ho mai avuto, perché non avevo uno stereo, solo oggi ho un lettore Cd. Sto chiudendo un periodo, un periodo blu. Non come Picasso, imitativamente, ma chiudo il mio periodo blu per entrare in quello rosa, il colore della cattiveria e della crudeltà. Non è vero che è un colore tenero, non è il colore dell’incarnato. Basta prendere un rosa e metterlo sull’ovale di un viso, e si vedrà che non è quello il colore della carne.
Ma lei ascolta canzoni?
Sento tanti provini, ma i cantanti, così come le persone, son tutti un po’ uguali.
Anche Lucio Battisti era un cantante?
Credo che così lo si privi della sua definizione assolutamente guadagnata nel tempo, del suo essere di meno ma non solo.
Quel “non solo” è un di più?
No, i cantanti sono sempre un di meno, perché son baciati dagli angeli. Ci sono molti parrucchieri che si chiamano Angelo.
Come iniziò e come finì tra lei e Battisti?
Per quel che mi riguarda inizia come finisce, cioè forzatamente. Parliamoci chiaro: parlando di canzoni io non sono affatto adeguato. Per me scrivere le canzoni è come fare le rapine. C’è un mondo abbastanza imbecille da farsi uscire i soldi dalle tasche, senza nemmeno dover andar lì a mano armata. Io che nella vita non ho fatto altro che pensare a scrivere, anzi non ho fatto altro che non pensare a scrivere, so che basta appoggiare la mano sui tasti della macchina da scrivere, come si fa su quelli di un pianoforte, e fai uscire quattro parole. Ma se ciò non è preceduto da una continua elaborazione della scrittura precedente, non esiste scrivere. A me della canzone non me ne è mai importato nulla. Mi sono avvicinato alla canzone giusto per ascoltare quattro dischi, quelli che facevo, magari nemmeno a casa ma in in studio di registrazione, mentre si elaborava. Oggi sono molto annoiato, perfino dall’ascolto di me stesso. Già a quel tempo, per me, scrivere era scrivere al di là di una destinazione, era scrivere in prosa. Capitavano queste occasioni abbastanza lucrose, e quindi lo facevo. Pur senza competenza di quello che la produzione musicale italiana è o non è, mi è sempre parsa un’attività abbastanza cretina. Mi vergognavo un pochino che il mio nome apparisse, usavo pseudonimi, poi sfuggiva perché il mondo della musica leggera è molto ciarliero. Ma è stato per me un mondo anche molto affabile, gentile, affettuoso.
Anche i cantanti sono dunque un po’ angeli, come i parrucchieri.
Dicendo “i cantanti” libero queste creature di tutte le scaglie imprenditoriali che le ricoprono. Quando diventano imprenditori sono invece abbastanza ributtanti. Ma è bello vedere un cantante che, nell’esercizio delle sue funzioni, risolve dei passaggi, trova il suo momento di voce.
Mentre registrava a Londra i dischi delle canzoni scritte con lei, spesso Battisti le telefonava. Cosa le chiedeva?
Più che chiedere mi faceva ascoltare delle cose.
Le chiedeva modifiche ai suoi testi?
No, a volte capitava che gli proponessi dei tagli. Io preferivo abbondare, però lo avvertivo: fa’ ‘na cosa, vedi tu quello che più ti occorre. A volte capitava non che fossero tagliati di botto, ma che alcune parti fossero restituite frammentariamente.
Con Mogol, Battisti preferiva modificare la propria melodia piuttosto che intervenire sulla lunghezza o sulla metrica dei versi. Faceva così anche con i suoi testi?
Come no, sempre. Salvo in casi rari, quando io stesso gli proponevo delle varianti, delle frammentazioni. Battisti lavorava moltissimo sulla melodia.
Si dice che lei e Battisti vi sentivate al telefono ogni giorno.
Anche più di una volta al giorno.
E cosa vi dicevate?
Di tutto, qualche volta era anche finalizzato alle canzoni. Poi a volte anche le chiacchiere potevano essere utili.
Sembravate avere in comune una vocazione scientifica. Lucio Battisti sapeva riparare tutti gli oggetti meccanici, lei li metteva in versi.
Scrivere significa avere tutte le vocazioni, e dibattersi perfino nella sconoscenza.
Ma perché ci sono tutte quelle macchine, e tutte quelle macchinazioni, nei suoi testi scritti per Battisti?
Perché se fossi vissuto in altri tempi avrei parlato di cose occorrenti nel passato. La canzone in fondo è molto legata a tutto questo che si muove, vive un po’ di questa sua prima ambizione che è il movimento. Ecco perché nelle canzoni si vola sempre, il primo referente dinamico e primordiale è quello, e nella canzone generalmente è teorico. Come in Freud, è l’anelito del mancante. Se uno parla del volo o è perché vive tutti i giorni su un aereo, o è perché si sta frustrando. Non è che io perda tutta la notte per dire solo “io volo”, come scrissi in un pezzo. Perché più astutamente osservavo la frustrazione che a loro veniva, cantanti e autori, mettendo il volo dovunque. La canzone è ingenua, una da poco arrivata, una parvenue. Anche questo sposalizio di interessi tra la parola e la musica… parola e musica non hanno niente a che vedere tra di loro, la canzone esiste per puro amore dell’orrido. Le più sopportabili sono le canzoni di tipo comportamentale, dove la musica è solo un’enfatizzazione dei toni espressivi. Quelle dove ad una splendida musica corrisponde una splendida falsità testuale sono le migliori, le canzoni stupide-belle, dove l’interesse dell’ascoltatore è lo stesso per il quale si sposarono parole e musica, perché per accoppiare insieme le due cose ce ne vuole, di sforzo. Oggi è un interesse potentissimamente commerciale, oggi per unire musica e parole a volte si devono mettere assieme due colossi industriali. La prima cosa che si chiede è se uno ci ha le edizioni. Poi la canzone cerca sempre di creare la castità, sembra sempre che uno produca la canzone di nuovo, la novia, la sposa, la nuova.
Dopo la vostra prima collaborazione, quella di Don Giovanni, lei non scrisse più testi sulle melodie di Battisti, ma fu lui a musicare i suoi testi. Perché invertiste il metodo?
Invertire il metodo è stata una mia richiesta, perché in Don Giovanni la presunzione di canzone era ancora forte. A me piaceva stabilire un diritto di prima notte, che una canzone uscisse già fatta, che uno se la fosse già fatta, in tutti i sensi, o signora, coi suoi difetti. Tutti quelli che ascoltano canzoni sono puritani, mormoni, una cosa tremenda. La canzone è piena di piccoli ma ferrei codici, molto morali. La canzone è il tentativo di darsi una morale. Altri si danno una calmata, questi una morale. Perciò la canzone esiste sempre, e tutti i governi in fondo la tollerano, ed essa ha con loro traffici illeciti. Una volta degli amici facevano una festa con le canzoni di Dylan, era venti o trent’anni fa. Chiedo: ma che dice questo? Andai a guardare, e mi sembrò un chierichetto. Noi italiani siamo abbastanza svezzati, gente come napoletani e romani, gente che circonda il Vaticano: quelli di Dylan mi sembrarono testi di uno scadente spiritualismo. Nessuno era d’accordo, tutti credevano che fossero gran cose. Solo dopo trent’anni, andandolo a rileggere, se ne rendono conto, forse perché lo hanno visto piegarsi davanti al papa. Sembravano canzoni di grande assalto, ma non era vero: canzoni mormoni, piegate, molto moraleggianti.
Ma cosa vi dicevate al telefono, lei e Battisti? Parlavate del vostro lavoro, o di cos’altro?
Allora parlavo un po’ così come adesso: per me parlare significa monologare.
Ma vi vedevate?
A volte ci trovavamo insieme, e c’era anche allora quella… Voglio dire, quando la stampa lamentava la sua sparizione, era lei che la creava. La sparizione di Battisti era una comoda notizia da scrivere seduti. Ma in fondo io apprezzo il giornalismo. E’ vero, non siamo più ai tempi d’oro, non dico di Truman Capote, ma del giornalismo iniziale, quello mosso, presente, di ricerca, nel senso proprio del cercare. Tutti sono notizia, sotto una certa specie. Ad esempio la bellezza, o lo scatenamento del desiderio da parte di un personaggio molto bello, è notizia; finché non arriverà alla decadenza, quando la notizia sarà quella, la notizia della decadenza.
Lei tace le relazioni, non parla mai di sentimenti. Lei lo ha amato, quel Battisti? Ricordo la violenza con cui scrisse a Boncompagni dopo una sua battuta infelice in televisione, all’indomani della scomparsa del musicista.
Io me la son presa perché ci aveva messo dentro anche me, me fisicamente. I testi sono come i quarti di bue, se uno non vuole non li produce. A me risultano più approssimative e più antipatiche le critiche benevole, perché non dicono niente di vero. Poiché l’astio, il livore, è molto più lucido. Ricordo certe scivolate di Luzzato Fegiz o di Zampa, che mi attaccavano: quando mi incontravano mostravano un’opinione di me molto più alta. Quello che dite è tutto vero, mancava solo la firma, perché non ci stava scritto Roland Barthes. Se si scrive “Panella persegue un progetto di insensatezza”, ed è firmato Roland Barthes anziché Fegiz, è questo che fa la differenza. Detto da Fegiz vorrebbe essere un astioso insulso… volevo dire insulto (ma detto da me va benissimo). Quando i benefattori sparano qualche complimento, chi se ne importa.
Battisti rivelò un giorno a un amico una specie di metodo per valutare quello che lei scriveva: “I testi di Panella, se non li capisco vuol dire che sono giusti”.
Qualche testo sempre mi rimaneva fuori… Sì, vabbè, ma era quello che chiedevo io, avrebbe fatto una brutta figura a dire “ho capito tutto”, peggio che dire “io sono ignorante”. Si sbaglia a mettere queste faccende sul piano della comprensione delle cose. Si dovrebbe piuttosto rimanere incantati di fronte a questo oggetto dal quale esce la musica. Non capiscono nemmeno perché un disco messo in un posto suona, poi vogliono capire cos’è la musica? Mi sembra troppo. Tra un uomo e una donna, non sia mai che uno debba dire all’altro: “fàmmiti sempre capire”. Mi sembra molto offensivo. E poi si parla di sentimento. Riconoscano prima che il sentimento è una falsa sovrastruttura, e allora poi parliamo di capire.
Quando lei e Battisti facevate assieme una canzone, cercavate la stessa cosa?
No, non credo. Io non so neppure cosa cercassi. Non è nemmeno che non cercassi niente. Mi trovavo quelle frasi davanti, oggi sarebbero probabilmente diverse. Ma non per ragioni strutturali o formali, perché le canzoni che vengono un giorno non vengono un altro.
Per un Battisti che non scriveva più secondo la logica della strofa e del ritornello, le melodie erano diventate un’operazione di dispendio. Come la parola per lei. Un’altra affinità fra voi due?
Io non scrivevo ritornelli, ma un percorso obbligato, nel quale c’erano però dei moduli tornanti. Ma quelle canzoni nell’insieme sono dei ritornelli.
Ma sono anche come i quarti di bue, come lei stesso diceva prima. Il pubblico compra le canzoni per mangiarle.
No, il pubblico mangia tutto, è quasi una discarica, riceve i testi di tutto. Se uno pensa a quello che è l’elaborazione della canzone… Prendiamo un giovane autore o cantante, giovane per offenderlo. Vive la sua vita giovanile, tutta fatta di speranze, pulsioni compositive, aspettative, e la sua dotazione è circa venticinque canzoni. Sono le canzoni migliori della sua vita. A un certo punto c’è questo ragazzo che s’incontra con altri ragazzi, produttori, discografici, e da questo gran corpo bovino o suino ricavano qualcosa come una cistifellea, nella quale gli antichi credevano ci fosse l’anima. Una cosa assottigliata, strofa-strofa-inciso, la cistifellea: qualcosa che normalmente si butta. E la buttano, infatti, in pasto al pubblico. Non mi pare che il pubblico riceva il meglio. Di tutto il corpo, bovino o suino che sia, di una vita rivolta alla canzone, ricevono qualcosa che veramente è stato sterilizzato da quel corpo. Lo ricevono nei termini di una “operazione” discografica, si dice così, no? Questo tampone pieno d’alcol snaturato. Quello che arriva. La canzone è qualcosa di molto levigato, prosciugato, tagliato e ritagliato, una cosina così. Ma nego che ci sia un’affinità tra musica e testi, che ci sia stata o che ci sarà. E’ un matrimonio di interessi. La parola non ha niente da condividere con la musica, né la musica con le parole. Esiste un luogo comodo, che è la canzone, con cui oggi la gente ritiene di aver assolto il compito del consumo culturale. Una cosa composta, molto calata nel ruolo. Si fanno seminari, ne parlano sul serio: questa è la più grande offesa portata alla canzone. La canzone non va discussa, perché è fuori da ogni discussione. Sennò perde la sua caratteristica di figlia degenere di un matrimonio d’interesse, ma bella, leggera, idiota. Perde quello che veramente dovrebbe essere: inafferrabile. Non conoscendo e non amando la canzone, le ho restituito quello che dovrebbe essere: l’inafferrabilità. Se chiediamo a un amante della canzone del passato cosa vuol dire “Vola, colomba bianca vola, diglielo tu che tornerà”, lui non lo sa. Con la canzone si entra in scemenza, uno esce dalla priorità del tutto. Entra in scemenza, nell’avulsione dal tutto. Ma da anni vien fuori che bisogna essere problematici, che bisogna farne un problema.
Stiamo scrivendo l’ennesimo libro su Battisti, nell’eterna speranza che sia quello vero. Lei trova sbagliato che in un libro si racconti la vita di una persona?
Sì. La vita di una persona coincide con la vita di chi l’ascolta, quella persona lì. Poiché esiste uno standard esistenziale: anche se gli ascoltatori di canzoni sono tanti, mediamente parlando, la canzone è la soddisfazione della zona mediana: le apprensioni, le aspettative, i medi desideri e le medie voluttà del medio. E’ tutto medio. Non esiste una canzone di tipo tirannico, o criminale. E’ tutto mezzo e mezzo. Un po’ autoritario, ma un po’. Un po’ vittima, un po’ no. Se uno dovesse ricostruire i rapporti umani dalle canzoni, non ne verrebbe fuori quasi nulla. E’ un mondo molle, perché è un mondo medio. E’ un mondo di quella vita lì, che non prende posizione né per un verso né per un altro. Non dà colpi né al cerchio né alla botte: accenna. Alla canzone non è chiesto di dire, ma solo di apparire. Ecco perché L’apparenza. E’ un po’ un miracolo, ne ha tutte le caratteristiche, salvo che non la fa troppo lunga, perché dura tre minuti, se ne capisce l’origine, perché c’è di mezzo un oggetto. A differenza di Fatima può vendere anche qualche milione di copie nel mondo, ma almeno non è così invasivamente ecclesiale. La sua capacità invasiva è epidemica, ma sempre meno di quell’altra. Di vantaggioso ha che dura meno: la si può riascoltare, ma la sua durata resta sempre quella. Da ragazzi si comprava un 45 giri, e il primo giorno lo si metteva cento volte di seguito. Ma non è che facendo così moltiplicassero i tempi: non riuscivano a capirne il miracolo, per cui lo ripetevano. La canzone è amabile perché finisce, presto.
E la vita di chi scrive canzoni?
Della vita, che dire? Sono vite normali. Uno si sveglia dopo essere andato a letto il giorno prima, fa colazione. E vive come chiunque. Io poi son poco attendibile. Poco mi ci trovo nei panni di chi vive di ricordi, io so parlare solo di me, che vuole che dica di un altro? Si può dire di Alfred Jarry, che col revolver sparava ai bagarozzi, e li stecchiva pure. Ma son passati più di cento anni. Ho letto di Graham Greene che era uno scrittore mediocre perché parlava di persone. Obiettivamente è uno scrittore medio. Un bravo scrittore, scrittore-scrittore, di quelli veri, scrittore di professione, non certamente di vocazione. Si interessava delle persone perché di meglio non sapeva fare. Interessarsi alle vite è una noia, perché le vite sono noiose.
Ma insomma, questo Lucio Battisti. Nessun dettaglio da ricordare?
Sono io che non mi trovo nelle parti di uno che ricorda, non sono un memorialista, affettivamente parlando.
Un rapporto, dei sentimenti?
Io di natura non sono portato molto alla condivisione di nulla. Penso a me, penso di me, non vedo perché debba penare trapassandomi negli altri. Il fatto di mettere insieme queste due cose, la musica e le parole, questa compenetrazione in realtà è perfino un superamento, una sospensione dell’amicizia. Non vedo perché uno debba impegnarsi, dopo aver fatto qualcosa del genere, che è perfino un po’ immorale, come qualsiasi fondazione di una moralità: l’immoralità dell’estetica è nel farle, le cose, non nell’averle fatte. Partecipare di questa immoralità, come commettere una rapina insieme, è più dell’amicizia. Mi viene in mente Genet, che non aveva amici, ma che perciò aveva ancora qualcosa di più potente, con i suoi complici. Dell’amicizia non me ne importa nulla, anzi la detesto un pochino. Non la capisco.
Si è mai mosso di casa per incontrare Battisti?
Ho frequentato solo la sua casa romana, si figuri se io mi muovo, certo non per andare a parlare di canzoni. Si parla meglio al telefono.
Anche per comporre testi di canzoni?
Ci sono stati vari modi. All’inizio, dettandoglieli. Poi i fax, poi ancora la prima Internet.

Battisti le ha mai fatto proposte di modifica, sui testi? Voglio dire: non sulle metriche, ma sui contenuti?

Il problema sarebbe stato capire quali erano, i contenuti…
Perché? Vuol dire che Battisti non li capiva?
In fondo questa cosa fu risolta prestissimo. La cosa che dissi subito, e che subito lo persuase… Diciamo che probabilmente io gliene ho parlato come ne ho parlato con lei, sulla canzone come apparizione, sulla sua volatilità, la peste da una parte e il miracolo dall’altro.
Dunque lui accettò subito questa sua posizione?
Immediatamente.
Lei è elusivo, nei suoi testi come nel racconto della vita.
Ogni vita a raccontarla è assolutamente insulsa, salvo che tu non lo faccia da giornalista, detto nel senso bello. I fatti accaduti esistono solo in alcune pagine di questi giornalisti qui, parlo di gente come Hemingway. Ma uno notevole sotto il profilo esistenziale è Enzo Carella, perché non avendo vissuto imprenditorialmente la vita che fa, vive una vita senza risorse, che io ricordo e tengo presente come tutti gli altri. Ho un certo affetto per il giornalismo, specialmente per il cattivo giornalismo, che è ingenuo, perché è avventizio. Come quando cominciarono a dire: è la loro fine, non vendono più, eccetera. Per qualche motivo i discografici, vuoi perché macinano musica, vuoi perché sono commercialmente aggiornati, le garantisco che afferrano le cose molto più dei giornalisti avventizi. Capirono subito che dietro quella cosa c’era un evento commerciale, come si dice nel loro lessico. E quando leggevano quelle cose, le previsioni giornalistiche su quel cantante che consideravano finito, i discografici ridevano. L’evento è stato talmente produttivo dal punto di vista promozionale – tanto che noi oggi ne stiamo parlando – perché le vendite superarono le previsioni e ci fu pure un richiamo di vendita del suo passato, di tipo vendicativo. Senza che l’avessi fatto volontariamente, io partecipai di un’ottima operazione commerciale. Ecco perché andava bene tutto. L’elemento di novità attira le attenzioni, e la novità erano quelle parole lì.
Perché finì?
Perché mi stancai. Mi pareva che cinque dischi fossero già troppi. Si stava diventando troppo produttivi e continui. Io non amo molto la continuità. Se mi dessero un miliardo per posare nudo lo accetterei, perché mi metterebbe a rischio e non me ne importerebbe nulla. Perfino Fegiz cominciava a parlarne bene, si diventava consueti. Alcune cose io non le ho neanche firmate, perché non volevo diventare un miserabile mito della musica leggera, come dire: non c’è altro, ti devi accontentare. Diventare qualcosa in mancanza di tutto.
Mai pentito?
Assolutamente no. Anzi, in generale mi sto allontanando sempre più dalla canzone. Ne faccio sempre meno, e cerco di farle nella maniera più stupida possibile. Ma la cosa non era riconducibile a un episodio.
Lui come la prese?
Credo non bene. Ogni disco finito io dicevo vabbè, abbiamo fatto, ci possiamo dire appagati. Ma lui parlava subito del prossimo. Da parte mia era sempre più evidente questo blando scostamento dalla canzone. Da quella in particolare, perché stava diventando consueta, stava prendendo piede, come si dice. La mia scrittura per canzone è scrittura applicata alla canzone. Per me la canzone non è il riferimento assoluto, ma nemmeno relativo. Di quel passo avremmo fatto un disco ogni due anni per sempre. Era tutto così ripetitivo. Due anni e tutto si ripeteva, solite solfe, solito balletto, tutte finzioni da parte di tutti, il pubblico finto. Per me quelle cose, a voler esagerare, avrebbero dovuto vendere quindicimila copie. Il discorso più interessante è proprio questo: l’incidenza di queste cose nelle faccende discografiche, negli interessi del pubblico. La vita è bella quando te l’immagini, perché se sei bravo riesci a veder quello che non puoi vedere. Cosa vuole che m’importi mettere a nudo una vita normale? Non importa nemmeno a quello che l’ha vissuta. Le vite taciute è meglio che lo restino. Le vite di cui non si conoscono grandi espressioni, grandi barbagli, grandi abbacinamenti e grandi scivolate, grandi uppercut e grandi record (della vita, non della musica leggera, che qualsiasi imbecille è in grado di apportare) vanno taciute, perché quelle grandi espressioni non furono espresse proprio per non essere raccontate. Chi si esprime in maniera notevole vuole essere raccontato in maniera notevole. Vite così sono esistite, vite che volevano essere raccontate. Gente che, sapendo di vivere in pubblio, viveva in pubblico godendo, e pagandolo. Questo li pone di fronte alla violenta scelta di essere quasi per sempre. Ci fanno pure i film, su Ciaikovskij, su Oscar Wilde: gente talmente densa di racconto che questo racconto gli usciva dai pori. L’altra gente ascolta le canzoni, e ascoltare le canzoni significa farle. Non esiste un autore di canzoni che non sia stato pubbblico della canzone. Chi fa canzoni è un ascoltatore, e lo sarà per sempre. Io non ho mai ascoltato canzoni, ho scritto in assenza di suono, come Beethoven. Ecco perché ho scritto prima di ascoltare la canzone, perché io non la sento. O si vivono vite notevoli, o si ascoltano (si fanno) le canzoni.
Io sono elusivo perché son sordo.
E detesta gli aneddoti.
Alcuni fatterelli è bene che non si conoscano mai, perché se la normalità vuol esser taciuta, è bene che sia taciuta. Molte vite possono essere ricostruite sulle opere. E’ tutto lì. Esiste un’esposizione sfrontata, impavida di sé, che può essere ricostruita come vita.
Mi vien da pensare che quella pretesa di Battisti, che diceva di non essere più interessato a comunicare, forse gliel’aveva suggerita lei.
La canzone non è necessaria, per cui nessuno può dire di trovarsi scomodo in quei panni. Non è sartoriale. La più concreta analogia è quella con il miracolo: pura visione, puro nulla, però colorato. Non puoi infilare le braccia in una nuvola. Durano forse uguale, la canzone e il miracolo: per un miracolo un tempo di quattro minuti è sufficiente. La noia, l’usura, la sopravvivenza di una chiesa su quel miracolo sono molto più durature. La canzone è più astenuta: certo, sono un miracolo, ma non stiamo a far tante chiacchiere, tanto poi ne apparirà un altro. Son miracoli stagionali.
E poi?
Le canzoni sono vapori. La canzone dice: io sono un po’ falsa. Ma il fatto che lo dica è grande. Sono un po’ falsa, cioè sono un miracolo: un abbaglio nel quale puoi vedere delle cose, puoi vedere l’amore, cioè un abbandono cantabile, una cosa falsa. Ad esempio, io ho giocato a lungo come centravanti nella Roma, allenato da Zeman.
Davvero?

21/01/16

"Emozioni (Lucio Battisti via mito note) di Tullio Lauro e Leo Turrini (RECENSIONE)




E' l'esempio di un libro intelligente, ben concepito e ben scritto. 

Scrivere un libro sul mito Battisti è impresa difficile. Unico esempio di un personaggio che dal 1976 ha deciso di scomparire dal mondo, negando di sé anche la più piccola apparenza. (Mina ha fatto qualcosa di simile, ma è rimasta sempre in contatto col mondo: tutti sanno dove vive e con chi, tutti sanno cosa pensa e cosa scrive, ha perfino curato una rubrica per anni su La Stampa di Torino).

Lauro e Turrini dunque si sono dovuti barcamenare col pochissimo - quasi nullo - materiale a disposizione.  Anche prima del 1976 come è noto, Battisti ha parlato pochissimo e si è visto molto poco in pubblico. 

Ma anziché mettersi a inventare e a speculare sul nulla, negli anni fino alla morte del cantautore di Poggio Bustone, morto prematuramente a Milano nel 1998, i due autori hanno pazientemente ricostruito i documenti disponibili, il racconto dei pochi amici o compagni di avventura del nostro, la parabola quasi inspiegabile di un cantante-autore né bello né simpatico, quasi un buon selvaggio, sbucato fuori dalla Sabina più remota, e divenuto in pochissimi anni un monumento della musica popolare italiana, qualcuno che - in coppia con l'autore Mogol - ha saputo influenzare il costume e il mito popolare come nessuno prima - e forse anche dopo - di lui.  Con un manipolo nutrito di canzoni divenute immortali, fino alla fuga dal mondo, la sparizione, l'autoisolamento volontario e remoto, finito in un arrovellamento musicale-creativo personalissimo che gli ha fatto piovere addosso accuse di tutti i tipi, nell'epoca di album scarni e ostici, condivisa con l'autore-poeta Pasquale Panella.

In totale, come si riporta nel libro, Battisti ha interpretato 105 canzoni firmate con Mogol (gran parte di esse hanno un posto di grandissima rilevanza nella storia della musica leggera italiana), 12 con la moglie sotto lo pseudonimo di Velezia, 40 con Panella, e 3 di altri autori.  Più una trentina di altre canzoni scritte per altri cantanti. 

La fenomenologia di Battisti è interessante per molti motivi. E non è un caso che di lui si siano occupati nel bene e nel male i più grandi musicologi italiani - nel libro c'è un vastissimo repertorio di commenti su L.B. e sulla sua musica dei più disparati personaggi - uomini politici, intellettuali, compreso Edmondo Berselli che firma la pregevole introduzione di questo libro. 

Nel volume si ripercorre la vieta biografia - priva di eventi veramente particolari - compresa la vasta aneddotica su Lucio Battisti, tra cui la sua fantomatica (e del tutto falsa) simpatia per la destra (la leggenda metropolitana su di lui era che finanziasse organizzazioni e movimenti dell'estrema destra) cui viene dedicato un intero volume.

Ma c'è tutto quello che serve da sapere, oltre ad un nutritissimo apparato di crediti su album, realizzazioni e l'elenco di infinite cover realizzate da artisti famosi - italiani ed esteri - delle sue canzoni. 

E' anche un modo per ripercorrere quegli anni controversi (alcuni brigatisti, dopo gli arresti, confermarono di sentire nei loro covi le musiche di Battisti), di cui queste canzoni sono state incessante colonna sonora. 

Fino all'ultima fase, quella col binomio Battisti-Panella che ha prodotto 5 album del tutto sperimentali, criptici, ai limiti dell'assurdo,  oggi osannati e apprezzati perfino da filosofi e intellettuali di diversa provenienza. 

Valga per tutti il giudizio di Renzo Arbore che paragona la creatività di Battisti a quella di Gershwin e di Michele Serra, che scrive: 

Don Giovanni ridimensiona gran parte della musica leggera degli ultimi dieci anni.... il mio voto è dieci e lode. La sua invenzione melodica è enorme. La frase musicale finisce sempre in un modo sorprendente, lasciandoti sospeso nel vuoto, in una vertigine(...) La scelta dei testi è geniale. Molto meglio di Mogol.  Io credo che L'Apparenza sia l'opera di un genio, o più probabilmente di due (...), dico genio pensando a chi sa generare miracoli, inventare cose che nessuno ha potuto inventare prima. Come artefice di una illuminazione formidabile che per un attimo ci porta via o porta via gli altri. 

Fabrizio Falconi

Tullio Lauro - Leo Turrini
Emozioni - Lucio Battisti vita mito note
Zelig Editore
Milano, 1995


04/03/15

Elogio della canzone (e del cantore) popolare. Lucio Dalla, 4 marzo 2015.



Rievocando la data di nascita di Lucio Dalla - 4 marzo 1943, eternizzata dal titolo della canzone forse più famosa di questo stesso autore - si può forse riflettere sulla importanza della canzone (e del cantore) popolare, specie nel nostro paese, con una tradizione che viene direttamente dai Trovatori medievali e poi dalla romanza melodica, che nelle Arie della Lirica italiana ha trovato la più vasta eco mondiale. 

Una sorte curiosamente crudele ha accomunato diversi di questi cantori moderni - Ivan Graziani, Fabrizio De André, Lucio Battisti, Lucio Dalla, Pino Daniele - tutti morti prematuramente, lasciando vuoti praticabili abitati dal loro lascito artistico. 

Cantori che hanno apparentemente cantato cose banali, figlie di un Dio minore rispetto a quelle ritenute più profonde e complesse (la Letteratura, l'Arte, l'indagine intellettuale).

Eppure in queste canzoni, in questi modi emotivi, c'è una traccia ulteriore, come un filo rosso che continua ad allungarsi nel cielo sopra le nostre teste e le nostre condizioni limitate terrestri. 

Canzone.... vai per le strade e tra la gente... diglielo veramente. Cantava Lucio Dalla. Non può restare indifferente, e se rimane indifferente non è lei. 

Nessuno, a quanto pare, resta indifferente.  

Questo vuoto continua ad essere abitato. E non è solo una .. illusione popolare. 

Fabrizio Falconi - (C) riproduzione riservata - 2015