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17/05/21

Libro del Giorno: "I vagabondi" di Olga Tokarczuk



E' un libro ricchissimo e straniante, I Vagabondi, che erroneamente viene definito romanzo. E' vero che questa definizione oggi viene usata come il soffione di un organetto per contenere ogni forma più o meno irregolare di narrazione.

I Vagabondi però, appare fin dall'inizio, una meditazione sul tema del viaggio e del viaggiare, che coinvolge esperienze personali, memorie, informazioni saggistiche, mini racconti che a volte ritornano durante la narrazione, che apparentemente non segue alcun filo logico, se non quello di esplorare la proprietà dell'essere umano - come di ogni essere vivente - di vivere nello svolgersi della condizione temporale, la quale a sua volta si articola sulla dimensione spaziale, dimostrando l'esattezza della formulazione einsteiniana secondo la quale spazio e tempo interagiscono, formando una unica e terza dimensione, influenzando anche la percezione del tempo umano.

Olga Tokarczuk è nata nel 1962 e ha studiato psicologia a Varsavia. Scrittrice e poetessa tra le più acclamate della Polonia, la sua opera è stata tradotta in trenta paesi e in oltre quarantacinque lingue. 
La notorietà delle sue opere e da ultimo il successo de I Vagabondi le ha meritato il Premio Nobel per la Letteratura 2018 “per la sua immaginazione narrativa che con passione enciclopedica rappresenta l’attraversamento dei confini come forma di vita”

Il romanzo I vagabondi (Bompiani, 2019) le è valso anche il Man Booker International Prize 2018 ed è stato finalista al National Book Award. 

La narratrice che ci accoglie all’inizio di questo romanzo confida che fin da piccola, quando osservava lo scorrere dell’Oder, desiderava una cosa sola: essere una barca su quel fiume, essere eterno movimento. 

È questo spirito-guida che ci conduce attraverso le esistenze fluide di uomini e donne fuori dell’ordinario, come la sorella di Chopin, che porta il cuore del musicista da Parigi a Varsavia, per seppellirlo a casa; come l’anatomista olandese scopritore del tendine di Achille che usa il proprio corpo come terreno di ricerca; come Soliman, rapito bambino dalla Nigeria e portato alla corte d’Austria come mascotte, infine, alla morte, impagliato e messo in mostra; e un popolo di nomadi slavi, i bieguni, i vagabondi del titolo, che conducono una vita itinerante, contando sulla gentilezza altrui.

Come tanti affluenti, queste esistenze si raccolgono in una corrente, una prosa che procede secondo un andamento talvolta guizzante, come le rapide, talvolta più lento, come se attraversasse le vaste pianure dell’est, per raccontarci chi siamo stati, chi siamo e forse chi saremo: individui capaci di raccogliere il richiamo al nomadismo che fa parte di noi, ci rende vivi e ci trasforma, perché “il cambiamento è sempre più nobile della stabilità”.


23/10/19

Libro del Giorno: "La casa di psiche" di Umberto Galimberti



Il saggio di Galimberti, uscito per la prima volta nel 2006 e più volte ristampato, è un affascinante viaggio nella storia della filosofia, dai greci a Nietzsche e Heidegger e del suo complesso rapporto con la psicologia e con le psicologie, scienze relativamente molto più giovani della filosofia, che hanno affrontato l'esplorazione della psiche, fermandosi impotenti di fronte alla ricerca di un senso per l'esistenza umana. 

Le scienze psicologiche infatti non possono oltrepassare il problema ontologico che soggetto della ricerca psicologica è proprio la psiche, che è anche oggetto del medesimo studio. 

La psicologia cioè non può andare oltre se stessa, e se si ragiona sulla sofferenza determinata dalla irreperibilità di un senso, l'unica risposta può arrivare dalla filosofia, che sin dal suo sorgere non ha mai esitato a mettere in questione il mondo, che oggi è rappresentato dalla tecnica, vera dominatrice tirannica delle nostre vite contemporanee che concepisce l'uomo soltanto come mezzo e lo getta nel deserto dell'insensatezza.

Dunque, nel corso delle dense 460 pagine, Galimberti ricostruisce le origini romantiche della psicoanalisi e l'obiezione fondamentale di Nietzsche con la ragione come equilibrio delle passioni. 

Seguono capitoli incentrati su Lacan, su Nietzsche e la nostalgia dell'innocenza, su Jung e la Psicoanalisi, con lo studio della dimensione simbolica nella pratica analitica e la polisemia del simbolo nella concezione di Jung e un bellissimo capitolo dedicato al simbolismo in astrologia (Storia e destino). 

E ancora, l'approccio fenomenologico di Husserl, Bisnwanger e l'analisi esistenziale, la psicologia come arte, e un commovente capitolo dedicato a Genio e Follia, con incursioni nelle biografie e nelle psicologie di Strindberg, Van Gogh, Holderlin e Rilke

Poi, Galimberti affronta la carenza sistematica della medicina e del suo totale fraintendimento del corpo, con i due volti della malattia, e gli equivoci generati dalla concezione fondamentalista della medicina (che Galimberti chiama superstizione scientifica). 

L'apertura alla filosofia, come rimedio e oltrepassamento della psicopatologia, passa attraverso il pensiero di un gigante come Karl Jaspers che va alle radici stesse del pensiero filosofico e alla filosofia come ricerca e pratica di vita.

Nell'ultima parte infine Galimberti affronta la condizione tragica dell'esistenza e i suoi preziosi antidoti, rintracciati nella giusta misura, nel concetto di limite, nella cura  e nella conoscenza di sé, nell'arte di vivere, nella virtù: valori già contrassegnati dal pensiero dei padri greci e oggi bisognosi di un ripensamento che Galimberti fa approdare nel concetto del nomadismo dell'etica, nell'etica cioè del viandante, che non vive inconsapevolmente accumulando esperienze, ma che, al contrario, valuta con responsabilità gli accadimenti della propria vita, non oltrepassando il limite e dando una misura a se stesso.

Fabrizio Falconi

Umberto Galimberti
La casa di psiche
Feltrinelli, Milano 2006
Pagine 460
Euro 15,00

03/08/19

Libro del Giorno: Emily Dickinson, "Lettere" (1845-1886) a cura di Barbara Lanati


Un libro estremamente affascinante, che ricostruisce parte dell'immenso epistolario di Emily Dickinson, oggi considerata a ragione uno dei massimi poeti, pur avendo pubblicato nel corso della sua vita soltanto 8 brevi poesie in tutto. 

Emily ottenne una fama postuma, con le sue 1775 brevi liriche divenute in breve tempo un punto di riferimento imprescindibile della poesia dell'Ottocento.

E parallelamente alla fortuna dell'opera si cominciò a indagare sulla vicenda personale di Emily, per molti versi quasi incredibile: Emily che visse una intera esistenza senza quasi mai uscire dalla sua casa con grande giardino di Amherst, nel Massachusets - New England - in cui si era praticamente autoreclusa sin dagli anni della gioventù, dedicandosi esclusivamente alla lettura, alla contemplazione della natura, alla composizione delle sue poesie, e alla redazione di migliaia di lettere che sono in gran parte arrivate fino a noi e che documentano aspetti e sostanza di una delle personalità più acute dell'Occidente poetico. 

Barbara Lanati, che ha curato le edizioni italiane delle poesie della Dickinson (con Silenzi del 2002 e Sillabe di seta, 2004, entrambe per Einaudi) ha curato anche questo volume nel quale è possibile calarsi completamente nel mondo di Emily, nei suoi pensieri, nelle sue preoccupazioni, speranze, sensibilità, amori, platonici o immaginari, ma vibranti e sensuali.

"Una lettera mi è sempre parsa come l'immortalità..." scriveva la Dickinson e questo spiega bene il culto che aveva per le lettere, la bramosia con le quali le riceveva e le inviava ai suoi destinatari.

Accattivanti e tenere, sensuali e disperate dunque, le lettere che Emily, prima ragazza e poi donna, ci ha lasciato, sono le tessere luminescenti e screziate con cui è possibile oggi tentare di ricostruire il mosaico della sua esistenza e della sua figura. 

Rappresentazione resa finora incerta da una sorta di vocazione alla solitudine, una specie di solipsismo congenito e apparente che fece di lei, negli anni in cui visse, a margine del Rinascimento americano, una figura di eccezionale, insospettata statura. Per diventare poi in pieno Novecento la figura simbolo della donna forte, colta, moderna e disperatamente sola. O volutamente tale. Eppure anche seducente, allusiva, maliziosa.

Frutto di una mente ultrasensibile e in grado di scendere nella più densa profondità dell'animo umano.



12/07/18

Libro del Giorno: "Una signora perduta" di Willa Cather.





Può essere perfetto un romanzo di sole 140 pagine che racconta una vita intera e di questa vita un carattere indimenticabile ? 


La risposta è sì. Se l'autrice è Willa Cather (1873-1947), scrittrice americana, in Italia ancora assai poco conosciuta e penalizzata come altre sue colleghe tra fine ottocento e primi del Novecento dal genere femminile a cui apparteneva. 

Proprio l'equivoco della letteratura di genere  ha contribuito ad oscurare Willa Cather e altre come lei, rispetto a più blasonati colleghi maschili. Ma il tempo sta restituendo loro il posto che meritano, come testimonia il fatto che la Cather sia amatissima di John Updike e da molti altri autori contemporanei. 

Nata in Virginia nel 1873, cresciuta in Nebraska, la Cather ha raccontato l'America della frontiera, quella dei primi migranti europei che cercavano fortuna nel libero e promettente Midwest cantandone la lenta e inesorabile decadenza suscitata dall'avanzare dallo strapotere delle metropoli dell'East e della West Coast. Proveniente dalla critica teatrale e dal giornalismo la Cather finì per dedicarsi completamente alla scrittura vincendo il Premio Pulitzer 1923 col romanzo Uno dei nostri (in Italia uscito da Elliot nel 2014) e pubblicando altri fortunati romanzi come La morte viene per l'Arcivescovo (Neri Pozza), considerato da molti il suo capolavoro o Una signora perduta pubblicato da Adelphi nel 1990 e continuamente ristampato.

Con la sua prosa asciutta ed elegantissima che rimanda gli echi di Flannery O'Connor e di Carson McCullers e ancora più indietro, di  Hawthorne e Melville, Willa Cather scrisse questo breve romanzo nel 1923, poco tempo prima della Grande Depressione che cambiò faccia al continente e all'Occidente intero. 

Sulla nuova strada ferrata costruita dalle ferrovie Burlington, lungo il tragitto tra Omaha e Denver, la Cather ambienta la sua storia in una piccola località sperduta nelle immense praterie dei territori, dal nome promettente: Sweet Water. 

Qui si è ritirato a vivere il Capitano Forrester, che della costruzione della ferrovia è stato l'eroe indiscusso cambiando per sempre la vita e la fortuna di tanti coloni arrivati a rendere patrimonio la nuova terra promessa.  

Sweet Water, un piccolo snodo di sosta, è per il Capitano un luogo del cuore.  Qui decide di fermarsi e vivere, in mezzo alla natura incontaminata, con una giovane sposa, una vedova conosciuta in California. 

Marian Forrester è dunque la vera protagonista di questa storia: bellissima, nobile, affascina ogni visitatore; è la regina della magione di Sweet Water, la casa dei Forrester. La conosciamo dagli occhi adoranti di un ragazzo, Niel, che insieme ai suoi compagni gioca e cresce nei terreni dei Forrester, ammaliato dalla eleganza della donna, dal suo sincero, limpido buonumore, dalla sua capacità di rendere meravigliosa la giornata di chiunque la incontri. 

Crescendo, Niel impara però che l'immagine radiosa della donna - e della sua dedizione al Capitano - nasconde qualcosa di sordido e di difficilmente confessabile che non ha a che fare soltanto con il passato della donna, ma anche col suo presente. Una sorta di desiderio di consunzione e di deriva. 

Limpido e controllatissimo, lucido fino alla fine, il racconto della Cather è il racconto minuzioso di un carattere, di un carattere che resta - per definizione - non del tutto conoscibile, ma che si esprime in una sottile e inquietante continua ambivalenza. 

La lunga malattia del Capitano rende sempre più difficile per Marion sostenere il ruolo che ha scelto di ricoprire, per una donna come lei che non è disposta, e non sarà mai disposta, a rinunciare alla vita. 

Epigono di altri modelli letterari femminili, Marion Forrester è un carattere che non si dimentica, perché lo si percepisce come vero, fino alla fine. 

La vera letteratura, del resto, per la Cather, nasceva dalla umiltà dello sguardo: "Lascia che le storie nascano dalla terra che calpesti", diceva.

La terra dei Forrester, la terra di Sweet Water, i grandi cieli notturni, il fango degli acquitrini e dei fossi, l'effimera bellezza delle rose coltivate dal Capitano, la grande meridiana in pietra arenaria rossa sono le immobili sentinelle di un racconto che si snoda perfetto fino a toccare ogni corda del versatile cuore umano. 

Fabrizio Falconi 

Willa Cather
Una signora perduta
Traduz. Eva Kampmann
Adelphi 1990

04/07/18

Il Libro del Giorno: "Cinzia con i suoi occhi" di Pietro Zullino (Sesto Properzio).




Esce finalmente in libreria dall'editore Dante Alighieri, un grande romanzo italiano, postumo, scritto da Pietro Zullino, che ha le potenzialità per diventare un piccolo caso editoriale.  
E' un affascinante romanzo fiume, dedicato a Sesto Properzio, il grande poeta romano vissuto nel I sec. a.C., penalizzato dalla critica storica per secoli, e in tempi recenti riscoperto come forse il più moderno dei poeti antichi. 
Zullino dedicandovisi con passione, ha scritto un libro memorabile. Con l'uso di una lingua geniale e modernissima, erudito (ritraducendo ex novo tutte le poesie di Properzio) e straordinariamente nei suoi risvolti, su ciò che è la ribellione nel campo dell'intelligenza e della produzione artistica. 
Zullino, che era autore di lustro, e aveva pubblicato con i più grandi editori italiani, scelse volontariamente (esacerbato dalle logiche editoriali) di autoprodursi il libro qualche anno prima di morire e di stamparlo in poche copie da distribuire agli amici (senza nemmeno firmarlo, ma attribuendolo direttamente al nume di Properzio). 
Finora dunque erano stati ben pochi coloro che avevano avuto il privilegio di leggerlo.
E' valsa però la pena di aspettare: l'edizione che arriva oggi nelle librerie porta infatti la cura di Olga Cirillo, specialista di poesia augustea all'Univesità Federico II di Napoli. Con un prezioso apparato di note e bibliografico si ricostruisce il materiale filologico al quale Zullino ha attinto e come da lui è stato reinventato per i fini di un bellissimo romanzo italiano.

Pietro Zullino (Sesto Properzio) 
Cinzia Con I Suoi Occhi 
a cura di Olga Cirillo
ISBN: 978-88-534-4201-7 
Società Editrice Dante Alighieri
Euro 16,00 €

14/01/18

19/12/17

I geni NON spiegano intelligenza, timidezza, criminalità e ogni altra caratteristica umana complessa.



Ignoriamo la sintassi del genoma.

Si pigliano granchi colossali ignorando la nostra profonda ignoranza. 

Il destino è nei geni ? La domanda è retorica, la risposta è un secco no. 

Tanta roba è scritta nei nostri geni, fra cui sicuramente maggiori e minori predisposizioni a sviluppare certe malattie, o a rispondere al trattamento con farmaci.

Ma i tentativi di trovare un gene che spieghi caratteristiche complesse, come la criminalità, la timidezza, o (peggio ancora) l'intelligenza hanno portato a risultati risibili. 

"Se in un titolo si legge 'Scoperto il gene responsabile di X' dove X sta per una caratteristica umana complessa, quel gene non è stato scoperto perché in realtà non esiste".



Notizie contenute in "Il destino non è solo nei geni", di Guido Barbujani, recensione del nuovo libro di Adam Rutherford (genetista e divulgatore scientifico), Breve storia di chiunque sia vissuto. Il racconto dei nostri geni, Bollati Boringhieri, Torino, pagg.343 Euro 26; in Domenicale del Sole 24 ore di Domenica 10 dicembre 2017. 


14/12/17

La gestazione di "Cent'anni di Solitudine" e molto altro: è On line l'archivio di Gabriel Garcia Marquez.




Sorprese e misteri svelati in 27 mila pagine di carte. L'universita' del Texas, che lo aveva acquistato tre anni fa per 2,2 milioni di dollari, ha messo online l'archivio di Gabriel Garcia Marquez. 

Lettere, manoscritti annotati in 50 anni di lavoro, fotografie, appunti, taccuini, sceneggiature, la collezione intera dei passaporti dell'autore di "Cento Anni di Solitudine" erano entrati nelle collezioni del Centro Harry Ransom tra mille polemiche, prima tra tutte il fatto che l'eredita' letteraria dello scrittore latino americani piu famoso - uno dei piu' feroci critici dell'imperialismo nord-americano - fosse finita per sempre negli Stati Uniti. 

Emerge solo adesso il senso dell'operazione: l'ateneo texano, che già conserva le carte di James Joyce, Ernest Hemingway, William Faulkner e Jorge Luis Borges, ha scannerizzato una buona meta' dell'archivio mettendo le immagini digitali della creativita' di Garcia Marquez a disposizione gratuita di chiunque nel mondo abbia un computer e una connessione web

Mancano, tra le carte digitalizzate, le dieci bozze dell'ultimo romanzo incompiuto, "Ci rivedremo in agosto", il cui primo capitolo fu pubblicato nel 2014, poco dopo la morte dello scrittore a 87 anni, dalla rivista spagnola Vanguardia, ma di cui gli eredi hanno rifiutato l'ulteriore andata in stampa: per consultarle bisognera' recarsi in Texas. 

Disponibili invece la registrazione audio della conferenza di accettazione del Nobel del 1982 e una serie di lettere che sfatano miti coltivati dallo stesso scrittore. 

Come quello, ad esempio, che per scrivere "Cento anni di solitudine", "Gabo" entro' in una sorta di trance, "non alzandosi, come disse lui stesso, dalla sedia per 18 mesi". 

La realta' dell'archivio dimostra che Garcia Marquez compose la saga della famiglia Buendia mandando in giro capitoli e pubblicandone estratti e aggiornando poi il testo a seconda delle reazioni: un po' come faceva Charles Dickens

E come altri scrittori famosi, in pubblico anche Garcia Marquez affermava di non curarsi troppo delle critiche. Gli archivi contengono invece una serie di taccuini che raccolgono meticolosamente, e in alcuni casi reagiscono, alle recensioni del suo lavoro in molte lingue diverse. 

 L'archivio e' stato venduto dagli eredi dello scrittore: comprende anche due macchine da scrivere Smith Corona e cinque computer Apple. Inclusi nel fondo Garcia Marquez, che non teneva copie delle sue, sono anche 2.000 lettere ricevute da grandi firme come Graham Greene, Milan Kundera, Gunter Grass, Julio Cortazar e Carlos Fuentes. Poco dei rapporti con Fidel Castro e altri leader politici: "Mio padre - aveva spiegato all'epoca della vendita il figlio Rodrigo Garcia - preferiva condurre questi affari a voce: di persona o per telefono".

Fonte: Alessandra Baldini per ANSA

24/11/17

Libro del Giorno: "L'arte dell'Attesa" di Andrea Kohler.



Esce per Add editore di Torino questo saggio della scrittrice e giornalista tedesca Andrea Kohler, che ha avuto notevole successo editoriale in Germania e poi negli Stati Uniti dove è stato tradotto lo scorso anno.

La Kohler, che è la corrispondente dagli Stati Uniti del quotidiano svizzero Neue Zurcher Zeitung affronta in questo saggio letterario, un tema originale e importante: quello dell'attesa e del cambiamento nel suo senso della percezione, provocato dalla modernità. 

Come è cambiato il nostro senso dell'attesa ?  Aspettare è una imposizione, è questo l'assunto da cui parte la Kohler. Chi attende immagina ciò che avverrà  e si sottopone - volente o nolente - a una rinuncia pulsionale.

Il saggio della Kohler prende le mosse - abbastanza prevedibilmente - dalla fatale identità dell'innamorato secondo Roland Barthes, nel celebre Frammenti di un discorso amoroso: come si ricorderà Barthes definisce l'innamorato, per l'appunto, come colui che aspetta. 

L'attesa è dunque il tempo dell'angoscia (per l'innamorato) come esprime La voce umana di  Cocteau. 

Ma ovviamente l'attesa non è solo questo: chi non sa aspettare, scrive la Kohler, deruba se stesso della dolce ricompensa della pazienza. 

Tra Handke (il suo Saggio sulla Stanchezza) e il Proust della Recherche, l'attesa indefinita è un accompagnamento silenzioso della nostra vita, da quando siamo bambini e aspettiamo il bacio della buonanotte della madre, a quando perdiamo le nostre ore seduti sulla panchina di un parco, nella contemplazione delle ore o nell'attraversamento della noia. 

Ma l'attesa è anche preparazione: è imparare a cogliere il momento importante: la vita punisce chi arriva tardi, è il titolo di uno dei veloci capitoli di questo libro, e l'arte del rinvio non è quasi mai utile. 

Anche se, citando Heidegger, nessun treno sarebbe mai arrivato se non avessimo imparato ad aspettare nel modo giusto, cioè mediante un'attesa che allo stesso tempo "lascia essere" e "riflette".

I capitoli del libro sono inframmezzati da brevi  Intermezzi dell'autrice che racconta in prima persona il suo rapporto con l'attesa. 

Alla fine forse il vero difetto di questo libro, comunque affascinante per il viaggio che attraversa, da Nietzsche a Sloterdijk è la mancanza di un vero centro teorico: l'idea dell'attesa della Kohler, forse influenzata dalla mentalità nordica, è quella dell'attesa come gabbia, come condizione claustrofobica, come palude emotiva, dalla quale liberarsi, da sublimare in comportamenti positivo-razionali.  Manca una valutazione creativa, feconda, liberatoria dell'attesa, come tempo propizio, come occasione e cura, che poteva - e forse doveva - essere sviluppato. E in questo contesto anche il tempo dell'attesa cristiana dei tempi di rivelazione viene soltanto sfiorata. 

Fabrizio Falconi



22/07/17

Ritorna in libreria: "Roma, Firenze, Venezia", lo straordinario saggio di Georg Simmel.




Meritevole la ristampa finalmente in Italia, da parte di Meltemi, la piccola casa editrice di Sesto San Giovanni, di Roma, Firenze, Venezia, saggio capitale scritto da Georg Simmel tra il 1898 (Roma) e il 1906-1907 (Firenze e Venezia), dopo intensi viaggi in Italia. 

Georg Simmel (1858-1918), filosofo e sociologo tedesco, è considerato uno dei padri fondatori della sociologia e uno dei più noti interpreti della modernità. Nato nel 1858 a Berlino da genitori di origini ebraiche, studia storia e filosofia all’Università Humboldt di Berlino, dove insegna fino al 1914. Costretto in una posizione marginale dall’antisemitismo dell’ambiente accademico tedesco, Simmel è tuttavia al centro della vita intellettuale berlinese. Nel 1909 fonda insieme a Weber e Tönnies la Società tedesca di sociologia. Nel 1914 ottiene una cattedra a Strasburgo. L’inizio della Grande guerra, tuttavia, gli impedisce di insegnare. Durante la guerra scrive le sue ultime opere, riguardanti esclusivamente la filosofia della vita. Muore quasi contemporaneamente alla fine del conflitto, a Strasburgo, nel 1918. 

Si tratta di un piccolo saggio - in tutto non più di 35 pagine (la parte più lunga è riservata a Roma - eppure molto raramente ci si imbatte nella vita di lettore in qualcosa di così straordinariamente denso, e illuminante in ogni singola parola. 

Si potrebbe dire - senza timore di esagerare - che Simmel è davvero il padre della moderna saggistica, attuando nel genere una rivoluzione pari a quella che operarono gli impressionisti nel campo della pittura.

Alle tre città amate, Simmel dedica un'opera dal potente significato estetico, riuscendo a cogliere in modo originalissimo, moderno, l'anima, più che la struttura urbana, architettonico o artistica. In Roma l'analisi ruota attorno alla bellezza unica della città prodotta dalla miracolosa unione di una moltitudine di elementi (apparentemente caotici) sparsi nel tempo e nello spazio, in grado di produrre una armonia perfetta.  Roma assegna a ciascuno il suo posto, scrive Simmel proprio perché a Roma il passato diventa presente o anche viceversa: il presente diventa a tal punto onirico, sovrasoggettivo, quieto, da sembrare il passato. 

In Firenze, Simmel ritrova i temi della fusione tra spirito e natura che ne hanno fatto la città simbolo del Rinascimento, non soltanto storicamente, ma anche nella modernità. Firenze, scrive Simmel, è la felicità degli uomini compiutamente maturi che hanno raggiunto l'essenza della vita o vi hanno rinunciato e che, per tale possesso o tale rinuncia, vogliono cercare unicamente la sua forma. 

Infine in Venezia, forse il saggio più intenso, Simmel si concentra sul tema dell'assenza della verità, in una città dominata dalla realtà esteriore, dall'estetica, che pregiudica l'armonia delle parti, dando luogo alla tragedia della modernità. Venezia, scrive Simmel, conserva tale bellezza come pietrificata, incapace di contribuire alla vitalità e allo sviluppo del vero essere.

Un libro che si legge in un fiato e che resta, come consolazione vera e punto di riferimento. Con una ottima introduzione di Andrea Pinotti. 






14/01/17

"Il retaggio" di Sybille Bedford (Recensione).


Sybille Bedford è una di quelle scrittrici minori  che hanno attraversato tutto il Novecento, sfiorando le vite dei più grandi, con cui hanno intrattenuto spesso rapporti molto stretti - spesso oscurati da questi -  e che vengono via via riscoperte come è già successo a Elizabeth Jane Howard e a diverse altre.

La biografia della Bedford è già di per sé una sorta di opera d'arte. Nata in Germania, nel 1911 a Charlottenburg, il padre è il nobile Maximilian von Schoenbeck, «un uomo educato al piacere, a godere delle cose belle della vita, ma presto intrappolato fra paure ed eventi». La madre, inglese, è bella e spregiudicata, ma sparirà presto dalla vita della figlia.

La vita della Bedford fin da piccola ha un'impronta decisamente cosmopolita. Lascia infatti la Germania ancora bambina, troncando poi ogni legame con il Paese dopo subito l'avvento del nazismo. Vive così in una specie di bel mondo dorato, tra la Gran Bretagna, la Francia e l'Italia, circondata da una ristretta schiera di donne e uomini colti, intelligenti e sensibili, provenienti da ogni parte del mondo.

Tra gli amici più intimi c'è Aldous Huxley, come lei viaggiatore instancabile oltre che romanziere e saggista, al quale la Bedford ha dedicato una biografia. Dopo una vita intensissima e molti romanzi scritti, muore il 17 febbraio 2006 all'età di 94 anni.

Il Retaggio, uscito nel 1956,  è quello che viene considerato il suo capolavoro. Si tratta di un classico romanzo familiare alla ricerca di un mondo perduto, che è quello della stessa scrittrice. Nei personaggi dei protagonisti, l'eccentrico Julius Felden e la moglie Caroline, sono infatti identificabili i genitori di Sybille e il Retaggio si apre proprio su quella scena della Germania di fine Ottocento, con la sua opulenza terriera e finanziaria, le aspre tensioni sociali, il presagio di una catastrofe lontana ma già chiaramente annunciata; la stessa scena nella quale ha visto i natali la scrittrice.

Nelle quasi 400 pagine del romanzo si dipanano le storie di tre famiglie, unite da divergenti tradizioni aristocratiche e separate da irreali visioni del futuro. 

La prima è costituita da solidi beneficiari ebrei di Berlino, nel cuore del Nord prussiano e protestante; le altre due appartengono «a realtà discordi del Sud cattolico: l’una sonnolenta, rurale, volta al passato; l’altra ossessionata da sogni ecumenici di dimensioni europee».

A unirle provvederanno due matrimoni e uno scandalo.

E su tutto aleggia lo stile leggero e turbinoso di Sybille Bedford, che accompagna e descrive la dissoluzione di questo mondo polveroso e perduto, facendolo rivivere nella memoria del lettore.

E' un romanzo a tratti macchinoso e difficile, perché la Bedford non è mai consequenziale e non ha rispetto per le regole narrative, giocando con dialoghi surreali fuori dal tempo e dai personaggi, e con rapidi salti di luogo e temporali, divertendosi a dilatare i tempi in alcune parti (come la fuga dalla terribile accademia, da parte di uno dei giovani rampolli aristocratici) e sorvolando brutalmente su altre, che restano misteriosamente sottratte alla curiosità del lettore.

Sybille Bedford 
Il retaggio 
Traduzione di Marina Antonielli 
Adelphi2016, pp. 388

28/11/16

Marco Cicala intervista la vedova di Giuseppe Berto,mentre viene ripubblicato "Il male oscuro", romanzo capitale del Novecento italiano.



Giuseppe Berto con la moglie Manuela nell'appartamento alla Balduina

Pubblico l'incipit della bellissima intervista realizzata da Marco Cicala a Manuela, la vedova di Giuseppe Berto, sull'ultimo numero del Venerdì di Repubblica. 


ROMA. La letteratura come terapia è ormai una ricetta da corsi serali per signore ansiose. Non lo era nel 1958, quando Nicola Perrotti – luminare freudiano, tra i fondatori della Società psicoanalitica italiana – prese in cura quello che sarebbe diventato il suo paziente più famoso. Giuseppe Berto aveva 44 anni e stava malissimo. La nevrosi che da qualche tempo si portava appresso s'era andata acutizzando con effetti parecchio invalidanti. Nei momentacci di crisi, Berto non può più restare da solo in una stanza, attraversare una strada, salire oltre il quarto piano di un palazzo. Non prende ascensori, treni, aerei, navi. Se c'è traffico, anche spostarsi in auto lo getta nel panico. Ha dolori al colon, al torace. Vive nel terrore del cancro, dell'infarto, della pazzia. Soprattutto scopre una paura a lui finora sconosciuta: quella di scrivere. Dopo tre romanzi di varia fortuna, si danna alla tastiera, ma niente. A sbloccarlo, lentamente, saranno le sedute da Perrotti.


Sostenuto dal terapeuta, Berto torna al lavoro «come un paralitico che dopo l'attacco di trombosi rieduca a poco a poco gli arti immobilizzati e li riporta a compiere i movimenti» confesserà più tardi. Rimette mano a roba abortita, rimasta nei cassetti, ma Perrotti gli consiglia di buttare via tutto per tentare qualcosa di totalmente nuovo. Non importa il risultato: basta che Berto arrivi fino alla fine senza fermarsi mai. È quanto Bepi farà in due mesi di autoreclusione nella casupola che s'è comprato in cima allo sperone calabrese di Capo Vaticano. Ne verrà fuori «il malloppo», cioè la prima stesura grezza, torrenziale del Male oscuro, suo magnum opus (1964), «che è press'a poco il racconto della mia malattia».



Adesso il romanzo torna in libreria da Neri Pozza, con una bella postfazione di Emanuele Trevi (bella postfazione è formula di prammatica nelle recensioni, però questa è bella davvero) e con il testo di sperticato encomio che nel ‘65 Carlo Emilio Gadda dedicò al libro dai microfoni radio della Rai. Del resto, sin nel titolo – tratto da un passo della Cognizione del dolore citato in esergo – Il male oscuro si situa sotto l'astro saturnino di Gadda, altro nevrotico leggendario. E leggenda è anche quella che ha finito per avvolgere l'exploit di Berto, il suo libro del riscatto e del successo. Hanno raccontato quell'impresa come matta e disperatissima, e magari lo fu, ma nello stile di Bepi: anticonformista disciplinato.



«Scriveva solo al pomeriggio, con due dita. Scriveva e si liberava. Lo vedevi scrivere e liberarsi» ricorda la moglie Manuela nell'appartamento romano alle pendici della Balduina dove si stabilì con il marito a fine anni ‘50. Mi avevano descritto la signora Berto come una tipa battagliera. È di più. Classe 1933, in due ore e fischi di conversazione mi offre vino e sigarette; oltre che di Berto, mi parla di Lawrence d'Arabia, dell'altare di Pergamo, del genocidio armeno e della sua famiglia allargata assai, inclusa quella moglie di suo padre che discendeva da una dinastia russa citata addirittura in Guerra e pace. In vita sua Manuela ha concesso poche interviste; questa l'ha accettata a due sole condizioni: «Non la scriva a domanda e risposta. E non mi chiami La vedova Berto». Obbedisco.



Con Bepi, che per lei era Beppi  si conobbero a Roma, piazza del Popolo, nei primi anni ‘50. Sono belli tutti e due, lui più âgé di 18 anni. «Mi agganciò bussandomi sulla spalla. Era affascinante. Ma non so perché l'occhio mi cadde sui suoi calzini corti e la camicia di nylon». Nel ‘54 convolano. Avranno un'unica figlia, Antonia, che oggi vive tra Italia e Stati Uniti. Siccome nell'atto del concepimento il padre ebbe un problema, volevano chiamare la bambina Colica: «Parola sdrucciola, bellissima, a Beppi piaceva tanto. Però all'anagrafe rifiutarono».



A quell'epoca Berto non sta ancora male, ma nemmeno benissimo.«Prima che ci sposassimo era stato ricoverato d'urgenza per un attacco di calcoli ai reni. Pensavano fosse un cancro, lo aprirono. E da lì ne fecero un ipocondriaco». Berto entra in depressione. Passa dall'agopuntura alla chiropratica, all'omeopatia. Dorme con due vocabolari sotto le gambe per favorire la circolazione. Le tenta tutte: «A un certo punto gli dissero di curarsi con una strana scatoletta di legno da attaccare ogni mattina alla corrente elettrica. Gli prescrissero anche di lavarsi i denti con il sapone di Marsiglia e aspettare».



Ma i placebo fanno tutti cilecca. Arrivano le prime crisi: «Un giorno uscendo da una banca vicino via Veneto lo ritrovo abbracciato alle ginocchia di un vigile urbano». Attacco di panico: «Nel pizzardone riconosceva l'ordine: lo rassicurava. Lo spostammo in farmacia per un calmante». Profondo buio. Finché qualcuno non gli segnala Nicola Perrotti, «uomo buono, intelligente, comprensivo, attento, amoroso» lo definirà Berto. «Per lui» dice Manuela «fu il vero padre». Quello biologico invece si chiamava Ernesto, da Cologna Veneta (Verona), ex carabiniere reinventatosi venditore di cappelli. «Ma tutt'al più era buono a piantare il radicchio. Una carogna» è il ricordo affettuoso della nuora che non lo conobbe mai.



Il male oscuro è anche una guerra di liberazione da quel padre: «Spedì Beppi in collegio. E non lo rivoleva in casa né a Natale né a Pasqua, solo d'estate. Si infuriava quando lui gli spettinava il riporto. Non faceva che ripetergli: Ti sarà un delinquente! Lo fece crescere nel senso di colpa». Colpa di che? «Di non essere all'altezza delle aspettative del papà». E così, per risollevarsi l'autostima, Berto parte due volte volontario in guerra: campagna d'Abissinia (1935) e ancora Africa settentrionale (1942). Doppiamente medagliato, finirà prigioniero negli Stati Uniti e in campo di concentramento scoprirà la scrittura. In seguito avrebbe sconfessato l'allucinazione fascista, migrando verso posizioni anarco-liberali.



Ma mettetevi nei panni di uno come lui: ex prode venuto su tra i miti virili del Ventennio che a quarant'anni si ritrova tremante e denudato dalla nevrosi: «Una malattia basata sulla paura. Paura di tutto» scriverà, con un certo coraggio. Oltre al rapporto col padre, aveva sofferto l'ostracismo della society letteraria di sinistra («La mafia di Moravia» la definisce Manuela per direttissima), e a metterlo k.o. s'era aggiunto pure il flop di Il brigante (‘51), romanzo con il quale Berto contava di ritrovare il successo di Il cielo è rosso, suo fiammeggiante esordio (‘46).



È questo l'uomo diminuito che torna metodico al lavoro sul tavolinetto di Capo Vaticano e, ticchete tacchete, dà la stura al groppo che lo opprime. Scrive come un beat, erutta frasi fluviali, se ne infischia della punteggiatura: «Era come se avessi scoperto il bandolo d'un filo che mi usciva dall'ombelico: io tiravo e il filo veniva fuori, quasi ininterrottamente, e faceva un po' male, si capisce, ma anche a lasciarlo dentro faceva male».
Pensava al Prometeo incatenato di Eschilo, pure lui citato sul frontespizio del romanzo: Il racconto è dolore, ma anche il silenzio è dolore.

30/09/16

Il libro del giorno: "Paul e Virginie" di Bernardin de Saint-Pierre.



Uscito nel 1788, il proto-romanzo romantico-naturalistico che influenzò intere generazioni con la storia primitiva e tragica di due giovani che si amano pudicamente nell'Ile de France (l'attuale Mauritius) e che il destino separa precocemente, senza riuscire a separare le loro anime.

Miracolo di scrittura pura, di fronte alla quale anche le ingenuità e le forzature passano in secondo piano, di fronte alla quale non resta che ammirare il mistero di qualcosa che è riuscito a cogliere il quid più intimo della natura umana, condannata ad essere in bilico, sempre. 

Un classico da riscoprire continuamente. 



23/05/16

Il libro del giorno: "Il sosia" di Fëdor M. Dostoevskij.




Scritto da Dostoevskij a 25 anni, "Il sosia" è il racconto di un incubo: il burocrate Goljadkin, al centro di uno 'scandalo sentimentale', si imbatte nel proprio sosia - perlopiù un omonimo - che a poco a poco gli ruba il posto sul lavoro, lo umilia in società fino a farlo internare in manicomio. 

Un durissimo, agghiacciante plot, che Dostoevskij ogni tanto alleggerisce con tocchi feroci di umorismo, senza peraltro nulla togliere all'intrigo psicologico che si presta ad infinite possibilità di lettura (anche psicanalitica) del testo. 

11/08/13

Libro sotto l'ombrellone: lasciate a casa le orride trilogie e portatevi dietro Conrad, Stendhal o Fitzgerald.




L'estate è la stagione dei lettori occasionali.  

Chi legge molto, di solito legge tutto l'anno.   In tanti invece, riescono a leggere soltanto d'estate. Interpretano, molti tra costoro, la lettura, come una delle forme diversive,  di divertimento o di svago.  Al pari del cruciverba, della rivista facile e dei vari compendi tecnologici che si infilano nella stessa borsa della spiaggia. 

Eppure un libro non è (solo) un diversivo. 

Un libro può arricchire - e di molto - la nostra vita reale.  Non bisognerebbe dunque sprecare l'occasione, almeno un mese all'anno, di conoscere, di crescere.  Attraverso un buon libro.

Vedo sotto la spiaggia in tanti violentarsi inutilmente con le trilogie trash o con il giallo un tanto al chilo d'importazione o fatto in casa.  E fuoriuscire da queste letture ancora più instupiditi di prima. 

Si pensa che un libro importante sia necessariamente  pesante o noioso
Ma lo dice soprattutto gente che non ha mai nemmeno provato a leggere qualcosa di un pochino più evoluto. Si tratta semplicemente di pigrizia mentale.  E come in tutte le cose simili, basterebbe cominciare, per scoprire un mondo. Per scoprire quanto ci si può arricchire. 

Provate anche con i vostri amici. Fatevi promotori dei buoni libri e della buona lettura. 

Chi legge male, di solito, vive anche male. 

Fatelo anche per loro.  Lasciate a casa, e fate lasciare a casa, o nell'ignobile dispenser dell'autogrill, il brutto seller americano, la puntatona della saga finto-medievale, il polpettone erotico a basso voltaggio. 

Portatevi dietro e consigliate all'amico di portare dietro un grande romanzo.  L'ultimo Conrad ristampato in Italia, per esempio (Il Caso, Adelphi, un romanzo straordinario dove sembra non accadere nulla e invece il lettore è risucchiato in un meccanismo narrativo perfetto), lo Stoner di John Williams (di cui, dopo un anno, si sono accorte finalmente, dopo un anno, addirittura, anche le pagine culturali di Repubblica),  La Certosa di Parma di Stendhal, Tenera è la notte di Fitzgerald. 

Vi divertirete anche, è sicuro.  Ma quando chiuderete uno di questi libri, sarete anche un uomo (o una donna) diversi. E scusate se questo è poco.  

Fabrizio Falconi