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03/12/21

Libro del Giorno: "Crossroads" di Jonathan Franzen

 


Appena terminata l'ultima pagina, con un finale così sospeso che non trova altra giustificazione che nel  fatto dell'essere Crossroads, la prima parte di una trilogia, un fiume narrativo che continuerà nei prossimi due romanzi, ci si scopre ammirati e sollevati: Franzen è tornato. E' tornato, cioè, dopo il gran brutto inciampo di Purity, quello che conoscevamo e che aveva incantato con Correzioni, e con Libertà

Ed è tornato ancora meglio, al punto che Crossroads, il suo sesto romanzo può forse essere considerato il suo migliore. 

Pubblicato due mesi fa in America, Crossroads è una saga familiare ambientata negli anni '70 e incentrata sulla famiglia Hildebrandt nella piccola città immaginaria di New Prospect, nell'Illinois.  Come detto, il romanzo è il primo volume di una trilogia progettata intitolata A Key to All Mythologies, che Franzen intende come l'abbraccio di tre generazioni e che ripercorre la vita interiore della nostra cultura fino ai giorni nostri". 

Crossroads segue le vicende di Russ e Marion Hildebrandt, il cui matrimonio è vicino al collasso, e i loro quattro figli, Clem, Becky, Perry e Judson

Ogni capitolo è raccontato dal punto di vista di uno degli Hildebrandt, e la maggior parte è ambientata nella fittizia New Prospect Township della periferia di Chicago. 

La prima sezione, intitolata Avvento, si svolge nell'inverno del 1971. Russ, ministro associato della First Reformed Church, flirta con una giovane vedova, Frances Cottrell, odiando il carismatico Rick Ambrose. Russ è stato infatti costretto a lasciare Crossroads, il popolare gruppo giovanile che ha fondato nella sua Chiesa, a favore dello stile di leadership più popolare – e meno liturgico – di Rick. 

I due figli di Russ, Perry e Becky si sono recentemente uniti a Crossroads, con molti problemi: . Perry ha deciso di smettere di spacciare erba e diventare una persona migliore. Becky, una popolare cheerleader, diffida di Perry, anche se è vicina a suo fratello maggiore, Clem. Si è anche scontrata con i suoi genitori per un'eredità di 13.000 dollari da sua zia Shirley. 

Nel frattempo, Marion sta frequentando di nascosto sessioni di terapia, in cui racconta episodi traumatici del suo passato, tra cui una relazione con un uomo sposato di nome Bradley e un crollo psichiatrico. Questi episodi sono avvenuti a Los Angeles poco prima che incontrasse Russ, e lei li ha nascosti alla sua famiglia, nonostante la sua preoccupazione per la stabilità mentale di Perry.

La seconda sezione, Pasqua, inizia nella primavera del 1972. Crossroads compie il suo viaggio di servizio annuale in Arizona , dove Russ ha legami con la comunità Navajo che risalgono al suo servizio alternativo in Arizona come obiettore di coscienza durante la seconda guerra mondiale.

Da qui si dipaneranno una serie di conseguenze impreviste e anche drammatiche. 

Il libro termina nel marzo 1974, quando Clem torna a New Prospect per riunirsi con Becky

Franzen ha iniziato a scrivere Crossroads all'inizio del 2018, e ha finito di scriverlo durante i primi quattro mesi della pandemia di COVID-19 nel 2020, dichiarando che durante la stesura di Crossroads ha deciso di abbracciare pienamente il suo ruolo di "romanziere di caratteri e di psicologia", limitandosi cioè "una rigorosa narrativa realista", e in questo senso il progetto differisce dai suoi romanzi precedenti. 

Il progetto nasce dalla concezione di Franzen di un singolo personaggio, ispirato da una nuova conoscenza che – come Russ in Crossroads – aveva un background mennonita

Il romanzo è anche molto autobiografico: da adolescente, Franzen apparteneva a un gruppo di giovani della chiesa chiamato Fellowship, che è l'oggetto del suo saggio "The Joy Breaks Through" contenuto in "Zona disagio" e che ricorda Crossroads. 

Tuttavia, in Crossroads , Franzen ha affrontato la religione principalmente come "un'esperienza emotiva": Non era mia intenzione cosciente, ma penso di aver prodotto un libro che essenzialmente non contiene teologia... Penso che le domande per me siano: sono una brava persona? Cosa posso fare per essere una persona migliore? Non credo che le persone, in generale, dicano: "Voglio essere buono secondo uno standard esterno". Penso che stiano lottando con esso in un modo più personale e specifico. 

Alla domanda sul motivo per cui ha scelto di ambientare Crossroads nei primi anni '70, Franzen ha sottolineato lo stretto legame tra religione e movimenti progressisti negli Stati Uniti in quel momento - un tempo, cioè, prima che il cristianesimo fosse decisamente associato alla politica di destra. Era anche interessato alle conseguenze dei diritti civili e dei movimenti contro la guerra e al fatto che "si iniziarono a vedere i primi giovani che erano in realtà più conservatori dei loro genitori". 

Franzen ha anche affermato di aver trovato interessante scrivere sul passato, piuttosto che sul presente, durante gli anni dell'amministrazione Trump, a cui sentiva di "non riuscire a dare un senso in tempo reale". 

Le mie impressioni di lettura del romanzo, sono confortate dal supplemento letterario del Times, secondo il quale Crossroads è largamente esente dai vizi da cui è stato dedito il lavoro precedente di Franzen: l'attualità consapevole; la raffinatezza dell'esibizione; la pesantezza formale. Conserva molte delle sue virtù familiari: la robusta caratterizzazione; l'escalation della commedia; la padronanza virtuosistica del ritmo narrativo. 

I critici hanno particolarmente elogiato il personaggio di Marion, che è stato definito "uno dei gloriosi personaggi della recente narrativa americana". 

 Quel che è certo è che Crossroads tocca in profondità con le descrizioni di vite che sono (anche) le nostre e tempi che sono (stati) anche i nostri, con un artifizio da Lanterna Magica che li rende ancora più reali del vero. 

Fabrizio Falconi 

Jonathan Franzen

Crossroads 

Traduzione di Silvia Pareschi 

Einaudi Supercoralli 2021 

Pagine: 600 p.,  Euro 22

08/09/20

Caetano Veloso: "I diritti e la libertà sono sotto minaccia"



"Ho sempre avuto una memoria micidiale, alla mia testa piace molto ricordare, figuriamoci quei giorni li', ma quando ho avuto tra le mani quei fogli, il verbale del mio interrogatorio e gli appunti della mia detenzione, di cui ignoravo l'esistenza, non nascondo di essermi emozionato molto", e anche se con il filtro freddo del collegamento zoom da Rio de Janeiro l'emozione prosegue a distanza per Caetano Veloso quando racconta il film che lo vede protagonista. 

Si tratta di Narciso Em Ferias, Narciso in vacanza, evento speciale fuori concorso a Venezia 77.

Diretto da Renato Terra e Ricardo Calil, fa leva sui ricordi e sulle riflessioni di Veloso su quei 54 giorni di carcere sotto la dittatura militare brasiliana, nel 1969, con il pretesto di aver cambiato le parole di una canzone

Raccontando nel dettaglio quei giorni scolpiti nella sua memoria, il musicista, tra i fondatori del Tropicalismo che e' stato un movimento non solo musicale ma anche culturale d'avanguardia, ricorda e interpreta le canzoni di quegli anni e le storie molto spesso simili di altri artisti, tra cui Gilberto Gil, che fu arrestato lo stesso giorno.

"Fare memoria per me e' stato catartico, sono uscito di casa pensando di fare un'intervista e invece mi sono ritrovato indietro di 50 anni con un racconto rimasto per tanto tempo segreto e sono stato sopraffatto dall'emozione".

Erano anni, quelli della dittatura militare di Humberto de Alencar Castelo Branco, meno nota dei vicini Cile e Argentina ma certo non meno traumatica, in cui anche una canzone poteva portare in carcere. 

E oggi? Gli intellettuali incidono ancora nella societa' rappresentando un pericolo per il potere? "Dietro una parvenza di democrazia c'e' una minaccia piu' subdola, meno chiara, all'epoca c'era una struttura autoritaria, ora invece c'e' quasi una contaminazione, una trama che cerca di infiltrarsi tra le maglie della democrazia, impedendo di fatto la circolazione delle idee, l'affermazione dei diritti e per la cultura e' piu' difficile incidere, anche se ha sempre la possibilita' di mettere in scacco e in crisi l'establishment se vuole. La situazione e' diversa dal '68, ma il modo di gestire la cosa pubblica spesso nel mio Paese non e' democratico. Oggi poi le nostre paure sono legate al timore di perdere i diritti acquisiti, allora non ne avevamo proprio". 

La quarantena, la situazione attuale ancora nella pandemia, anche per motivi sanitari, ha accentuato in Brasile, ma anche in tutto il mondo, il potere di controllo sui cittadini cosa ne pensa? "C'e' il tentativo di controllo totale, il Covid 19 suggerisce fantasie di dominio sulle persone, ma per me non e' una sorpresa, era gia' nell'aria e la comunicazione, i media, in questo hanno grande responsabilita'. Ma non voglio essere catastrofico ne' complottista, la situazione e' in evoluzione, dobbiamo imparare a convivere con lo sviluppo della scienza, l'intelligenza artificiale e la gestione degli algoritmi cercando di conservare autonomia delle coscienze". 

Caetano Veloso, mettendo a nudo il suo passato di 50 anni fa, spera di arrivare ai giovani e far conoscere quel desiderio di liberta' che avevano i ragazzi come lui, sottolineato da quell'Hey Jude, la canzone immortale dei Beatles, che ha riarrangiato per il documentario Narciso Em Ferias in uscita anche come album. 

Italia per Veloso infine significa cinema, Michelangelo Antonioni, "un'amicizia durata anni sull'onda del mio amore per i film italiani, da La Strada di Fellini che vidi a 15 anni, alle opere di Rossellini. Tutte cose che sono state importantissime per la mia formazione". 

Fonte: Alessandra Magliaro per ANSA

31/01/17

Esce "Siamo tutti diversi!" di Teresa Forcades, una radicale riflessione sulla diversità umana.






E' davvero un pensiero profondo e originale quello di Teresa Forcades, esposto in questo volume appena pubblicato da Castelvecchi. 

Teresa Forcades si racconta e, mentre la sua biografia si dipana nella narrazione, emergono in modo dirompente i temi della sua riflessione: dall’originale interpretazione teologica del concetto queer e della radicale differenza di ciascun essere umano al pensiero femminista, dalla mercificazione del corpo all’omosessualità. 

Uno sguardo acuto sul percorso che ogni essere umano compie per diventare adulto e trovare la propria unica e irriducibile identità. E poi ancora: unioni civili, utero in affitto, medicalizzazione della società, fede e Vangeli, cattolicesimo e ruolo della donna nella Chiesa, amore e libertà, clericalismo e patriarcato, religione, psicanalisi e lotta politica. 

In filigrana, attraverso il flusso di una vita d’eccezione, una domanda spiazzante: cosa significa essere una teologa femminista nel XXI secolo?



Teresa Forcades 
Monaca benedettina di origine catalana, medico, teologa femminista e attivista politica, si è specializzata in Medicina Interna a Buffalo (Stato di New York), ottenendo poi un Master of Divinity a Harvard

Ha conseguito un dottorato in Salute pubblica e un dottorato in Teologia Fondamentale a Barcellona; successivamente, un post-dottorato presso la Humboldt-Universität di Berlino, dove ha poi insegnato Teologia della Trinità e Teologia queer. 

Nel 2012 ha fondato il movimento politico Procés Constituent per l’indipendenza della Catalogna. 

La sua popolarità si è imposta all’attenzione internazionale per la sua ferma critica alle industrie farmaceutiche e le sue coraggiose posizioni sia all’interno della Chiesa sia nel dibattito politico contemporaneo.

Teresa Forcades 
Siamo tutti diversi! 
Per una teologia queer 
a cura di Cristina Guarnieri e Roberta Trucco
pagine 192 prezzo € 16.50
Castelvecchi, 2017

21/10/16

Che cosa è la libertà ? (Bonhoeffer)



"Colui che è responsabile agisce nella libertà della sua persona, senza mettersi al riparo dei suoi simili, delle circostanze o di certi principi, ma tenendo conto di tutte le circostanze di carattere umano e ambientale e delle considerazioni di principio. 

Il fatto che nulla lo può difendere, che non può scaricarsi se non sui suoi atti e su se stesso, è la prova della sua libertà. Egli stesso deve osservare, giudicare, pesare, decidere, agire; lui solo dovrà esaminare i motivi, le possibilità di riuscita, il valore e il senso della sua azione. Ma né la purezza della motivazione né le condizioni favorevoli, né il valore, né la scelta giudiziosa dell'azione progettata potrà diventare la regola, dietro la quale trincerarsi o dalla quale possa essere giustificato e assolto. Altrimenti non sarebbe più realmente libero."

"La struttura della vita responsabile è determinata da due fattori: dal vincolo con l'uomo e con Dio, e dalla libertà della vita personale.  Quel vincolo dà origine alla libertà della vita del singolo.  Non esiste responsabilità al di fuori di quel vincolo e di quella libertà.  La vita che quel vincolo ha reso altruistica e disinteressata è l'unica veramente libera di esplicarsi e di agire in modo personale.  Il vincolo assume la forma di una sostituzione a favore del prossimo e di un atteggiamento conforme alla realtà, mentre la libertà si esprime nell'autocritica della vita e dell'azione e nel rischio della decisione concreta."

"Responsabilità e libertà sono concetti correlativi. La responsabilità presuppone oggettivamente -- non cronologicamente -- la libertà, così come la libertà non può sussistere se non nella responsabilità. La responsabilità è la libertà dell'uomo data solo nel legame con Dio e con il prossimo."

"E' infinitamente più facile soffrire ubbidendo ad un ordine dato da un uomo, che nella libertà dell'azione responsabile personale.
E' infinitamente più facile soffrire comunitariamente che in solitudine.
E' infinitamente più facile soffrire pubblicamente e ricevendone onore, che appartati e nella vergogna.
E' infinitamente più facile soffrire nel corpo che nello spirito.
Cristo ha sofferto nella libertà, nella solitudine, appartato e nella vergogna, nel corpo e nello spirito, e da allora molti cristiani con lui."

Dietrich Bonhoeffer (Breslavia, 4 febbraio 1906 – campo di concentramento di Flossenbürg, 9 aprile 1945) teologo luterano tedesco, protagonista della resistenza al Nazismo.


26/09/15

"Libertà" di Jonathan Franzen, il grande romanzo americano (Recensione).



Ho nutrito per anni un pregiudizio nei confronti di Jonathan Franzen.

Troppo successo, troppo rumore, troppo fenomeno. In genere diffido a priori.  Ci sono arrivato quindi dopo parecchio tempo e a partire da questo Libertà, il suo quarto romanzo, pubblicato nel 2011, a dieci anni di distanza da Le Correzioni, che nel 2001 avevano dato a Franzen il National Book Award e la notorietà internazionale. 

Ma già dopo poche pagine, ho dovuto ricredermi. 

Libertà è un grande romanzo. 

Anzi, devo dire, dopo molti molti anni, ho ritrovato l'impressione di leggere un Grande Romanzo Americano (Great American Novel), l'ambizione più o meno segreta di ogni romanziere nordamericano, che prima o poi incappa nella velleità di scrivere un ampio romanzo capace di racchiudere e sostenere lo spirito contemporaneo americano. 

In effetti forse è da Le avventure di Augie March, di Saul Bellow (1953), che non riscontravo da lettore un esito così ben riuscito. 

Soltanto che quello è un romanzo di formazione classico, mentre questo è un romanzo intessuto sulla storia di un matrimonio. 

Patty e Walter Berglund sono «i giovani pionieri di Ramsey Hill», nella cittadina di St. Paul, Minnesota. Vivono in una casa vittoriana che hanno acquistato per pochi soldi e impiegato dieci anni per ristruttura. Hanno due figli ventenni, Jessica e Joey; sono moderni e liberali, democratici e ecologisti.

Agli occhi dei vicini di casa, Patty e Walter sono una coppia solida.  Come molte coppie, invece nascondono vuoti e frustrazioni

La costruzione del romanzo è perfetta; perfetta la sua struttura.  Nelle prime 250 pagine - un capolavoro di equilibrio - Franzen affida la biografia di Patty alla stessa voce della protagonista.  Così apprendiamo i dubbi e le ferite di questa donna come tante, forte e debole allo stesso momento, del suo matrimonio sbagliato, delle circostanze fuorvianti che ve l'hanno condotta, la passione segreta per il miglior amico del marito - la rockstar pragmatica e impenitente Richard Katz - cui viene data libera espressione nel momento più delicato della vicenda. 

Nelle parti successive -  dedicate a Joey (il figlio viziato e intraprendente della coppia, il suo strambo matrimonio con la vicina di casa Connie, la passione per la bella e viziata Jenna) e a Walter (la sua dedizione alla causa ecologista per la salvaguardia di un piccolo uccello migratore, la sua passione per Lalitha, una giovane assistente indiana innamorata di lui) la vicenda si compone con le diverse voci e i diversi tempi di un quartetto d'archi ben assemblato. Ciascuna voce passa la voce alla successiva. E le trame non si confondono, ma formano un tessuto dal disegno lucido e preciso. 

Vargas LLosa diceva recentemente che due sono essenzialmente i presupposti per scrivere un grande romanzo: la scelta della voce narrante (chi è che parla al lettore) e la scelta dei tempi, del tempo dell'azione. 

Franzen vince entrambe le sfide: sceglie una voce polifonica, ovvero composta di diverse voci, assoggettate al progetto comune; sceglie un presente e un 'a ritroso' che dialogano per tutto il corposo romanzo, lasciando ganci aperti alla fine delle parti, suscitando il coinvolgimento sempre diretto del lettore. 

La felicità del racconto è strutturalmente legata al fine che si persegue: quello di una lunga meditazione sul matrimonio, sulla relazione sentimentale, e sulla libertà individuale.  

Tutti i personaggi di Libertà sono alle prese con la ricerca affannosa di una libertà individuale, e devono fare i conti  con gli impedimenti e gli intralci che si sono autoimposti con i loro errori. 

L'imponderabile scivola nelle vite già fortemente compromesse dalla catena delle ferite/risposte, dalle incapacità individuali, dalla confusione di una apparente e sostanziale mancanza di senso generale. 

L'ipocrisia, il dolore, la trasandatezza, l'insano masochismo, la voglia di sfidare i propri limiti, l'intemperanza, l'impazienza. la paura, la sofferenza, la gioia improvvisa, la sproporzione tra i demeriti e i meriti, la passione vissuta come via di fuga: questi sono i veri protagonisti di Libertà

Specchio antropologico e simbolico della civiltà americana, arrivata ad un punto dove ogni desiderio individuale sembrerebbe esaudito o a portata di mano, tranne quello della felicità personale, che passa per forza di cose attraverso la consapevolezza (un conto eternamente rinviato, fino all'inevitabile). 

La scrittura di Franzen è limpida e circolare, come nella più classica delle lezioni tolstojane. i dialoghi sono sempre all'altezza, le trovate mai fini a se stesse. Il dolore è autentico, il disorientamento anche.  

Nelle vite di Patty e Walter è lecito sbirciare, entrare, lasciarsi perfino trascinare. Essendo difficile alla fine restare alla pura distanza dell'oggettivo punto di vista del lettore, visto che tutto questo ci riguarda da vicino, più di quanto forse vorremmo. 

Jonathan Franzen, Libertà, Einaudi 2014 Super ET pp. 656 € 14,00 Traduzione di Silvia Pareschi

Fabrizio Falconi (C) - riproduzione riservata


22/05/15

Cosa serve per essere maturi - Krishnamurti.






Per essere maturi, è assolutamente necessario che vi siano:

1. completa semplicità che si accompagni a umiltà, non nelle cose o per quel che riguarda il possesso, ma nella qualità dell'essere;

2. passione, con una intensità che non è puramente fisica;

3. bellezza; non solo sensibilità alla realtà esteriore, ma l'esser sensibili a quella bellezza che è al di là e al di sopra di pensiero e sentimento;

4. amore; la sua totalità, non quell'amore che conosce gelosia, attaccamento, dipendenza; non l'amore che viene diviso in carnale e divino. L'intera immensità dell'amore;

5. la mente capace di cercare, di penetrare senza motivo, senza scopo, nelle sue stesse sconfinate profondità; la mente che non ha barriere, ed è libera di vagare fuori del tempo-spazio.


12/03/15

Vele spiegate.



Tutto quello che appassiona, divora. 


Tutto quello che si innalza, conserva.  


Tutto quello che viene, rinnova.  

E' la cura dell'essere, queste nostre palpitazioni notturne che ritornano come onde accurate di un destino.  Non è avverso, non è propizio.  Bisogna aspettare, bisogna curare abbastanza. 
Quel che basta è quel che di compimento, già esiste.
Dargli forma, costruirgli intorno humus , spazio favorevole.
Dipende da noi. 
Dipende dall'essere con, non dallo star male senza. 
Uscire dai percorsi mentali, vivere e respirare, sorridere all'umile vita, rendersi conto e rendere conto che tutto è nato da un dono. 
Ogni responsabilità, ogni frutto, ogni libertà. 
Senza dono, nessuna libertà esiste. 
Essere capaci, dunque, di donare. 
Sentirlo non come puro atto di volontà, ma come gesto immane del cuore. 

Non si può spiegare: da lì, partire, come una nave a vele spiegate, dentro il vento che soffia, nonostante. 


Fabrizio Falconi - (C) riproduzione riservata 2015.

11/12/14

Eccoci, soli nel mondo (ce l'abbiamo fatta, io e te).





Il vento è leggero e freddo.

La neve ti spolvera il viso. Ce l'abbiamo fatta, io e te.  Eccoci, soli nel mondo.
Non avremmo del resto, bisogno di nient'altro adesso.

Il sole è sceso rapido e silenzioso, teatrale ci ha invitato a rallentare ogni gesto.  Tutto sembrava così difficile.  La montagna non sembrava aggirabile. Il valico era impervio. Il ghiaccio crudele.

Ce l'abbiamo fatta, io e te.
Eccoci soli nel mondo.

La fatica di esserci arrivati sarà ripagata da una lunga veglia friabile, fatta dai tuoi gesti e dai miei, al lume delle candele.  Sussurreranno adesso le nostre voci, rimarrà flebile il respiro, sospeso, e poi sarà libero, e per sempre come questa nostra doppia anima che s'era spersa per il mondo senza un motivo e ora è riunita nella perfezione del cerchio.

Liberi come siamo, come ogni cosa deve essere.

Liberi d'essere uno, per sempre. liberi di trovarci ogni volta.  La mia cura silenziosa, il tuo sorriso lento e pieno, senza ombre.

Le ombre giocano con noi, tutto il cielo diventa un immenso mare di delizie.  Quello che era stato promesso, esiste. Quello che ci eravamo promessi, esiste.


Fabrizio Falconi

24/03/12

L'orrore di Tolosa e Dostoevskij.






L'orrore dei fatti di Tolosa  e del killer Mohamed Mera che ha ucciso a freddo 7 persone, tra cui 3 bambini, ripropone ancora una volta le eterne domande sul male umano.  Di dove venga questa brutalità, questo orrore, questa mancanza di qualsiasi senso di pietà. 

Nessuno, meglio di Fedor Dostoevskij (1821 -1881), ha messo a nudo il cuore umano. Dostoevskij è un filosofo, prima che uno scrittore. In Russia lo sanno, e lo studiano come un filosofo.

Fedor Dostoevskij scrive ‘Ricordi dal sottosuolo nel 1864. Freud ha otto anni. Eppure, quel “sottosuolo” non è altro che l’inconscio. Dostoevskij lo scopre molto prima di Freud, lo descrive così bene, che se oggi si rimette mano a quel libretto, si resta senza parole. 

Dostoevskij scrive I Demoni nel 1871 e I Fratelli Karamazov nel 1879. Nietzsche completerà Così parlò Zarathustra e Al di là del Bene e del Male alcuni anni più tardi nel 1885 e nel 1886. Eppure in quei due romanzi di Dostoevskij c’è già tutta la filosofia del nichilismo ( si pensi al personaggio di Ivan, nei Karamazov). 

Cosa è il ‘sottosuolo’ ? E’, secondo D. , la sede di quel ‘male’ che avvelena la nostra vita, e ci tarpa le ali. Un male che non è sempre ‘male’, ma che noi percepiamo come ‘male’. 

Ma che cosa è il male ? 


- Il male, secondo Dostoevskij non è in principio una realtà sostanziale (in senso manicheo). Ma non è neppure solo una «privazione del bene», ossia la scelta di un bene inferiore in luogo di un bene superiore (come voleva Agostino). Il male nasce nell’animo dell’uomo: è una volizione negativa, che, proprio respingendo il bene superiore, si impone come una forza distruttiva che produce il male nella sua reale dimensione.

- Secondo Dostoevskij la libertà consiste nel riconoscimento e nella volizione del Principio supremo dell’Essere e del Bene, oppure nel rifiuto di esso, con tutto ciò che ne consegue. E quindi è una forza che si distingue dal bene e dal male, i quali si realizzano, in quanto tali, proprio in conseguenza della libertà. Dostoevskij è giunto alla fede passando attraverso il nichilismo, e indagando la autodistruzione di esso.

- La fede presuppone il dubbio, ed è vera fede solamente se è un continuo e dinamico superamento del dubbio stesso. In risposta ai critici che gli rimproveravano la sua fede in Cristo, diceva: «In fatto di dubbio nessuno mi vince. Non è come un fanciullo che io professo Cristo. Il mio osanna è passato attraverso un crogiolo di dubbi». E in una lettera del 1854 esprimeva la forza veramente dirompente della sua fede: «Arrivo a dire che se qualcuno mi dimostrasse che Cristo è fuori dalla verità e se fosse effettivamente vero che la verità non è in Cristo, ebbene io preferirei restare con Cristo piuttosto che con la verità». 

In questi tre passi – evidenziati con rara chiarezza in un recente bellissimoarticolo di Giovanni Reale, sul Corriere – c’è tutta l’essenza dell’esperienza di Dostoevskij. Che ci riguarda tutti da vicino. 
Perché l’Uomo, ogni uomo, è sempre e ancora a questo punto. E con questi punti che deve fare – ancora e sempre – i conti, nella propria vita. 

Se ha interesse, almeno, a cercare un senso. E si rifiuta di vivere, alla stregua di un animale, seguendo semplicemente il corso dei propri istinti, del proprio"sottosuolo". 


03/08/11

RI-COMINCIARE. Da dove ? (12 cose da cui ripartire) – 7. FEDELTA'




Non dovrò sforzarmi per essere fedele.

La fedeltà come costrizione non ha senso. La fedeltà è una scelta libera. Perché libero sono io che vivo, e solo vivendo libero posso scegliere di essere fedele.

Sarò soprattutto fedele ai ricordi. Non li lascerò appassire come germogli che nessuno ha curato. Senza questa prima fedeltà, non sarò in grado nemmeno di riconoscermi e di sapere chi sono.

Fedele a ciò che gli altri hanno fatto di me, con l’istinto umano dell’amore e della crescita. Non li dimenticherò, li porterò in ogni giorno in forme traslucide di pensiero, in ombre misteriose di gesti e di sapienza.

Sarò poi fedele a me stesso e a quel che ho scoperto di me. Ma sarò fedele anche ad ogni nuova scoperta. Non la tradirò, voltandomi, nascondendomi.

Soltanto così potrò crescere, sviluppare i miei rami, le mie foglie, radicarmi e protendermi verso l’alto: questa è la missione di ogni essere vivente.

Sarò fedele all’amore. Non penserò di possederlo, non penserò di vantarlo: sarò semplicemente fedele nella cura.

Sarò fedele alla mia anima. La ascolterò, la starò a sentire, la chiamerò, mi risponderà, parleremo. Anche quando sarà difficile. Questo sarà, in fin dei conti, vivere.

Credo in te, anima mia, scriveva Walt Whitman, l’altro che io sono non deve umiliarsi di fronte a te, e tu non devi umiliarti di fronte a lui.

Fabrizio Falconi

19/04/10

Susanna Tamaro: Il femminismo non ha liberato le donne. Le ragazze oggi meno libere di 40 anni fa.


vi propongo l'articolo pubblicato ieri, domenica 18 aprile 2010 da Susanna Tamaro su Il Corriere della Sera.

Il femminismo non ha liberato le donne
Tutti i messaggi si concentrano sul corpo: siamo passati dall’angelo del focolare alla mistica della seduzione

Appartengo alla generazione che ha combattuto, negli anni della prima giovinezza, la battaglia per la libertà sessuale e per la legalizzazione dell’aborto. La generazione che nei tè pomeridiani, tra un effluvio di patchouli e una canna, imparava il metodo Karman, cioè come procurarsi un aborto domestico con la complicità di un gruppo di amiche. Quella generazione che organizzava dei voli collettivi a Londra per accompagnare ad abortire donne in uno stato così avanzato di gravidanza da sfiorare il parto prematuro. È difficile, per chi non li ha vissuti, capire l’eccitazione, l’esaltazione, la frenesia di quegli anni. La sensazione era quella di trovarsi sulla prua di una nave e guardare un orizzonte nuovo, aperto, illuminato dal sole di un progresso foriero di ogni felicità. Alle spalle avevamo l’oscurità, i tempi bui della repressione, della donna oggetto manipolata dai maschi e dai loro desideri, oppressa dal potere della Chiesa che, secondo gli slogan dell’epoca, vedeva in lei soltanto un docile strumento di riproduzione. Erano gli anni Settanta.

Personalmente, non sono mai stata un’attivista, ma lo erano le mie amiche più care e, per quanto capissi le loro ragioni, non posso negare di essere stata sempre profondamente turbata da questa pratica che, in quegli anni, si era trasformata in una sorta di moderno contraccettivo. Mi colpiva, in qualche modo, la leggerezza con cui tutto ciò avveniva, non perché fossi credente — allora non lo ero — né per qualche forma di moralismo imposto dall’alto, ma semplicemente perché mi sembrava che il manifestarsi della vita fosse un fatto così straordinariamente complesso e misterioso da meritare, come minimo, un po’ di timore e di rispetto. Come sono cambiate le cose in questi quarant’anni? Ho l’impressione che anche adesso il discorso sulla vita sia rimasto confinato tra due barriere ideologiche contrapposte. La difesa della vita sembra essere appannaggio, oggi come allora, solo della Chiesa, dei vescovi, di quella parte considerata più reazionaria e retriva della società, che continua a pretendere di influenzare la libera scelta dei cittadini. Chi è per il progresso, invece, pur riconoscendo la drammaticità dell’evento, non può che agire in contrapposizione a queste continue ingerenze oscurantiste. Naturalmente, un Paese civile deve avere una legge sull’aborto, ma questa necessaria tutela delle donne in un momento di fragilità non è mai una vittoria per nessuno. I dati sull’interruzione volontaria di gravidanza ci dicono che le principali categorie che si rivolgono agli ospedali sono le donne straniere, le adolescenti e le giovani. Le ragioni delle donne straniere sono purtroppo semplici da capire, si tratta di precarietà, di paura, di incertezza—ragioni che spingono spesso ormai anche madri di famiglia italiane a rinunciare a un figlio, ragioni a cui una buona politica in difesa della vita potrebbe naturalmente ovviare.
Ma le ragazze italiane? Queste figlie, e anche nipoti delle femministe, come mai si trovano in queste condizioni? Sono ragazze nate negli anni 90, ragazze cresciute in un mondo permissivo, a cui certo non sono mancate le possibilità di informarsi. Possibile che non sappiano come nascono i bambini? Possibile che non si siano accorte che i profilattici sono in vendita ovunque, perfino nei distributori automatici notturni? Per quale ragione accettano rapporti non protetti? Si rendono conto della straordinaria ferita cui vanno incontro o forse pensano che, in fondo, l’aborto non sia che un mezzo anticoncezionale come un altro? Se hai fortuna, ti va tutto bene, se hai sfortuna, te ne sbarazzi, pazienza. Non sarà che una seccatura in più. Qualcuno ha spiegato loro che cos’è la vita, il rispetto per il loro corpo? Qualcuno ha mai detto loro che si può anche dire di no, che la felicità non passa necessariamente attraverso tutti i rapporti sessuali possibili? Chi conosce il mondo degli adolescenti di oggi sa che la promiscuità è una realtà piuttosto diffusa. Ci si piace, si passa la notte insieme, tra una settimana forse ci piacerà qualcun altro. I corpi sono interscambiabili, così come i piaceri. Come da bambine hanno accumulato sempre nuovi modelli di Barbie, così accumulano, spinte dal vuoto che le circonda, partner sempre diversi. Naturalmente non tutte le ragazze sono così, per fortuna, ma non si può negare che questo sia un fenomeno in costante crescita.

Sono più felici, mi chiedo, sono più libere le ragazze di adesso rispetto a quarant’anni fa? Non mi pare. Le grandi battaglie per la liberazione femminile sembrano purtroppo aver portato le donne ad essere soltanto oggetti in modo diverso. Non occorre essere sociologi né fini pensatori per accorgersi che ai giorni nostri tutti i messaggi rivolti alle bambine si concentrano esclusivamente sul loro corpo, sul modo di offrirsi agli altri. Si vedono bambine di cinque anni vestite come cocotte e già a otto anni le ragazzine vivono in uno stato di semi anoressia, terrorizzate di mangiare qualsiasi cosa in grado di attentare alla loro linea. Bisogna essere magre, coscienti che la cosa che abbiamo da offrire, quella che ci renderà felici o infelici, è solo il nostro corpo. Il fiorire della chirurgia plastica non è che una tristissima conferma di questa realtà. Pare che molte ragazze, per i loro diciotto anni, chiedano dei ritocchi estetici in regalo. Un seno un po’ più voluminoso, un naso meno prominente, labbra più sensuali, orecchie meno a vela. Il risultato di questa chirurgia di massa è già sotto ai nostri occhi: siamo circondate da Barbie perfette, tutte uguali, tutte felicemente soddisfatte di questa uguaglianza, tutte apparentemente disponibili ai desideri maschili. Sembra che nessuno abbia mai detto a queste adolescenti che la cosa più importante non è visibile agli occhi e che l’amore non nasce dalle misure del corpo ma da qualcosa di inesprimibile che appartiene soprattutto allo sguardo.

Siamo passati così dalla falsa immagine della donna come angelo del focolare, che si realizza soltanto nella maternità, alla mistica della promiscuità, che spinge le ragazze a credere che la seduzione e l’offerta del proprio corpo siano l’unica via per la realizzazione. Più fai sesso, più sei in gamba, più sei ammirata dal gruppo. Nella latitanza della famiglia, della chiesa, della scuola, la realtà educativa è dominata dai media e i media hanno una sola legge. Omologare. Ma questo lato apparentemente così comprensibile, così frivolo — voler essere carine o anche voler mitigare i segni del tempo — che cosa nasconde? Il corpo è l’espressione della nostra unicità ed è la storia delle generazioni che ci hanno preceduti. Quel naso così importante, quei denti storti vengono da un bisnonno, da una trisavola, persone che avevano un’origine, una storia e che, con la loro origine e la loro storia, hanno contribuito a costruire la nostra. Rendere anonimo il volto vuol dire cancellare l’idea che l’essere umano è una creatura che si esprime nel tempo e che il senso della vita è essere consapevoli di questo. La persona è l’unicità del volto. L’omologazione imposta dalla società consumista—e purtroppo sempre più volgarmente maschilista — ha cancellato il patto tra le generazioni, quel legame che da sempre ha permesso alla società umana di definirsi tale. Noi siamo la somma di tutti i nostri antenati ma siamo, al tempo stesso, qualcosa di straordinariamente nuovo e irripetibile. Cancellare il volto vuol dire cancellare la memoria, e cancellare la memoria, vuol dire cancellare la complessità dell’essere umano. Consumare i corpi, umiliare la forza creativa della vita per superficialità e inesperienza, vuol dire essere estranei dall’idea dell’esistenza come percorso, vuol dire vivere in un eterno presente, costantemente intrattenuti, in balia dei propri capricci e degli altrui desideri. Senza il senso del tempo non abbiamo né passato né futuro, l’unico orizzonte che si pone davanti ai nostri occhi è quello di una specchio in cui ci riflettiamo infinite volte, come nei labirinti dei luna park. Procediamo senza senso da una parte, dall’altra, vedendo sempre e soltanto noi stessi, più magri, più grassi, più alti, più bassi. All’inizio quel girare in tondo ci fa ridere, poi col tempo, nasce l’angoscia. Dove sarà l’uscita, a chi chiedere aiuto? Battiamo su uno specchio e nessuno ci risponde. Siamo in mille, ma siamo sole.

Susanna Tamaro


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15/06/09

Coscienza e verità - un articolo di Lucetta Scaraffia.



Nell'Osservatore Romano di ieri, domenica 14 giugno 2009, è comparso in prima pagina questo bell'articolo di Lucetta Scaraffia, del quale consiglio caldamente la lettura a tutti, perchè contiene, in pillole, un'analisi del pensiero dell'attuale Pontefice; e sul quale come sempre, siamo pronti a discutere insieme.


Coscienza e verità di Lucetta Scaraffia

Non è certo una novità che il Papa intervenga per rendere più chiara ai fedeli la comprensione dei problemi del tempo in cui vivono, ma possiamo dire senza timore di esagerare che nessuno l'ha fatto con l'acutezza e la profondità di Benedetto XVI.

Al punto che i suoi scritti dedicati alla lettura critica del presente sono ormai considerati dei classici che possono - e dovrebbero - interessare quanti vogliano capire meglio l'epoca in cui vivono, e non solo i cattolici.

Proprio per questo sono particolarmente illuminanti i saggi raccolti in un libro da poco pubblicato in Italia (Joseph Ratzinger, Benedetto XVI, L'elogio della coscienza. La Verità interroga il cuore, Siena, Cantagalli, 2009, pagine 175, euro 13,50).

Con il consueto stile limpido e semplice, di quella semplicità che raggiunge solo il pensiero sedimentato e profondo, l'autore vi affronta i principali problemi teorici del nostro tempo, denunciandone i limiti e le manipolazioni, e proponendo una risposta chiara, tratta dal tesoro della tradizione cristiana.

Tutti gli scritti ruotano intorno a due questioni intimamente legate: la coscienza e la verità, entrambe cancellate dalla cultura contemporanea, che le sostituisce con la soggettività e il relativismo, pensando di garantire in questo modo la libertà individuale, unico vero feticcio moderno.

Nel primo saggio, L'elogio della coscienza, viene chiarito un tema complesso e mistificato, quello cioè del ruolo della coscienza. In una cultura che tende a contrapporre una "morale della coscienza" a una "morale dell'autorità", slegando il problema della coscienza da quello della verità, l'unica garanzia di libertà appare essere la giustificazione della soggettività, mentre l'autorità sembra "restringere, minacciare o addirittura negare tale libertà".

Qui tocchiamo il punto veramente critico della modernità: "L'idea della verità è stata nella pratica eliminata e sostituita con quella di progresso" che però, in apparenza esaltato, viene invece privato di ogni direzione. In un mondo senza punti fissi di riferimento, senza verità, non ci sono più direzioni.
La rinuncia ad ammettere che, per l'essere umano, sia possibile conoscere la verità conduce al disinteresse per i contenuti, per dare la preminenza alla tecnica, alla formalità. Un esempio chiaro in questo senso è quello dell'arte: oggi "ciò che l'opera esprime è del tutto indifferente: l'unico criterio è la sua esecuzione tecnico-formale".
Vivendo in una società che influenza e condiziona gli individui, è difficile sentire quella che veniva considerata "la voce della coscienza", cioè "la presenza percepibile ed imperiosa della voce della verità all'interno del soggetto stesso".

Anche se la via alla verità e al bene è stata abbandonata perché ardua, scomoda, considerata troppo difficile da seguire, non per questo dobbiamo rinunciarvi: "dissolveremmo il cristianesimo in un moralismo se non fosse chiaro un annuncio che supera il nostro proprio fare".

In queste condizioni, la stessa verità del bene diventa inattingibile, perché l'unico riferimento per ciascuno è ciò che egli può da solo concepire come bene, rinunciando così a quel minimo di diritti oggettivamente fondati, non accordati tramite convenzioni sociali, sui quali soli si può fondare l'esistenza di ogni comunità politica.

In sostanza, dove Dio scompare, "scompare anche la dignità assoluta della persona umana", e la dignità di ognuno non viene più a dipendere dal solo fatto di esistere, per essere stato voluto e creato da Dio.

Ecco perché "la radice ultima dell'odio e di tutti gli attacchi contro la vita umana è la perdita di Dio".

Benedetto XVI rivela una delle sue preoccupazioni principali, che ha varie volte ripetuta: il timore che la nozione moderna di democrazia non sappia emanciparsi dall'opzione relativista, in un mondo in cui il relativismo appare come l'unica garanzia della libertà.

Mentre il Papa sa bene e ripete senza sosta che "un fondamento di verità - di verità in senso morale - appare irrinunciabile per la stessa sopravvivenza della democrazia". E non dobbiamo dimenticare che, di fatto, "tutti gli stati hanno attinto le evidenze morali razionali - permettendo loro di dispiegare i propri effetti - dalle tradizioni religiose ad essi preesistenti".

Di frequente Benedetto XVI ritorna sul tema della ricerca della verità: "Se Dio è la verità, se la verità è il vero "sacro", la rinuncia alla verità diventa una fuga da Dio".

Persino quando avviene all'interno di una confessione religiosa perché - denuncia il Papa - esiste anche un "positivismo fideista" che "ha paura di perdere Dio nell'esporsi alla verità delle creature".

La verità è il presupposto fondamentale di ogni morale, ma se invece il criterio dell'utilità o del risultato, sostenuto da correnti di teoria politica affermate, prende il posto della verità, il mondo si frantuma in tante parzialità, perché l'utilità dipende sempre dal punto di vista del soggetto che agisce.

Cosa significa allora fare il teologo, in questa situazione culturale? E come si può pensare una nuova evangelizzazione? A queste domande rispondono in modo inedito ed esauriente gli ultimi saggi di un volume che si rivela fondamentale per comprendere il mondo di oggi, e per vivervi da cristiano. Peccato che l'editore a cui si deve l'ammirevole iniziativa di avere raccolto questi testi li abbia pubblicati senza precisare quando sono stati scritti, se dal cardinale Ratzinger o dal Papa. Come se per il lettore questa precisazione fosse irrilevante.

Fonte: Osservatore Romano

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