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21/10/16

Che cosa è la libertà ? (Bonhoeffer)



"Colui che è responsabile agisce nella libertà della sua persona, senza mettersi al riparo dei suoi simili, delle circostanze o di certi principi, ma tenendo conto di tutte le circostanze di carattere umano e ambientale e delle considerazioni di principio. 

Il fatto che nulla lo può difendere, che non può scaricarsi se non sui suoi atti e su se stesso, è la prova della sua libertà. Egli stesso deve osservare, giudicare, pesare, decidere, agire; lui solo dovrà esaminare i motivi, le possibilità di riuscita, il valore e il senso della sua azione. Ma né la purezza della motivazione né le condizioni favorevoli, né il valore, né la scelta giudiziosa dell'azione progettata potrà diventare la regola, dietro la quale trincerarsi o dalla quale possa essere giustificato e assolto. Altrimenti non sarebbe più realmente libero."

"La struttura della vita responsabile è determinata da due fattori: dal vincolo con l'uomo e con Dio, e dalla libertà della vita personale.  Quel vincolo dà origine alla libertà della vita del singolo.  Non esiste responsabilità al di fuori di quel vincolo e di quella libertà.  La vita che quel vincolo ha reso altruistica e disinteressata è l'unica veramente libera di esplicarsi e di agire in modo personale.  Il vincolo assume la forma di una sostituzione a favore del prossimo e di un atteggiamento conforme alla realtà, mentre la libertà si esprime nell'autocritica della vita e dell'azione e nel rischio della decisione concreta."

"Responsabilità e libertà sono concetti correlativi. La responsabilità presuppone oggettivamente -- non cronologicamente -- la libertà, così come la libertà non può sussistere se non nella responsabilità. La responsabilità è la libertà dell'uomo data solo nel legame con Dio e con il prossimo."

"E' infinitamente più facile soffrire ubbidendo ad un ordine dato da un uomo, che nella libertà dell'azione responsabile personale.
E' infinitamente più facile soffrire comunitariamente che in solitudine.
E' infinitamente più facile soffrire pubblicamente e ricevendone onore, che appartati e nella vergogna.
E' infinitamente più facile soffrire nel corpo che nello spirito.
Cristo ha sofferto nella libertà, nella solitudine, appartato e nella vergogna, nel corpo e nello spirito, e da allora molti cristiani con lui."

Dietrich Bonhoeffer (Breslavia, 4 febbraio 1906 – campo di concentramento di Flossenbürg, 9 aprile 1945) teologo luterano tedesco, protagonista della resistenza al Nazismo.


05/10/15

Oltre la Mente - Il senso di colpa. Un veleno (solo a volte) necessario.




Il senso di colpa è una forma della mente umana e una sua caratteristica principale. 

Gli animali non provano colpa. La colpa è legata alla nascita della coscienza.  Si potrebbe anzi dire che l'uomo si è differenziato dal resto della creazione naturale quando ha avvertito il senso di colpa per le proprie azioni (come è esplicato in molti racconti fondativi della religione, come la cacciata dall'Eden nel cristianesimo/ebraismo, per la colpa di aver mangiato il frutto proibito, quindi di aver trasgredito all'ordine divino). 

Il senso di colpa è un meccanismo naturale dunque per l'umano.  Colui che non prova mai colpa per il proprio operato, infatti, potrebbe definirsi non-umano o dis-umano. 

Ma c'è un ordine in cui il senso di colpa può diventare o diventa a tutti gli effetti un veleno per la nostra vita. 

Il senso di colpa è un sistema di allarme della coscienza.  Hemingway, semplificando nella sua elegante stringatezza, affermava che egli aveva un metodo infallibile per stabilire la morale dei suoi atti: come si sentiva dopo aver commesso una certa azione. Se si sentiva bene, l'azione era giusta, se si sentiva male (senso di colpa), era sbagliata. 

Certamente un metodo siffatto non può essere garanzia di un metodo universale. 

Molto spesso infatti, il senso di colpa ha a che fare molto di più con noi stessi che con la natura dell'atto che compiamo. 

Sensi di colpa di ogni tipo (giustificati e non) sono instillati infatti in noi sin dai primi o primissimi anni di vita.  Vi sono anzi non rari casi nei quali un intera sistema educativo - di una persona - è stato fondato sui sensi di colpa. 

Vi sono persone nelle quali questo senso è stato inoculato costantemente come un veleno. E da adulti, queste persone non sono più in grado di dire se il frutto delle loro azioni è la causa di ciò che vogliono veramente o di ciò che temono per evitare un senso di colpa divorante. 

E che dunque per riprendere in mano la loro vita hanno bisogno di depurarsi, di liberarsi del fardello che il senso di colpa fa gravare sulla loro vita, paralizzandole.

Vi sono anche persone che gratificate da questa liberazione, giungono al punto di rifuggire, per contrasto, qualunque senso di colpa.  E credono che la chiave per la felicità - ahimé grandemente illusoria - sia sostanzialmente l'infischiarsene della conseguenza dei propri atti. 

Il senso di colpa è, come ogni forma della mente, necessario. Ma è necessario solo se assolve alla sua funzione: quella di limite del libero arbitrio

Il senso del limite è connaturale alla mente.  Quasi subito la mente del bambino si accorge della presenza di limiti, che regolano il suo possibile comportamento (si può forse rifiutare il cibo, ma non si può infilare un coltello nella mano della mamma). 

Questo è dunque il senso ultimo della vita: l'accettazione del limite.  Inteso non come prigione, ma come possibilità di sviluppo. 

Nessuna pianta può svilupparsi, crescendo in orizzontale, nell'ombra. 

Ogni forma di vita ha bisogno di spingersi verso l'alto, osservando i propri limiti. 

Il riconoscimento dei limiti permette dunque anche di scoprire quali sensi di colpa siano inutili e anzi dannosi alla propria crescita.  E quali invece siano le sentinelle del nostro operare. Se abbiamo sbagliato, e siamo in grado di riconoscerlo, ciò è dovuto alla presenza della forma del senso di colpa.  
Se siamo convinti di aver trovato la chiave della nostra vita, anche i sensi di colpa devono essere attentamente valutati (e smontati del loro abito formale - quello che fa paura) per quello che ci chiedono e per quello che esprimono.  Soltanto così l'anima può pienamente ritrovarsi. Solo una com-prensione delle proprie zone erronee garantisce una evoluzione verso la piena consapevolezza.


Fabrizio Falconi (C) - 2015 riproduzione riservata




24/03/12

L'orrore di Tolosa e Dostoevskij.






L'orrore dei fatti di Tolosa  e del killer Mohamed Mera che ha ucciso a freddo 7 persone, tra cui 3 bambini, ripropone ancora una volta le eterne domande sul male umano.  Di dove venga questa brutalità, questo orrore, questa mancanza di qualsiasi senso di pietà. 

Nessuno, meglio di Fedor Dostoevskij (1821 -1881), ha messo a nudo il cuore umano. Dostoevskij è un filosofo, prima che uno scrittore. In Russia lo sanno, e lo studiano come un filosofo.

Fedor Dostoevskij scrive ‘Ricordi dal sottosuolo nel 1864. Freud ha otto anni. Eppure, quel “sottosuolo” non è altro che l’inconscio. Dostoevskij lo scopre molto prima di Freud, lo descrive così bene, che se oggi si rimette mano a quel libretto, si resta senza parole. 

Dostoevskij scrive I Demoni nel 1871 e I Fratelli Karamazov nel 1879. Nietzsche completerà Così parlò Zarathustra e Al di là del Bene e del Male alcuni anni più tardi nel 1885 e nel 1886. Eppure in quei due romanzi di Dostoevskij c’è già tutta la filosofia del nichilismo ( si pensi al personaggio di Ivan, nei Karamazov). 

Cosa è il ‘sottosuolo’ ? E’, secondo D. , la sede di quel ‘male’ che avvelena la nostra vita, e ci tarpa le ali. Un male che non è sempre ‘male’, ma che noi percepiamo come ‘male’. 

Ma che cosa è il male ? 


- Il male, secondo Dostoevskij non è in principio una realtà sostanziale (in senso manicheo). Ma non è neppure solo una «privazione del bene», ossia la scelta di un bene inferiore in luogo di un bene superiore (come voleva Agostino). Il male nasce nell’animo dell’uomo: è una volizione negativa, che, proprio respingendo il bene superiore, si impone come una forza distruttiva che produce il male nella sua reale dimensione.

- Secondo Dostoevskij la libertà consiste nel riconoscimento e nella volizione del Principio supremo dell’Essere e del Bene, oppure nel rifiuto di esso, con tutto ciò che ne consegue. E quindi è una forza che si distingue dal bene e dal male, i quali si realizzano, in quanto tali, proprio in conseguenza della libertà. Dostoevskij è giunto alla fede passando attraverso il nichilismo, e indagando la autodistruzione di esso.

- La fede presuppone il dubbio, ed è vera fede solamente se è un continuo e dinamico superamento del dubbio stesso. In risposta ai critici che gli rimproveravano la sua fede in Cristo, diceva: «In fatto di dubbio nessuno mi vince. Non è come un fanciullo che io professo Cristo. Il mio osanna è passato attraverso un crogiolo di dubbi». E in una lettera del 1854 esprimeva la forza veramente dirompente della sua fede: «Arrivo a dire che se qualcuno mi dimostrasse che Cristo è fuori dalla verità e se fosse effettivamente vero che la verità non è in Cristo, ebbene io preferirei restare con Cristo piuttosto che con la verità». 

In questi tre passi – evidenziati con rara chiarezza in un recente bellissimoarticolo di Giovanni Reale, sul Corriere – c’è tutta l’essenza dell’esperienza di Dostoevskij. Che ci riguarda tutti da vicino. 
Perché l’Uomo, ogni uomo, è sempre e ancora a questo punto. E con questi punti che deve fare – ancora e sempre – i conti, nella propria vita. 

Se ha interesse, almeno, a cercare un senso. E si rifiuta di vivere, alla stregua di un animale, seguendo semplicemente il corso dei propri istinti, del proprio"sottosuolo". 


09/08/11

RI-COMINCIARE. Da dove ? (12 cose da cui ripartire) – 8. BENE E MALE.




Non resterò confuso, non mi farò trascinare dalla corrente mai.

Sarà questo uno dei punti fondamentali. Il flusso della corrente non permette di fermarsi e dentro la corrente, non al di fuori di essa, è molto facile smarrire se stessi. 

Non resterò eternamente confuso, non resterò a chiedermi chi sono. Non farò quello che fanno gli altri. 

Trascinato dal flusso della corrente sarà infatti inevitabile perdere ogni riferimento, pensare di non poter più distinguere ciò che è bene da ciò che è male. 

Ma nella essenza del mio essere umano io ritroverò sempre le ragioni della distinzione che permette di orientarsi. L’essenza del mio essere umano è il mio centro.

Ed è lo stesso centro che orientava il cammino dell’Uomo sui ghiacciai di Similaun, 5000 anni fa. E’ lo stesso centro a cui attinge una madre a cui nasce un figlio. Lo stesso centro a cui fa appello un vecchio nell’ora della morte.

Ad ogni latitudine, in ogni epoca.

Il grano e la gramigna non sono una invenzione, semplicemente esistono, e questo è il grande mistero della esistenza: la differenziazione. Che qualcuno chiama libero arbitrio.

So che ha a che fare con la conoscenza di me, con l’allontanamento o la vicinanza che saprò mantenere, dalla capacità che avrò di ascoltare il mio centro‎.

Come scrive Carl Gustav Jung, ci sforziamo di raggiungere il buono e il bello, ma al tempo stesso afferriamo anche il malvagio e il brutto, poiché nel pleroma essi formano un tutt'uno col buono e col bello. Se invece restiamo fedeli alla nostra essenza, cioè alla differenziazione, allora ci differenziamo dal buono e dal bello, e perciò anche dal malvagio e dal brutto, e non cadiamo nel pleroma, ossia nel nulla e nel dissolvimento.


Fabrizio Falconi