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15/10/19

Libro del Giorno: "Bugie e altri racconti morali" di J.M.Coetzee




Il nuovo libro di J.M. Coetzee appena pubblicato dai Supercoralli di Einaudi è una raccolta di sette racconti sette (alcuni consistenti di pochissime pagine), che si riduce a una novantina di pagine e rappresenta probabilmente un bottino piuttosto modesto (considerando anche il prezzo del volume, 15 euro) per i numerosi appassionati della letteratura del Premio Nobel sudafricano (ricevuto nel 2003). 

E però, c'è da dire subito, la qualità di Coetzee, la sua qualità di scrittura e la sua qualità morale (visto che egli stesso definisce nel titolo della raccolta questo appellativo per i sette racconti) è sempre altissima.  Anzi, il tono estremamente distillato di questi racconti, ha il pregio di rendere ancora più nitida, essenziale, la prosa di Coetzee. 

Di cosa parlano questi racconti ?

Una donna che va e torna dal lavoro in bicicletta, ogni giorno facendo la stessa strada, avverte tutta la ferocia del mondo nel ringhiare di un cane che puntuale la minaccia. Provata da questa quotidiana, ingiustificata esplosione di violenza decide di bussare alla porta dei padroni del cane: ma negli esseri umani troverà una violenza ancora piú profonda e impenetrabile di quella animale. Una madre e nonna, in cui i lettori di Coetzee riconosceranno Elizabeth Costello, decide nel giorno del suo sessantacinquesimo compleanno di accogliere figli e nipoti con un taglio alla moda e i capelli tinti di un biondo sgargiante. Poi ancora Elizabeth, qualche anno piú avanti, che vive ritirata in una casa nella campagna spagnola. Sola con i suoi gatti e l’amara consapevolezza che a regolare la vita non sia tanto l’amore quanto il dovere. E infine suo figlio, che la va a trovare per cercare di farle accettare la verità ultima, quella da cui, a un certo punto, non potrà piú nascondersi… 

Sette storie esemplari dunque, che hanno l’asciuttezza della parabola e l’intensità della rivelazione, J. M. Coetzee affronta tutti i temi della sua letteratura: il rapporto tra l’umano e l’animale, l’ipocrisia che cela l’ingiustizia, l’universale bisogno di perdono. 

Sono «racconti morali» perché non sono mai moralisti, e alla consolazione di una «morale della favola» oppongono sempre il turbamento del dubbio

14/03/17

"Scene di vita di provincia" di J.M.Coetzee, un grande Libro (Recensione).



Einaudi ha recentemente riunito in un solo volume, con il titolo complessivo di Scene di vita di provincia, le tre parti del racconto autobiografico di J.M.Coetzee, Premio Nobel per la Letteratura nel 2003, pubblicate in tre differenti volumi, pubblicati nel 2001, 2002 e 2010.  E nel corso delle 558 pagine c'è modo non soltanto di ricostruire porzioni della vicenda biografica del grande scrittore, ma soprattutto i nodi cruciali della sua ispirazione. 

Nel primo dei tre capitoli, Infanzia, Coetzee racconta - in terza persona - la vita di un ragazzino nel quartiere anonimo di una desolata provincia sudafricana, a centosessanta chilometri da Città del Capo, Worcester. Un ragazzino molto intelligente e chiuso, che cerca una via di fuga da un padre ordinario che non riesce a rispettare e da una madre che ama di amore viscerale ma che non gli dà certezze, dai riti di una scuola dove le regole non sono uguali per tutti, dai turbamenti di un'infanzia già minata nel suo carattere più sensibile.  dagli angusti orizzonti nazionalistici del Sudafrica nel secondo dopoguerra. 

Comincia qui, tra le esperienze famigliari, le fughe nel selvaggio Veld con la cuginetta preferita, la percezione di quel profondo senso di inadeguatezza nei confronti della vita, che è soprattutto un blocco relazionale, costruito intorno ad una intelligenza e ad una sensibilità troppo precoci. La difficoltà di costruirsi un'identità nella babele di etnie, lingue, religioni del Sudafrica a cavallo degli anni Quaranta e Cinquanta, al di là di ogni pregiudizio, è la sfida che il ragazzino accetta, con la condizione di pagarne il prezzo. 

Nella seconda parte, Gioventù Coetzee è già diventato poco più che ventenne e ha già cambiato vita e continente. Dopo la laurea ha scelto di abbandonare il Sudafrica, quel luogo violento e radicale che gli imprigiona l'anima e ha scelto la disinibita Londra, dove si parla l'inglese che la sua famiglia ha sempre parlato (pur essendo di origini olandesi), dove è possibile sentirsi vicini al cuore europeo dei poeti, i grandi poeti - Pound, Holderlin - e narratori - Ford Madox Ford - che hanno riempito l'immaginazione e i sogni dell'adolescente provinciale.    

A Londra, Coetzee  è ben lungi dal diventare un poeta o uno scrittore, però. Essendo un abile matematico, finisce a lavorare come programmatore presso l'IBM, un mestiere frustrante e solitario che finisce per isolarlo ancora di più, in una città dove non trova sostanzialmente né amici, né rapporti sentimentali stabili, ma anzi dove assapora l'amaro di fugaci sperimentazioni quasi sempre insoddisfacenti.  

Licenziatosi dall'IBM e indeciso tra il proseguire la vita bohémian negli ancora più stranianti Stati Uniti, o fare ritorno a casa (dove comunque sarà costretto a fare rotta più avanti, per la morte della madre), Coetzee cerca affannosamente la propria strada, senza riuscire a fare breccia dentro di sé, senza trovare una via ad una apertura più sincera e radicale del cuore. 

L'ultima parte, Tempo d'Estate, scritta dieci anni dopo le prime due e non nella stessa forma della terza persona come le altre due, Coetzee inventa un proprio ritratto post-mortem: immagina infatti che dopo la sua morte un ricercatore universitario, volendo approfondire aspetti della vita dello scrittore, scelga di intervistare cinque persone che lo hanno conosciuto: quattro donne e un uomo. 

Le cinque lunghe interviste ricostruiscono soprattutto il lato più umano di Coetzee, la sua fragilità emotiva e psicologica, la carenza di affettività, le difese strutturate dietro le quali lo scrittore ha protetto il suo nucleo più profondo. 

Ne escono opinioni crudeli, a volte crudelissime, come nel caso della ballerina brasiliana, conosciuta da Coetzee durante il suo ritorno in SudAfrica per prendersi cura del padre rimasto vedovo e malato, che sprezzantemente giudica lo scrittore un mezzo uomo, un uomo inutile. 

In altri casi i toni sono più vicini - come quelli usati dalla cugina, Margot - o più tranchant come quelli usati dalla insopportabile Julie, la psicologa che ha avuto Coetzee come amante per un lungo periodo.  

Durante quest'ultima parte il lettore è portato costantemente a interrogarsi sul contenuto di verità espresso da Coetzee in questo racconto volutamente frammentario: come in un complicato gioco di specchi, l'autore di Vergogna si nasconde dietro una sofisticata teoria di simulazioni. 

Cosa è vero, cosa è finzione ? Cosa è immaginazione dell'autore su se stesso, cosa denudamento baudelairiano ? 

L'intento forse è proprio questo: dimostrare che nel cuore profondo di ogni esistenza c'è un grande e piccolo mistero insondabile, che nessuno può esplorare, nemmeno chi lo ospita. Ciascuno vive e si guarda vivere in gioco di rifrazioni che comprende gli sguardi degli altri, i giudizi e le omissioni e le proprie ombre e debolezze che abitano i recessi meno illuminati, quelli più oscuri e difficili da decifrare. 

Tutto è parvenza, tutto è dolorosa sostanza. 

In fondo è anche per questo che è così difficile resistere alla tentazione di vivere. 

Fabrizio Falconi 


06/02/17

"C'è una profonda congruenza tra ragione e struttura dell'Universo." Una intervista a J.M.Coetzee (di Piergiorgio Odifreddi).


J.M.Coetzee

Ripropongo questa intervista realizzata da Piergiorgio Odifreddi a J.M. Coetzee nel 2004 a Mantova, una delle rarissime interviste rilasciate da colui che è considerato uno dei più grandi scrittori viventi.
Secondo Nadine Gordimer, premio Nobel per la letteratura nel 1991, John Coetzee è il più rappresentativo scrittore sudafricano vivente. Ma la connotazione geografica non è certamente l'aspetto più significativo delle opere del premio Nobel per la letteratura nel 2003: il quale, fra l'altro, dopo aver lavorato qualche anno in Inghilterra, e insegnato a lungo negli Stati Uniti, vive ora in Australia.

Le sue opere più profonde, infatti, sondano le dimensioni dell'angoscia in una serie di narrazioni strazianti che, spesso, mettono in scena in prima persona personaggi femminili. Dopo una serie di romanzi straordinari, come Terre al crepuscolo (1974), Deserto (1977), Aspettando i barbari (1980), La vita e il tempo di Michael K. (1983), Età di ferro (1990), Il maestro di Pietroburgo (1994) e Vergogna (1999), e i due racconti autobiografici Infanzia (1997) e Gioventù (2002), Coetzee ha recentemente inventato un nuovo genere: le conferenze-racconto di La vita degli animali (1999) e Elizabeth Costello (2003).

L'abbiamo incontrato l'11 settembre 2004 al Festival di Letteratura di Mantova, per parlare con lui dei suoi studi matematici e dei suoi esordi da informatico. 

Lei si è laureato sia in letteratura che in matematica: interessi contradditori o complementari? 
Interessi che non hanno interagito fruttuosamente fra loro. Guardando indietro, ora penso che avrei dovuto studiare filosofia, lingue moderne, o addirittura lingue classiche, invece che matematica, visto che poi ho comunque dovuto farlo in seguito. 


Che cosa l'attraeva di più, nella matematica? 
Agli inizi la teoria dei numeri. In seguito, la probabilità. 

Continua a interessarsene anche ora? 
No, non mi sono più aggiornato sugli sviluppi contemporanei. 

Lei è stato addirittura un programmatore informatico, per tre o quattro anni. 
Sí, in Inghilterra, prima di iniziare il dottorato in letteratura negli Stati Uniti. 

Cosa faceva? 
Dapprima ho lavorato in una ditta che accettava lavori di programmazione su commissione. Poi con un gruppo che faceva programmazione di sistemi. 

E le piaceva? 
Non posso dire che fosse un lavoro creativo, ma era coinvolgente: allo stesso modo in cui possono esserlo gli scacchi. C'erano periodi in cui lavoravo con intensa concentrazione, fino a sedici ore al giorno. Ora penso a quegli anni come persi: avrei potuto spendere quelle infuocate energie mentali su qualcosa di più importante che la programmazione. Tra l'altro, si trattava di programmi che comunque diventavano obsoleti in un paio d'anni, superati dai nuovi sviluppi dell'informatica. 

Che cosa le ha comunque lasciato questo suo background, nel suo lavoro di scrittore? 
Mi ha insegnato a concentrarmi. E mi ha abituato a completare per bene una costruzione in ogni dettaglio, non solo qui e là. 

In Gioventù lei dice che "la poesia è verità''. Come paragonerebbe la verità matematica a quella di un'opera d'arte? 
Gioventù è il racconto di un giovane: oggi non direi più niente di cosí romantico. Comunque, le verità matematiche sono analitiche, e già implicite negli assiomi: come poi accada che esse abbiano poteri descrittivi e predittivi sul mondo reale, è qualcosa che non posso dire di capire. Le verità della poesia, e più generale dell'arte, se ci sono, sono invece verità empiriche: più precisamente, sul modo in cui noi, come esseri animati, sperimentiamo il mondo. 

Gioventù tocca anche il problema delle relazioni tra pensiero intuitivo da un lato, e meccanico o formale dall'altro. Ci può essere creatività e bellezza anche in quest'ultimo? Penso, ad esempio, alle opere di Bach o Perec.
 
Non credo che si possa instaurare un valido paragone tra le forme di pensiero che occorrono in musica o in letteratura, anche quando sono di natura relativamente formale, come negli esempi che lei cita, e i processi di ragionamento "meccanico'', del tipo di quelli a cui obbedisce un programma di computer. Se paragoniamo un musicista creativo come Bach con uno relativamente non creativo come Telemann, la differenza che ci colpisce è proprio che Bach trascende sempre il formale, in modi assolutamente non prevedibili, mentre Telemann rimane in genere invischiato nel formalismo. 

In Gioventù lei solleva il problema se la logica sia un'invenzione umana, e in Elizabeth Costello fa lo stesso per la nozione di infinito e, più in generale, per la matematica. Logica e matematica possono essere considerate tipi di creazioni artistiche, come la letteratura e la musica? 
Non saprei cosa pensare, a questo proposito. Logica e matematica sono certamente creazioni della ragione umana, ma la storia della matematica mostra che ciò che al momento può essere visto come un atto di libera creazione, in seguito può avere applicazioni nel mondo reale. In altre parole, sembra esserci una profonda congruenza tra le facoltà della ragione e la struttura dell'universo. 

E questo cosa significa? 
Non lo so. A meno di postulare un creatore la cui essenza sia il logos

In Elizabeth Costello l'omonima protagonista dice che la sua professione è scrivere, non credere. E' veramente possibile realizzare costruzioni intellettuali senza possedere forti credenze? Non penso a una religione, ma a una visione del mondo o una metafisica. 
Ci sono almeno tanti tipi di scrittori quanti ce ne sono di matematici, se non di più. Naturalmente molti scrittori si basano su forti credenze, ma per altri la cosa più importante è essere ricettivi: si potrebbe usare qui la metafora dell'arpa eolica, le cui corde vibrano al vento. Questi scrittori credono di essere stati "dotati'' di una facoltà, che rischia di essere intralciata o impedita se essi permettono alle proprie vite di essere dominate da forti convinzioni intellettuali. 

In Che cos'è un classico lei discute musica e letteratura, ma non la matematica. Non è strano, visto che essa è in fondo il migliore esempio di qualcosa che parla attraverso i tempi e le nazioni? 
A parte una piccola minoranza di casi, le dimostrazioni dei teoremi matematici non parlano affatto attraverso i tempi: in questo senso, sono diverse non soltanto dai testi letterari o musicali, ma anche da quelli filosofici. Detto approssimativamente, non c'è niente che si possa chiamare "stile individuale'', in matematica: in ogni tempo, e in ogni campo, sembra esserci un approccio uniforme riguardo al tipo di domande che bisogna porre, e di risposte che bisogna dare. 

A me sembra che l'oggettività della matematica riguardi soltanto i risultati, che si scoprono, e non la soggettività delle loro dimostrazioni, che si inventano. Non solo Ramanujan, che lei cita in La vita degli animali, ma tutti i grandi matematici sembrano avere uno stile definito e riconoscibile. Basta ricordare l'episodio in cui Johann Bernoulli, vista la soluzione di un problema che Newton gli aveva mandato anonimamente, esclamò: "Riconosco il leone dalla zampata''. 
Allora forse devo ritrattare la mia precedente risposta. 

A proposito de La vita degli animali, Elizabeth Costello traccia una connessione fra il genocidio degli ebrei e degli animali. Cosa risponderebbe, a chi le obiettasse che Hitler era vegetariano? 
Che il fatto che una particolare persona sia o sia stata vegetariana, non ha nessuna importanza. 

E all'osservazione che il 90% dell'agricoltura mondiale è dedicata alla produzione di mangime per animali? 
Che dedicare cosí tanto del potenziale agricolo mondiale a produrre cibo per nutrire animali, affinchè i ricchi possano mangiare tanta carne quanto desiderano, è moralmente vergognoso. 

In La vita degli animali lei cita l'articolo di Nagel su "cosa significa essere un pipistrello'', e in Vergogna solleva la questione se un uomo possa mettersi nei panni di una donna. Quali sono i limiti dell'identificazione negli altri (animali, persone, alieni, macchine pensanti)? 
In parte non si può rispondere alla domanda: ad esempio, nel caso degli animali, coi quali non condividiamo un linguaggio. Per quanto riguarda uomini e donne, invece, ci sono scrittrici che, a mio parere, capiscono perfettamente l'esperienza maschile. E ho tutti i motivi di credere che ci siano scrittori che capiscono bene l'esperienza femminile ... 

Parlando di identificazione con gli altri, qual è il prezzo psicologico che uno scrittore deve pagare per inventare personaggi angosciati e angoscianti come quelli di Aspettando i barbariLa vita e il tempo di Michael K. o Vergogna? 
Nessun prezzo. 

A proposito di quei romanzi, come mai presentano uomini sulla cinquantina come avviati alla decadenza fisica? Mi sembra un po' prematuro, forse perchè io ho esattamente la loro età ... 
Quando ho scritto Aspettando i barbari ero sulla trentina, e quell'età mi sembrava lontana. Ma rimane il fatto che gli uomini sulla cinquantina non sono attraenti per le giovani donne che loro invece trovano cosí attraenti. 

Allora ho qualche motivo di credere che ci siano matematici che non capiscono bene l'esperienza femminile ...


Piergiorgio Odifreddi