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11/11/23

La questione ebraica: da cosa dipende il loro eccezionale talento (causa di discriminazione e odio razziale)? Martin Amis, Saul Bellow e Einstein


Martin Amis, nel suo meraviglioso La storia da dentro, che è anche in diversi aspetti, il suo testamento spirituale, riferisce in una nota nel capitolo su Saul Bellow che la percentuale di ebrei che ha vinto il Premio Nobel da quando è stato istituito, nel 1902 è più del 22%. Cioè più del 22% dei vincitori di un Nobel sono ebrei. Questo, se raffrontato alla percentuale della popolazione ebrea su scala mondiale - che dice lui è del 2% - è molto eloquente (e sorprendente).

Di questo chiede ragione a Bellow. Ma è un errore o una svista piuttosto grave e mi sorprende che Amis o uno dei suoi editors, inglesi o italiani, non se ne siano accorti: perché la percentuale della popolazione ebrea su quella mondiale non è del 2%, ma del 2 x 1000 (ovvero lo 0,2%, ovvero 14 milioni su circa 7 miliardi), il che rende il dato ancora più sorprendente.
Comunque, errore a parte, Bellow commenta questo dato citando Einstein, che nel 1938 rispose che questo fatto "non andava spiegato con il fatto che queste doti siano innate, perché così c'è il pericolo di cadere nell'antisemitismo."
E si capisce piuttosto bene perché Einstein, nel 1938, dica questo.
Einstein - e Bellow che lo riferisce - avanzano invece l'ipotesi che questa eccellenza dipenda dal fatto che "tutti i bambini ebrei sanno che per ottenere il plauso degli adulti, devono applicarsi, applicarsi nell'apprendimento e negli studi."
Questa cosa mi ha dato molto da pensare. Del resto questa eccellenza è stata ed è indubbiamente una delle cause scatenanti di un certo orrendo antisemitismo. Ma l'abitudine, la frequentazione, la familiarità con l'apprendimento e la conoscenza; e il desiderio del plauso dei propri genitori non è e non dovrebbe essere una esclusiva o una prerogativa degli ebrei. Insomma, da sola, mi pare che non basti a spiegare. La curiosità di studiare e capire il mondo dovrebbe riguardare tutti, sempre. E farebbe un gran bene a tutti e al mondo stesso.

Fabrizio Falconi - 2023

11/06/23

"Via dalla Pazza Folla" di Thomas Vinterberg, una convincente trasposizione da Thomas Hardy, con una splendida Carey Mulligan

Ancora una volta ho apprezzato la grande qualità e la versatilità del regista di "Festen", "Il sospetto", "Un altro giro" (vincitore lo scorso anno dell'Oscar come miglior film straniero).
Visibile a noleggio su Google Play e Amazon Prime Video a 3.99 euro, "Via dalla Pazza Folla" è un adattamento assai scrupoloso del romanzo di Hardy, e meno ingombrante di quello che fu realizzato da John Schlesinger nel 1967, con protagonisti mostri sacri come Julie Christie, Alan Bates, Terence Stamp, Peter Finch.
L'eterna storia di Bathsheba Everdene, bellissima e intelligente, forte, fragile e desiderosa di indipendenza, prima contadina e poi fittavola in una immaginaria contea inglese, contesa da tre uomini molto diversi - naturalmente lei si concede a quello meno raccomandabile - è uno dei classici studi di Hardy che rappresentano la sua concezione totalmente pessimista del mondo.
Il mondo nel quale la natura sa essere punitiva e ingiusta, ma gli esseri umani fanno di tutto per condannarsi all'infelicità.
Bathsheba è uno splendido ritratto femminile, cui Carey Mulligan concede corpo e anima, ed intensa espressività ad ogni sguardo o gesto (del resto la Mulligan è da tempo una delle migliori attrici sulla scena del cinema internazionale).
Il colosso Matthias Schoenaerts è un perfetto Gabriel Oak, il primo a dichiararsi, respinto, a Bathsheba all'inizio della storia, e colui che le resta fedele fino alla fine.
Michael Sheen è il ricco fittavolo William Boldwood, che incastrato da un poco innocente scherzo di Bathsheba ne finisce completamente soggiogato.
Tom Sturridge è invece il famoso sergente Troy del romanzo, scapestrato e fatuo, irresistibile, dannato.
Per sceneggiare un romanzo così complesso - 600 pagine - Vinterberg si è affidato a David Nicholls che ha operato scelte radicali e coraggiose: le prime 200 pagine del libro vengono infatti risolte nei primi 10 minuti del film, che si concentra, come è giusto, nella seconda metà della storia, dove accadono i fatti più rilevanti.
La bellissima fotografia, che ricostruisce meticolosamente gli esterni e gli interni della campagna inglese dell'Ottocento, è di Charlotte Bruus Christensen (danese come il regista), mentre le musiche sono dell'inglese Craig Armstrong, compositore molto amato anche nei circoli rock e jazz.
"Via dalla Pazza Folla" di Vinterberg è insomma un convincente (e pienamente soddisfacente per lo spettatore) adattamento di un grande classico della letteratura, che indaga con fredda e appassionata lucidità gli anfratti e le ombre delle personalità umane, la loro incompletezza, i loro desideri, la speranza di poter un giorno essere felici, perché finalmente consapevoli.

Fabrizio Falconi - 2023

15/05/23

"Via dalla Pazza Folla", lo straordinario romanzo di Thomas Hardy


Thomas Hardy viene giustamente considerato uno degli scrittori in assoluto più "pessimisti", uno dei più vicini alla visione schopenhaueriana della vita: sorta di condanna che tocca vivere, lottando tenacemente, ma senza speranza, contro una volontà superiore - quella delle forze naturali - che agiscono "nonostante" noi, oltre noi, in una specie di lotta impari e senza senso, nella quale si può soltanto soccombere.
Hardy, dal profondo della campagna in cui quasi per tutta la vita si rinchiuse - la sua biografia è una delle più povere di eventi, nella storia della letteratura - immaginò storie cupe e dolorose, ma anche estremamente vitali, ambientate in una regione immaginaria chiamata Wessex, che ha molte caratteristiche dei luoghi in cui effettivamente viveva.
484 pagine vanno via nello scorrere di capitoli titolati e in genere brevi, lungo i quali si dipana la vicenda di Bathsheba (le donne sono quasi sempre le protagoniste dei suoi romanzi), bella giovane e determinata, che da semplice contadina, si ritrova fittavola e proprietaria di un grande fondo.
Tre sono i corteggiatori di Bathsheba: il leale Gabriel Oak, il primo a farsi avanti, che ne diviene poi il fattore, l'uomo di fiducia; il fittavolo benestante e misantropo Boldwood, che perde la testa completamente per Bathsheba dopo che lei gli ha tirato un crudelissimo scherzo; e il belloccio Troy, sergente dell'esercito britannico, cinico e scapestrato, del quale è innamoratissima - e fidanzata - l'ingenua Fanny.
Naturalmente, tra i 3 candidati possibili, Bathsheba sceglierà quello che di gran lunga è il peggiore, cioè Troy, garantendosi così un'infelicità grandissima, costellata di delusioni, tradimenti, disillusioni ferocissime.
Nella prima parte del romanzo e anche fino a poco oltre, ci si diverte molto. Bathsheba è uno dei personaggi femminili più riusciti della letteratura dell'Ottocento. Hardy ne tratteggia la personalità in modo vivissimo, con tutte le sue irrisolte contraddizioni, inserendo questo carattere tipicamente femminile nell'ambiente naturale selvaggio della campagna, di cui Hardy è maestro di descrizione.
Nella seconda metà del romanzo, la storia si incupisce, diventa crudele con i suoi personaggi, soprattutto con Bathsheba - chiamata ad affrontare la nemesi inevitabile - ma anche con tutti gli altri.
Hardy però risparmia almeno il finale, che una volta tanto non si chiude nel baratro della tragedia ma spalanca proprio nelle ultime pagine un possibile lieto fine.
La caduta di Bathsheba e delle sue ambizioni è in fondo molto moderna. E moderni sono i suoi desideri, le fragilità, i conflitti nascosti dietro l'apparente imperturbabilità di un personaggio "forte".
L'immaginazione e la storia si sposano felicemente - come sempre in Hardy - con l'introspezione e lo studio dei caratteri psicologici.
Una lettura magnifica.

Fabrizio Falconi - 2023

04/06/22

* La bellissima e infelice Assia Wevill, poetessa, musa e amante di Ted Hughes, il cui destino si intrecciò al suo e a quello di Sylvia Plath.*



Assia Wevill era nata a Berlino nel 1927 da una famiglia di origine tedesca, russa ed ebrea.
Di bellezza straordinaria, mischiò il suo destino in maniera imprevedibile a quello di Ted Hughes, che all'epoca era il marito di Sylvia Plath. La poetessa americana aveva sposato Hughes nel 1956 e aveva avuto da lui due figli. Il matrimonio durò ben poco. Appena sette anni dopo, la Plath si tolse la vita, a soli trent'anni, infilando la testa nel forno del suo appartamento.
Sulla strada di un matrimonio già di per sé molto problematico, era infatti comparsa anche Assia.
Per sfuggire alla Shoah, Assia da bambina era emigrata a Tel Aviv, ma a sedici anni fuggì a Londra con un sergente della RAF, che divenne il suo primo marito. Il secondo marito era invece stato un intellettuale, professore alla London School of Economics, mentre il terzo, il poeta canadese David Wevill, di otto anni più giovane, l'aveva conosciuto quando lui era ancora studente a Cambridge.
Dal matrimonio, contratto nel 1960, non nacquero figli. David aprì ad Assia le porte dei circoli letterari di Londra, dove ella poté fare la conoscenza, tra gli altri, del poeta Nathaniel Tarn, che diventerà suo intimo confidente durante la frequentazione con Hughes, con cui intraprese una relazione.
Nel 1961 Ted Hughes e Sylvia Plath diedero in affitto il loro appartamento di Londra ad Assia e David e si stabilirono a North Tawton, nel Devon, in una casa chiamata Court Green.
Fu durante una visita agli Hughes, nel maggio 1962, che tra Assia e Ted scoccò la scintilla. Tramite un abbozzo di poesia, che rievoca quella visita, sappiamo che a fine serata Hughes era già succube del fascino della Wevill; il mattino dopo era innamorato.
Forse perché nella morale hughesiana la salvaguardia dell'istinto animale era un'azione etica, Ted si lanciò a capofitto in una nuova storia, e dal luglio di quell'anno, lasciata a Court Green una Plath a conoscenza di tutto e per questo distrutta, si trasferì a Londra, dove cominciò a frequentare Assia regolarmente, inaugurando una relazione di dominio pubblico, con David Wevill al corrente di loro ma per nulla intenzionato al divorzio. Al momento del suicidio di Sylvia, nel febbraio 1963, Assia era incinta di Ted, ma abortì poco dopo.
I primi mesi successivi alla disgrazia, che la videro a fianco del vedovo, le diedero la possibilità di leggere "de visu" gli scritti lasciati dalla Plath, che se la ipnotizzarono, la ferirono anche per una buona misura; la base di quell'ossessione nei confronti della poetessa morta, che in Assia si manifesterà in comportamenti emulatori e di invidia, fino all'ultima tragedia, ha origine in questo periodo.
Passata la tempesta, il 13 marzo 1965, Assia diede alla luce Alexandra Tatiana Elise, detta "Shura": anche se ricevette il cognome da David Wevill, il vero padre era Hughes, e verso la fine dell'anno Assia lasciò definitivamente il marito per Ted, con il quale non si sposò però mai.
Assia che si trovò a rivaleggiare dal punto di vista creativo con la Plath, sentiva che non avrebbe mai potuto prendere il suo posto nella considerazione artistica di Ted e cominciò a soffrirne. Inoltre, incapace di sopportare la disapprovazione di cui era oggetto a Court Green da parte dei genitori di Hughes, Assia traslocò a Clapham, Londra, con la figlia, nell'autunno 1967.
Fin dai primi mesi del 1969, Assia dimostrò i sintomi di "grave depressione" per i quali aveva cominciato a prendere psicofarmaci.
Il 23 marzo 1969, sola e depressa, decise di porre fine alla propria vita, trascinando con sé la figlioletta di quattro anni. Dopo una telefonata a Ted, durante la quale, ricorda lui, non si dissero nulla in più del solito, Assia somministrò del sonnifero alla figlia, ingerendone successivamente anche lei, aiutandosi con del Whisky; girato il rubinetto del gas si distese poi, su un materasso trasportato presso la stufa, abbracciando Shura.
A sei anni dalla morte della Plath, la tragedia per Hughes si ripeteva, con circostanze simili e ancora più gravi.

Fabrizio Falconi - 2022

06/09/21

Libro del Giorno: "Olivia" di Dorothy Strachey


E' un piccolo grande caso letterario, che bisognerebbe recuperare. Un breve romanzo di cento pagine, che in Italia è attualmente possibile trovare solo in una scarna edizione di Baldini Dalai. 

Eppure Olivia è un piccolo gioiello che non sfigura accanto a classici come La Principessa di Clèves di Madame de La Fayette e Morte a Venezia di Thomas Mann. 

Racconta della educazione sentimentale - e del conseguente amore proibito - che lega la giovane inglese Olivia, iscritta ad una prestigiosa scuola francese a una delle sue insegnanti e direttrice della scuola, Mademoiselle Julie.

Raramente in un romanzo accade di trovare così ben descritti le ingenue tempeste, i momenti di inaudita felicità e tetra disperazione, l'estasi e il tormento, tipici di ogni passione amorosa, che si scatenano nel cuore di una giovane, suo malgrado, mischiandosi alla scoperta della conoscenza della poesia e della letteratura, incarnandosi nella figura di una insegnante affascinante e per alcuni versi misteriosa. 

Nel 1949 all'epoca della sua pubblicazione - senza rivelare il nome dell'autrice -  grazie anche alla straordinaria nitidezza della prosa e delle sfumature che lasciano aperto per il lettore il gioco enigmatico del non detto e non risolto, questo breve racconto, diventò immediatamente un caso letterario.

In Inghilterra fu pubblicato col titolo misterioso di "Olivia by Olivia" e soltanto negli anni Ottanta fu restituito, grazie a una nuova edizione, alla sua autrice Dorothy Strachey. 

Apparve allora chiara la sua appartenenza alla cerchia di intellettuali noti sotto il nome di Circolo di Bloomsbury, di cui facevano parte Virginia Woolf, cui il libro è dedicato, e lo storico Lytton Strachey, fratello di Dorothy.

"Olivia" restò l'unico libro scritto da Dorothy Strachey e, come raramente accade nel caso di un'opera prima, si rivelò senza ombra di dubbio un capolavoro sui generis.

Dorothy Bussy era nata Strachey da una famiglia aristocratica, nel  1865 e a riprova che il suo primo e unico romanzo ha precisi riferimenti autobiografici, studiò alla scuola femminile Marie Souvestre a Les Ruches, Fontainebleau , in Francia e successivamente in Inghilterra quando Souvestre trasferì la scuola ad Allenswood. 

Successivamente Dorothy divenne insegnante e tra le sue allieve vi fu perfino Eleanor Roosevelt . V

Nel 1903 Dorothy sposò il pittore francese Simon Bussy (1870-1954), che conosceva Matisse , ed era ai margini del circolo di Bloomsbury . Aveva cinque anni in meno ed era figlio di un calzolaio della città giurassiana di Dole . Il liberalismo di Lady Strachey vacillò alla vista di lui che puliva il suo piatto con pezzi di pane. Il dramma familiare "scosse alle fondamenta il regime di Lancaster Gate" (Holroyd) e, nonostante la silenziosa disapprovazione degli Strachey più anziani, Dorothy rimase determinata a sposarlo con quello che suo fratello Lytton in seguito chiamò "straordinario coraggio". 

Dorothy era bisessuale ed era coinvolta in una relazione con Lady Ottoline Morrell . Divenne amica di Charles Mauron , l'amante di EM Forster . 

Nella seconda parte della sua vita la Strachey divenne amica di André Gide , che incontrò per caso durante l'estate del 1918 quando aveva cinquantadue, e con il quale intraprese una fitta corrispondenza. 

La loro amicizia a distanza è durata oltre trent'anni. Le loro lettere sono pubblicate in Selected Letters of Andre Gide and Dorothy Bussy di Richard Tedeschi , e c'è anche un'edizione francese in tre volumi. Gli originali sono conservati nella British Library

Fabrizio Falconi



Dorothy Strachey


Olivia

14/12/20

E' morto John Le Carré, maestro assoluto della Spy-Story


In 'Una spia che corre sul campo', uscito poco piu' di un anno fa, aveva raccontato gli anni della Brexit, immaginando un'alleanza tra i servizi segreti di Londra e l'America di Trump con il duplice scopo di minare le istituzioni democratiche europee e smantellare il sistema internazionale dei dazi. 

"E' mia convinta opinione che per la Gran Bretagna, per l'Europa e per la libera democrazia in tutto il mondo, l'uscita della Gran Bretagna dalla Ue al tempo di Trump e la conseguente dipendenza senza riserve sugli Stati Uniti in un'era in cui gli Usa hanno imboccato la strada del razzismo istituzionale e del neo-fascismo e' un disastro senza precedenti", aveva fatto dire a uno dei personaggi del romanzo. 

E per manifestare contro la Brexit era sceso in piazza, John Le Carre', maestro della spy story acclamato nel mondo, celebre per le sue storie di spionaggio intrise di realismo e critiche nei confronti della societa' moderna, dalla Guerra Fredda ai fallimenti della globalizzazione, morto all'eta' di 89 anni. 

Vero nome David J. M. Cornwell, nato a Poole, nella regione inglese del Dorsetshire, nel 1931, Le Carre' insegna all'universita' di Eton, prima di diventare un funzionario del ministero degli Esteri britannico ed essere reclutato dall'MI5 e poi dall'MI6. 

Dall'esperienza nei servizi segreti predera' spunto per creare il personaggio di George Smiley, leggendario protagonista di numerosi suoi romanzi.

L'esordio, in quell'anno, e' con 'Chiamata per il morto', poi verra' 'Un delitto di classe', ma sara' la sua terza fatica letteraria, 'La spia che venne dal freddo', uscito nel 1964, a regalargli la fama planetaria. 

Oltre 20 milioni di copie vendute nel mondo, racconta la storia di Alec Leamas, agente britannico trasferito nella Germania dell'Est, che sara' interpretato sul grande schermo da Richard Burton nel primo di una lunga serie di adattamenti delle sue opere, tra cinema e tv. 

Basso, tozzo, occhiali spessi, paranoico, ma dotato di intelligenza acuta, una sorta di anti James Bond, come lo descrive lo scrittore in 'Candele nere' (1962), Smiley resta l'eroe preferito di Le Carre'. 

Ne La Talpa (1974) questo formidabile ufficiale dei servizi segreti smaschera una talpa sovietica infiltrata nelle sue fila. 

I sequel, 'L'onorevole scolaro' e 'Tutti gli uomini di Smiley', vengono portati in tv e al cinema con Gary Oldman nel ruolo di Smiley. 

Tra gli altri romanzi celebri, 'La tamburina', 'La spia perfetta', 'La casa Russia', 'Il direttore di notte', diventato di recente un serial di successo (con il titolo originale The Night Manager) con Tom Hiddleston e Hugh Laurie

Con la fine della Guerra Fredda nel 1991, Le Carre' mette alla berlina nelle sue opere gli eccessi del nuovo ordine mondiale costruito sulle rovine del muro di Berlino: mafia, traffico di armi e droga, riciclaggio di denaro e terrorismo. 

Sono gli anni di 'Il sarto di Panama' e 'Il giardiniere tenace', approdato anche al cinema, che denuncia gli abusi delle multinazionali farmaceutiche in Kenya. 'Il nostro traditore tipo' e 'Una verita' delicata' tracciano una satira feroce dei padroni del mondo e delle manovre costruite nei salotti di ambasciate, ministeri e banche. 

Negli ultimi Le Carre' ha scelto una vita ritirata, tra Cornovaglia e Hampstead. Sposato due volte, ha avuto quattro figli e tredici nipoti. 

Nel 2011 ha lasciato in eredita' tutti i suoi archivi alla Bodley Library, fondata all'inizio del XVII secolo a Oxford, dove ha studiato lingue negli anni '50. "Per Smiley, come per me, Oxford e' la nostra casa spirituale", spiega. "E mentre ho il massimo rispetto per le universita' americane, la Bodley Library e' il luogo dove riposerei il piu' felice possibile". 

"John Le Carre' e' scomparso a 89 anni. Questo anno terribile ha portato via un gigante della letteratura e uno spirito umanitario". Cosi' lo scrittore americano Stephen King ha reso omaggio su Twitter, all'autore di La spia che venne del freddo. 



23/06/20

Libro del Giorno: "E i nostri volti, amore mio, leggeri come foto" di John Berger




Dispiace che anche un editore serio come Il Saggiatore sia assai deludente quando presenta il nuovo libro di John Berger come una "intensa lettera d'amore di un grande narratore", annunciandolo così nella quarta di copertina e ripetutamente sottolineandolo nella bandella, allo scopo, immagino, di catturare più lettori. 

In realtà il libro di Berger (Londra, 5 novembre 1926 – Parigi, 2 gennaio 2017) - come altri suoi - è un testo completamente anomalo, in bilico su diversi generi letterari, saggio filosofico soprattutto, memoir, poesia, auto-fiction. I temi affrontati sono quelli filosofici esiziali, dell'esistenza

L'amore vi ha una parte del tutto minore, trascurabile e semmai funzionale soltanto nella scelta del linguaggio fortemente evocativo e poetico di Berger.

John Peter Berger del resto è stato un personaggio atipico: critico d'arte, scrittore e pittore. Il suo romanzo G. vinse il Booker Prize e il James Tait Black Memorial Prize nel 1972, ma la sua formazione è pittorica: quando nel dopoguerra si iscrisse alla Chelsea School of Art e alla Central School of Art di Londra, esponendo in diverse gallerie londinesi sul finire degli anni '40.

Mentre lavorava come insegnante di disegno (dal 1948 al 1955), Berger divenne poi un critico d'arte, pubblicando svariati saggi e recensioni. Il suo umanismo marxista e le sue convinte opinioni sull'arte moderna lo hanno reso una figura controversa sin dall'inizio della sua carriera.

E solo recentemente si è pienamente apprezzata la sua notevole produzione letteraria, difficilmente identificabile in un genere specifico.

Questo libro, pubblicato per la prima volta in Gran Bretagna nel 1984, è assai prezioso: un compendio di illuminazioni, suddivise in una dimensione verticale (il tempo) e orizzontale (lo spazio).   

Ricordi di viaggi, visioni estatiche, ma anche e soprattutto riflessioni profonde sul passato e sul senso dell'esistenza che (ci) trasforma ogni cosa che viviamo, mentre la viviamo, in qualche altra cosa. 

Un Taccuino intimo intervallato da brevi testi poetici dello stesso Berger, o di altri poeti come Anna Achmatova o Evgenij Vinokurov, oltre a fulminanti incursioni nelle opere amatissime di Van Gogh,  di Vermeer o di Caravaggio.

John Berger
E i nostri volti, amore mio, leggeri come foto
Edizione italiana e traduzione a cura di Maria Nadotti
Edizioni il Saggiatore, 2020
pp. 152, Euro 18.00

07/05/20

Libro del Giorno: "La maschera di Dimitrios" di Eric Ambler



Eric Clifford Ambler, nato a Londra nel 1909 e morto sempre a Londra nel 1998, è stato un geniale  scrittore e sceneggiatore britannico, autore di alcune fra le più famose spy story della letteratura gialla. Tentò la fortuna anche a Hollywood, dopo la seconda guerra mondiale, in cui servì nella truppe inglesi per sei anni occupandosi di riprese sui luoghi di battaglia. 

Ma visto che l'esperienza americana non fu esaltante, tornò in Europa nel 1958 a scrivere romanzi, sempre di ambientazione spionistica o thriller, genere di cui fu il nobilitatore insieme a Graham Greene e William Somerset Maugham.

La maschera di Dimitrios è uno dei suo gialli migliori, dalla trama intricata e ricca di suspence

L'azione ha inizio a Istanbul, intorno alla metà degli anni Trenta. Nel corso di un ricevimento Charles Latimer, giallista inglese di successo, viene avvicinato dal più imprevedibile degli ammiratori, il colonnello Haki – alto ufficiale dei servizi segreti e scrittore di suspense alle prime armi. La trama che il colonnello sottopone a Latimer, e che vorrebbe che quest’ultimo sviluppasse in proprio, è rozza, fiacca, artificiosa.

Ma poi Haki allude alla vicenda «scombinata, non artistica», priva di «moventi occulti» di Dimitrios Makropoulos, il più grande criminale europeo di quegli anni, coinvolto in ogni delitto compreso fra il traffico di eroina e l’assassinio politico.

E così, da alcuni indizi contraddittori disseminati in una conversazione apparentemente casuale, ha inizio l’inquietante «esperimento investigativo» di Latimer, che inseguirà le tracce di Dimitrios fra le rive dell’Egeo, i quartieri turchi di Sofia e i boulevard di Parigi, trasformandosi via via da elegante, distaccato scrutatore di fatti in protagonista di un romanzo a tinte forti.

Perfetta fusione di suspense e atmosfera, sottile analisi del funzionamento di ogni investigazione – letteraria o poliziesca che sia –, questo libro, per molti il primo a essere evocato quando si parla di Ambler, è anche lo straordinario documento di un’epoca in cui la civiltà e la mente dell’uomo europeo non potevano non vedersi riflesse in uno specchio oscuro, inafferrabile e sinistro: i Balcani.

La maschera di Dimitrios è stato pubblicato per la prima volta nel 1939.


Eric Ambler
La maschera di Dimitrios
Traduzione di Franco Salvatorelli
Adelphi, 2000
pag. 9.30 euro

20/12/19

Libro del Giorno: "La prossima avventura" di Anita Brookner


Può un romanzo tristissimo essere anche meraviglioso? 

Esempi classici in narrativa se ne possono fare innumerevoli, ma nell'età contemporanea spicca il lavoro di Anita Brookner, scrittrice londinese nata nel 1928 e morta poco tempo fa, nel 2016.

Scrittrice, critica d'arte e saggista, Anita Brookner è stata sottile e acuta osservatrice delle persone e del mondo che la circondava, dei caratteri e delle psicologie con una raffinatezza che l'ha fatta paragonare a Henry James.

Nessuno come la Brookner ha saputo descrivere in maniera nostalgica e intimista, personaggi e mezze tonalità, e la maniera con cui essi avevano perso la loro via. 

E' stata la prima donna a occupare la cattedra Slade dell'Università di Cambridge, fondata nel 1869 per l'insegnamento delle belle arti, entrando a far parte dei più importanti critici d'arte del tempo. 

Nel 1984 ha vinto il Booker Prize per lo splendido Hotel du Lac.

In questo La prossima avventura pubblicato da Giano, la Brookner descrive il crepuscolo di una vita, con tutti i suoi rimpianti e incompiutezze: 

Julius Herz, esule ebreo dalla Germania con tutta la sua famiglia, 73 anni, vive a Londra accorgendosi che solitudine e ozio gli sono diventati ormai insopportabili. Che fare degli anni che gli restano? Forse raggiungere Fanny, il suo primo e indimenticato amore, che non vede da trent'anni, ma questa partenza, questo distacco dalla sua vita non è affatto facile, e si dimostrerà anzi drammatico. 

Letteratura limpida che indaga i più minuti e reconditi anditi della coscienza. 

Un viaggio nella psiche e nell'anima, al tramonto della vita.

Fabrizio Falconi




03/09/19

Il Libro del Giorno: "Due occhi azzurri" di Thomas Hardy



Ci sono romanzi considerati minori di grandi, assoluti scrittori che valgono assai di più di molti dei romanzi maggiori di una grande quantità di autori contemporanei. 

E' il caso di A Pair of Blue Eyes, scritto da Thomas Hardy nel 1872, e uscito a puntate tra quell'anno e il seguente, fino a luglio 1873. 

Si trattava del terzo romanzo pubblicato di Hardy e del primo non pubblicato in forma anonima alla sua prima pubblicazione. 

Il libro descrive il triangolo amoroso di una giovane donna, Elfride Swancourt, e dei suoi due pretendenti di origini molto diverse

Stephen Smith è un giovane socialmente inferiore ma ambizioso che la adora e con la quale condivide le stesse origini di campagna. 

Henry Knight è il rispettabile, affermato, uomo più anziano che rappresenta la società di Londra. 

Sebbene i due siano amici, Knight non è a conoscenza del precedente collegamento di Smith con Elfride

Elfride si ritrova coinvolta in una battaglia tra il suo cuore, la sua mente e le aspettative di coloro che la circondano: i suoi genitori e la società

Quando il padre di Elfride scopre che il suo ospite e candidato per la mano di sua figlia, l'assistente dell'architetto, Stephen Smith, è figlio di un muratore, gli ordina immediatamente di andarsene. 

Giunge dunque sulla scena Knight, che è un parente della matrigna di Elfride, il quale si innamora a tal punto, ignorando del tutto i precedenti trascorsi della ragazza, da proporre a Elfride di sposarla. 

(spoiler

Elfride, per disperazione, sposa un terzo uomo, Lord Luxellian. La conclusione trova entrambi i pretendenti che viaggiano insieme verso Elfride, entrambi intenti a reclamare la sua mano, e non sapendo né che è già sposata o che stanno accompagnando il suo cadavere e la sua bara mentre viaggiano.

Il romanzo è denso di riferimenti autobiografici relativi ad Hardy e la sua prima moglie Emma Gifford e, in pieno trionfante clima vittoriano, offre un esempio del pessimismo gotico dello scrittore, della fallibilità dei sentimenti umani, della illusorietà delle passioni e della incapacità di tutti, uomini e donne, di essere padroni del proprio destino.  E' estremamente moderna la confusione psicologica dei personaggi che si muovono sul teatro della lugubre campagna inglese, affacciata sulle estreme scogliere atlantiche. E' grandiosa la capacità di alternare la pura narrazione evolutiva - con colpi di scena che tengono sempre desta l'attenzione del lettore fino all'ultima pagina - alle profonde notazioni introspettive delle inconsistenti passioni dei personaggi, che si dimenano senza posa - e senza apparente scopo - come sotto la lente di ingrandimento di un entomologo. 

Fabrizio Falconi



15/03/19

100 film da salvare alla fine del mondo: 3. "Barry Lyndon" di Stanley Kubrick (1975)


Questo blog dedica, ad appuntamenti fissi - ogni lunedì e ogni venerdì - un catalogo personale dei miei 100 film da salvare "alla fine del mondo".  Non saranno ovviamente vere e proprie recensioni, ma un piccolo campionario degli affetti per queste opere che hanno segnato epoche e vite di molti, se non di tutti. 

3. "Barry Lyndon" di Stanley Kubrick (1975).

Stanley Kubrick con il suo grande genio, era talmente avanti, che quando Barry Lyndon che aveva interamente scritto e diretto, traendolo da celebre romanzo di William Makepeace Thackeray, uscì nelle sale, il film venne scambiato per un ordinario film in costume, con incassi non cospicui e critiche ovviamente positive ma tutto sommato anch'esse ordinarie.

Con il passare degli anni invece il film è stato continuamente riscoperto, studiato e analizzato, ad esso sono stati dedicati saggi in tutto il mondo e 
oggi è giustamente considerato uno dei migliori film di Kubrick e una delle più grandi opere cinematografiche mai realizzate.

La storia, seguendo fedelmente il romanzo, prende la mosse dal piccolo villaggio irlandese nel quale vive il giovane Redmond Barry che, figlio unico di madre vedova, scapestrato e di bell'aspetto ma con pochi soldi in tasca, s'innamora della cugina, la bella e frivola Nora Brady.

Nel villaggio, qualche settimana più tardi, si ferma un reggimento militare del Regno Unito, che sta reclutando truppe per la guerra dei sette anni. A causa della delusione sentimentale - durante la sosta Nora conosce il capitano John Quin, con cui avvia una relazione - Barry decide di arruolarsi. 

Da lì iniziano le peripezie del protagonista, attraverso la crudelissima guerra, l'improvvisa ricchezza, il morbo del gioco, il circolo degli aristocratici nel quale sembra essere accolto, l'amore passionale, quello paterno, il dolore più grande, la caduta, il duello, la rovina.

Il film fu diviso da Kubrick in due parti, la prima  - Con quali mezzi Redmond Barry acquisì lo stile e il titolo di Barry Lyndon e la seconda - Resoconto delle sventure e dei disastri che accaddero a Barry Lyndon , genialmente separati da un breve intervallo  di 40 secondi di schermo completamente nero.


Il film di Kubrick è una epopea, stilisticamente unica.  Per creare un'opera che fosse massimamente realistica, il regista con la sua proverbiale maniacalità, trasse ispirazione dai più famosi paesaggisti del XVIII secolo per scegliere le ambientazioni dei set. Le riprese vennero effettuate in Inghilterra, Irlanda e Germania. Le scene e i costumi vennero ricavati da quadri, stampe e disegni d'epoca.  È un film fortemente visivo, talmente ricco di immagini e riferimenti estetici (dovute alle vastissime ricerche condotte dall'autore) da farne la più ampia e rigorosa rappresentazione del Settecento che il cinema abbia mai prodotto.

Ma questo non realizzò semplicemente un esercizio calligrafico (per questo fu scambiato dai plenipotenziari grossolani di Hollywood che infatti concessero al film soltanto i premi Oscar alla migliore fotografia (John Alcott), alla migliore scenografia (Ken Adam) e ai migliori costumi (Milena Canonero).

Nulla infatti nel capolavoro di Kubrick ha semplicemente un significato estetico, fine a se stesso.

Come sempre, nella filmografia del grande maestro, la perfezione esteriore mira a una messa a nudo totale bi-direzionale.  Della scena rispetto allo spettatore che osserva, e dello spettatore rispetto alla scena osservata: calato, immerso nella ricostruzione apparentemente asettica di un altrove linguistico, storico-temporale, lo spettatore si libera di ogni pre-giudizio e di ogni pre-visione e si abbandona al quadro morale costituito dalla storia raccontata da Thackeray e re-interpretata e re-inventata da Kubrick.

Ancora una volta, come in Orizzonti di Gloria, come in Spartacus, come in Arancia Meccanica e come in 2001 Odissea nello Spazio (ma l'elenco potrebbe proseguire) l'uomo è solo e nudo e al centro, contro il mistero della creazione, contro le avversità, il destino, il fato, contro gli enigmi della vita e delle pure contraddizioni, sospese tra il Bene e il Male, che costituiscono il teatro entro cui si svolge l'esistenza di ogni uomo e entro cui egli è chiamato conradianamente a scegliere ogni volta, a decidere le proprie fortune e/o la propria rovina. 

Un film grandioso e immortale, che ogni volta stupisce per la sua perfezione esteriore e per la profondità con cui si addentra nel mistero del cuore umano.

Fabrizio Falconi



Barry Lyndon
di Stanley Kubrick
Regno Unito, Stati Uniti, 1975
Durata 184 min
Ryan O'Neal, Marisa Berenson, Patrick Magee, Hardy Krüger.

11/02/19

Libro del Giorno: "Follia" di Patrick Mc Grath.



Un classico, milioni di copie vendute nel mondo, per il capolavoro di Patrick Mc Grath, mai tornato in seguito su questi livelli. 

Pubblicato per la prima volta nel 1996, il romanzo si svolge nel 1959 e attinge abbondantemente ai ricordi d'infanzia e di vita dello stesso autore, nato a Londra e cresciuto vicino all'ospedale di Broadmoor dall'età di cinque anni, dove suo padre era sovrintendente medico. In effetti Mc Grath rischiò seriamente di seguire le orme paterne, se non l'avesse definitivamente tentato la carriera di scrittore.

Follia, come tutti i grandi romanzi, sfrutta con la massima efficienza e con l'uso di una macchina narrativa perfetta, un materiale essenziale. Sulla scena si affacciano pochissimi personaggi.  Peter, il narratore, uno psichiatra che lavora in un grande manicomio alle porte di Londra; Max, il vicedirettore che aspira al posto di principale e che arriva all'istituto accompagnato dalla inquieta moglie Stella e dal figlio Charlie un bambino di 12 anni; Edgar Stark un paziente in regime di semilibertà, artista fallito, ricoverato in manicomio dopo aver ammazzato la moglie e averne mutilato il corpo, staccandole la testa; Nick, un amico di Edgar che lo aiuta dopo la sua fuga dal manicomio. E infine Brenda, la madre di Max e suocera di Stella. 

L'inferno inizia a dipanarsi quando Stella, complice una grande serra vittoriana nel giardino del manicomio che viene restaurata da alcuni pazienti,  comincia una relazione con Edgar, il quale, fascinoso e manipolatore, la travolge dentro una passione senza limiti. 

Trascinata da un irrefrenabile desiderio e dalla acuta frustrazione della vita familiare e dalla freddezza di Max, Stella comincia il suo viaggio autodistruttivo, discendendo ad uno ad uno tutti i gradini della degradazione, abbandonando la famiglia e l'istituto per raggiungere l'amante in uno squallido loft alla periferia di Londra, subendone violenze e pressioni psicologiche, fino ad un tentativo di distacco che però non ottiene risultati. 

Fino all'ultima pagina Mc Grath districa abilmente i fili di una matassa psicologica in cui frustrazione femminile, desiderio, rancore, rivalsa e odio, passione e morte, sono l'uno all'altro collegati come il filo di un angoscioso e doloroso rosario. 

Non all'altezza la riduzione fatta da David Mackenzie nel 2005. 

Fabrizio Falconi


03/12/18

Libro del Giorno: "Delitto di una notte buia" di Elizabeth Gaskell.



E' iniziata da qualche anno la riscoperta di Elizabeth Gaskell, scrittrice inglese d'epoca vittoriana (Londra 1810 – Holybourne 1865), che ebbe una vita infelice, sublimata nel grandissimo amore per la letteratura. 

Orfana di entrambi i genitori, Elizabeth cresce nel piccolo centro rurale di Knutsford e a ventuno anni sposa William Gaskell, ministro della Chiesa Unitaria, col quale si trasferisce a Manchester. 

Nel 1845 la morte dell’unico figlio maschio la spinge, spronata dal marito, a cercare sollievo al dolore nella scrittura del suo primo romanzo, Mary Barton, che ottiene un buon successo. 

Quella che era nata come distrazione diventa allora una vera e propria vocazione letteraria: l’osservazione della realtà di Manchester la stimola a descrivere la vita drammatica del proletariato urbano e le tensione fra le classi.

Per la rivista di Charles Dickens – «Household Words» – scrive una serie di bozzetti sulla vita rurale inglese all’inizio dell’Ottocento. 

Amica di molti scrittori e intellettuali del suo tempo, stringe un forte legame con Charlotte Brontë. 

Questo Delitto di una notte buia appare a puntate per la prima volta tra il gennaio e il marzo del 1863 tra le pagine del periodico «All the year round» grazie all’entusiasta approvazione di Charles Dickens

E' un romanzo intimo, dalle tinte tristi e fosche che si dipana tra le case di Ford Bank, una cittadina nella quale Edward Wilkins esercita la professione di avvocato come il padre prima di lui. 

La capacità affabulatoria e l’acuta intelligenza gli permettono di avvalersi della simpatia dei nobili locali anche se, in una Inghilterra ancora rigidamente divisa in classi, questi ultimi non considereranno mai l’avvocato un loro pari. 

Sconvolto per la morte della moglie e della secondogenita, Mr. Wilkins riversa ogni attenzione nei confronti della figlia maggiore, Ellinor. 

La vita della ragazza sembra perfetta: è innamorata del giovane Mr. Corbet, uno studente di Giurisprudenza brillante e ambizioso che fa pratica nelle vicinanze; tutto le sorride, al punto da non accorgersi dell’evidente stato di decadenza del padre, il quale, sentendo il peso dell’inadeguatezza sociale e del proprio fallimento, riversa i suoi malumori in vizi, lussi e alcolici. 

Tutto si ferma una notte, una notte buia durante la quale Ellinor assiste a un delitto nato quasi per caso. 

E sarà proprio questo evento a sconvolgere, con un colpo drammatico e impietoso del destino, la sua vita ribaltando l’ordine di ogni cosa e condannando la giovane a una irredimibile infelicità. 


La colpa, il destino, l'espiazione, l'amore vano, sono i temi di questo romanzo che non possiede la grandezza di un classico di Dickens, ma espone il punto di vista femminile sulla vita di quegli anni (e sulla difficile vita delle donne di quegli anni) e sulle eterne disillusioni dell'amore. 

Delitto di una notte buia
Introduzione e cura di Francesco Marroni
Traduzione di Maria Barbuni
Edizioni Libreria Croce di Fabio Croce
Roma, 2017
Euro 17.50
Pagine 276

29/08/18

Libro del Giorno: "L'uomo che non doveva vivere", di Geoffrey Household.



Nato a Bristol nel 1900 e laureatosi ad Oxford, Geoffrey Household racchiude nella sua lunga biografia (è morto nel 1988), tutti gli elementi del vero outsider della letteratura. 

Lasciata l'Inghilterra nel 1922 lavorò all'estero, prima in Romania come impiegato di banca, poi in Spagna nel commercio delle banane, e infine negli Stati Uniti dove - durante la crisi del '29 - si mantenne scrivendo piccole commedie per bambini e voci commissionate per l'Enciclopedia. 

Tornato in patria nel 1933, si impiegò in una fabbrica per inchiostri che lo mandò in giro per il mondo, fino al Medio Oriente e in Sudamerica.  In questo periodo cominciò a dedicarsi regolarmente alla scrittura, e con la pubblicazione del suo terzo romanzo, L'uomo che non doveva vivere, conobbe un enorme successo internazionale che continuò nella seconda parte del Novecento, dopo la riduzione cinematografica che ne fece ad Hollywood Fritz Lang (nel 1941) e televisiva con Peter O' Toole nei panni del protagonista nel 1976. 

Nonostante i quaranta romanzi scritti in seguito, il successo di Household rimase legato a questo romanzo, che in molti considerano l'antesignano del genere thriller. 

Pubblicato in Italia da Polillo, L'uomo che non deve morire si legge ancora oggi tutto d'un fiato - d'altronde non ha scansioni in capitoli o parti - e si presenta come un incubo a occhi aperti.  Il protagonista senza nome di questa vicenda è un uomo in fuga, per motivi che non appaiono chiari: è infatti catturato mentre sta puntando il suo fucile a cannocchiale contro la casa-fortezza di un dittatore di una nazione straniera (la Polonia, si chiarirà in seguito). Non ha sparato e forse non meditava nemmeno un attentato, ma i suoi inseguitori ne sono convinti. Sopravvissuto miracolosamente alla eliminazione fisica, comincia la lunga fuga dell'uomo, che riesce a ritornare nel suo paese, soltanto per scoprire che sono probabilmente proprio i servizi segreti del suo paese a volerlo eliminare. 

Il racconto è la descrizione minuziosa di una fuga apparentemente senza meta, in cui l'uomo riesce ogni volta a far perdere le sue tracce per miracolo, fino a scomparire letteralmente dentro una fossa scavata in aperta campagna.  Anche nella sua tana sotterranea, però, viene trovato e dopo aver rischiato la fine da sepolto vivo, riesce ad evadere rocambolescamente anche da qui. 

Come chiarisce il titolo originale del romanzo, Rogue Male, ciò che interessa ad Household è questa condizione di braccato, questa emarginazione o autoemarginazione radicale del fuggitivo che cerca scampo da se stesso, dai potenziali amici e dai molti nemici senza volto che lo perseguitano come dentro un incubo senza fine. 

Ciò nonostante, l'uomo resta al centro del suo destino, l'uomo trova la sua riabilitazione, che comincia dalla terra, dal fango, dalla mutilazione, dalla perdita di tutto. 

Non è quindi tanto il nemico, che ha importanza, ma la forza della vita, la continuazione - forse - di una memoria, di un riscatto, che rappresenta l'unica - eroica, dolorosa, sacrificale - ragione per continuare a vivere. 

Fabrizio Falconi


09/06/18

Il Libro del Giorno: "Sweet Dreams" di Michael Frayn.



Dal genio di uno dei maggiori autori viventi, il racconto di un uomo che senza sapere di esser morto arriva in Paradiso e inizia a fare carriera. Un classico della letteratura inglese tradotto per la prima volta in italiano.
Howard Baker, un giovane uomo di idee liberali e discrete ambizioni, si trova in macchina, fermo davanti a un semaforo. Quando lo supera succede qualcosa: invece di prendere la via che si sarebbe aspettato, imbocca una superstrada a dieci corsie che lo conduce verso un'enorme metropoli. Ancora non lo sa, ma è giunto in Paradiso. Soltanto che, a differenza di quanto avveniva ai tempi di San Giovanni, il Paradiso oggi non è più una città fatta di oro puro e cristallo trasparente, ma un luogo vibrante e pieno di intrattenimenti e opportunità professionali, in cui tutto, davvero, è possibile. 
Qui Howard fa nuovi incontri e ritrova vecchie conoscenze, si innamora di una ragazza e contemporaneamente conduce la solita vita famigliare con la moglie e i figli
Un giorno arrivano a fargli visita i suoi amici storici: al pari di lui, anche loro in quel luogo sono impegnati in progetti e attività di assoluto rilievo; uno di essi ispira poeti come John Donne e William Butler Yeats "passandogli" alcuni versi, un altro riesce a far tornare in vita persone che erano morte. 
Howard invece fa parte di un prestigioso team di architetti e designer che sta progettando le Alpi: sarà lui a disegnare l'inconfondibile sagoma del Cervino. E la sua carriera non si fermerà di certo qui, con il tempo infatti Howard diventa una specie di guru spirituale e infine arriverà a essere scelto da Dio come proprio aiutante... 
“Frayn è un grande scrittore. E questo romanzo una specie di Candido di Voltaire. Un Candido contemporaneo e irresistibile”. - New Yorker
“Forse uno dei contributi più originali della narrativa inglese all’intero ventesimo secolo”. - Times Literary Supplement
"Dopotutto, che cosa ti piace, in effetti? Di fatto, che cosa ti diverte? Non la contemplazione, Howard. Non l'essere in contatto con l'infinito. Quello che ti piace è prawn biryani e crumble di mele; alzarti tardi la domenica e leggere i giornali in vestaglia; tenere sott'occhio le tue polizze assicurative; toglierti il cibo incastrato tra i denti con uno stecchino affilato".
"Pensavo che da qui sarei stato diverso".
"Ti piacerebbe essere diverso?".
Howard riflette, togliersi il cibo incastrato tra i denti con uno stecchino affilato.
"No", dice infine.
"Ecco, bene".