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16/10/13

Intervista al premio Nobel 2013 Alice Munro - di Irene Bignardi.





Dopo La vista da Castle Rock aveva giu­rato che non avrebbe scritto più. E il suo edi­tore ita­liano, per con­so­larci di non poter più con­tare sull’atteso perio­dico appun­ta­mento con i bel­lis­simi rac­conti di Alice Munro, la signora della short story, una delle grandi scrit­trici di que­sti due secoli, ha pen­sato bene di pub­bli­care una intensa, fre­schis­sima rac­colta del 1991, Le lune di Giove (Einaudi, pagg. 300, euro 19,00, tra­du­zione sem­pre impec­ca­bile di Susanna Basso).ù
Rac­conti acuti, dolo­rosi, su gente vera e nor­male, su fram­menti di vita impec­ca­bil­mente ricreati. Ma, dice ora mali­ziosa e rilas­sata la bella signora con i capelli bian­chi, «che non avrei più scritto era una grossa bugia». E per­ché ha men­tito, signora? «Pen­savo che fosse una buona idea. Pen­savo che la gente mi potesse essere grata per que­sto». E Alice Munro, cana­dese, anni set­tan­ta­sette por­tati con gra­zia estrema («ma se mi penso mi penso a qua­ranta, quando sei ancora capace di eser­ci­tare un’attra­zione ses­suale e hai tempo davanti a te»), autrice di un cor­pus rela­ti­va­mente pic­colo e molto accla­mato di opere, sor­ride, beve vino bianco e ricorda. 

«Sono nata nel 1931, durante la depres­sione. Non so come sia stata in Europa, ma nel Nord America è stata disa­strosa. Non era­vamo dispe­ra­ta­mente poveri. Era­vamo men­tal­mente poveri. Col­ti­va­vamo il nostro cibo, le nostre ver­dure. E nostro padre alle­vava volpi argen­tate. Allora erano molto alla moda. Se lei guarda le foto­gra­fie di Elea­nor Roo­se­velt aveva sem­pre una stola di volpe attorno al collo. Mio padre aveva sognato di diven­tare ricco con que­sta atti­vità, ma non ha avuto mai abba­stanza soldi per inve­stire, e non ci è riu­scito. Poi, durante la guerra, quel tipo di pel­licce è pas­sato di moda. Ed è stato costretto ad andare a lavo­rare in una fab­brica, in una fon­de­ria. Mia madre si è amma­lata molto gra­ve­mente di Par­kin­son ed è vis­suta per quasi vent’anni in que­sta condi­zione dispe­rata. E io, io ero la figlia più grande. E imma­gino che se fossi stata una brava figlia una volta finito il liceo sarei rima­sta a casa, con mia madre e mio fra­tello e mia sorella più pic­coli. Invece ho vinto una borsa di stu­dio e me ne sono andata. All’ uni­ver­sità. Per la verità non avevo abba­stanza denaro. Avevo soldi per tre anni e non per quat­tro. Dovevo tro­vare qual­che forma di lavoro. Ho avuto dei premi, ma non basta­vano. Così ho deciso che la cosa migliore da fare di fare era spo­sarmi». 

Scherza? Spo­sarsi per soprav­vi­vere? 
«No, ero anche inna­mo­rata. Sa, ai ragazzi della mia città non pia­cevo affatto, per­ché ero così strana, una che leg­geva sem­pre. Ma è suc­cesso che all’ uni­ver­sità ho incon­trato un ragazzo capace di accet­tare il mio modo di essere. Molti ragazzi ai miei tempi non pote­vano sop­por­tare che le loro donne si impe­gnas­sero seria­mente in un lavoro. Lui invece, Jim Munro, ne era feli­cis­simo, era deliziato da me, era molto bello, molto carino. Ho preso il suo nome e me lo sono tenuto per­ché è meglio del mio. Abbiamo avuto una bam­bina Sheila, poi una seconda bam­bina Cathe­rine, che è morta subito, poi una terza, Jean­nie, poi Andrea, che è nata nove anni dopo. Vive­vamo a Van­couver, nei sob­bor­ghi. C’ erano all’ epoca in Canada delle pic­cole rivi­ste e una radio che pro­muoveva la let­te­ra­tura nazio­nale. Ho comin­ciato a ven­dere qual­che rac­conto, ad essere cono­sciuta nei giri che si occu­pa­vano di let­te­ra­tura…»

La leg­genda di Alice Munro vuole che per le short sto­ries si sia ispi­rata alla Sire­netta di Ander­sen e per i romanzi a Cime tem­pe­stose. 
«Non ose­rei mai di scri­vere sul modello di Cime tem­pe­stose, è un libro unico. Ma è vero che La sire­netta ha avuto un influsso molto pro­fondo su di me. Si è con­dan­nata per amore, ha dato la sua anima per amore. E’ la donna ideale. Ed è vero, a me piace la tra­ge­dia. In genere si pensa che una scrit­trice donna debba scri­vere come Jane Austen. E Jane Austen è bra­vis­sima. Ma per qual­cuna della mia classe sociale non è inte­res­sante come le Bronte. Io non sono mai stata inte­res­sata alla società ben edu­cata. Volevo che la gente avesse dei destini tra­gici e grandi emo­zioni. Quando i bam­bini erano pic­coli ho letto come una dispe­rata, tutto, ma non sono mai stata influen­zata dai clas­sici del ven­te­simo secolo come Proust, Mann, la let­te­ra­tura nobile, sa, per­ché non capivo quel tipo di società. No, gli autori che mi hanno spinta a scri­vere sono Flan­nery O’ Con­nor, Car­son McCul­lers, Eudora Welthy, scrit­trici che rac­con­tano le pic­cole città, la povera gente. Il mio ter­ri­to­rio. Per­ché non solo ho avuto la for­tuna di nascere povera, ma di vivere in un paese che tratta i poveri con dignità»

Ci sono state anche altre influenze. 
«Quando avevo sedici anni, ho avuto un lavoro come came­riera, presso una fami­glia, durante le vacanze su un lago. Era­vamo in un posto molto iso­lato. Il padrone di casa mi ha dato da leg­gere le Sette sto­rie goti­che di Karen Bli­xen. E le ho amate mol­tis­simo, anche se poi più tardi ho pen­sato che non mi pia­ceva il suo punto di vista - quello di un’ ari­sto­cra­tica, e non solo, una che pen­sava che all’ ari­sto­cra­zia vanno riser­vati trat­ta­menti spe­ciali. Quando leggo una scrit­trice così penso sem­pre che nei suoi rac­conti io sarei la ragazza che sta in cucina. Ma è anche gra­zie a lei se ho sco­perto la bel­lezza della forma rac­conto - senza tut­ta­via mai cer­care di imi­tare quella prosa. E’ così facile il rischio di fare la paro­dia del bello stile»

Ma lei fa dello stile: la lin­gua che usa è ricca, pre­cisa, a volte per­sino pre­ziosa nella scelta les­si­cale. «E’ un fatto cana­dese. La lin­gua è rima­sta pro­tetta in una cap­sula che non è tanto cam­biata»

Dif­fi­cile, per una donna, scri­vere nel suo paese? 
«Non dif­fi­cile, quasi impos­si­bile. Ero una gio­vane moglie e madre. Gli uomini non mi pren­de­vano sul serio. Be’, vera­mente, alcuni sì. Per esem­pio Robert Wea­ver, l’uomo a cui devo quasi tutto, e che ora non c’è più. Diri­geva una rivi­sta, e non ha mai smesso di inco­rag­giarmi. Ma quando andavo agli incon­tri con gli altri scrit­tori, era un club maschile. E poi c’erano le loro mogli che non mi sop­por­ta­vano»

Per­ché era troppo bella? 
«Non mi sono mai con­si­de­rata bella. No. Per­ché ero donna e facevo il mestiere dei loro mariti. Le donne, allora, erano o mogli o orna­menti. Nes­suno mi pren­deva sul serio come scrit­trice. Ero lontana da tutto. Vivevo ai mar­gini. Scri­vevo sulle cose sba­gliate, non scri­vevo di guerra, di poli­tica - ed era ancora l’ epoca Heming­way»

Ed è uno stu­pendo con­trap­passo che lei oggi sia il nome più grande della let­te­ra­tura cana­dese. «Sì. Una stu­penda ven­detta». Per­ché si è eser­ci­tata soprat­tutto la forma della short story? 
«Per via del mio lavoro da casa­linga. Non ho mai avuto un anno in cui lavo­rare alla stessa cosa. Il mio lavoro era sem­pre inter­rotto. Non potevo nem­meno lon­ta­na­mente pen­sare a un romanzo»

Cin­que rac­conti di Le lune di Giove sono in prima per­sona. Siamo auto­riz­zati a pen­sare che sono molto per­so­nali? 
«Molto. Le lune di Giove è stato il quarto o quinto libro che ho scritto, ed era molto auto­bio­gra­fico: cose che ho vis­suto, per­ché non puoi scri­vere d’ amore senza aver avuto una certa quan­tità di espe­rienze d’ amore. O di sof­fe­renza»

O, come in L’inci­dente, dell’ azione del caso, del suo potere di scon­vol­gere e ridi­se­gnare le vite. «Non ho mai avuto un’ espe­rienza del genere, ma era impor­tante scri­vere quella sto­ria. E se in pas­sato ho capi­ta­liz­zato sulla mia vita, ora mi guardo mag­gior­mente in giro. Per esem­pio, sto lavo­rando adesso su una vec­chia signora che ho visto andare a farsi tin­gere i capelli di viola e di blu, ma che non ha nean­che un filo di trucco. Mi sono chie­sta: che cosa sta cer­cando, che cosa vuol pro­vare? E la mia fan­ta­sia si mette in moto. E poi parlo molto con la gente. Ascolto le sto­rie della comu­nità in cui vivo. Da qual­che anno sono tor­nata a vivere con il mio secondo marito in una pic­cola città, a trenta miglia da quella in cui sono cre­sciuta. Non scrivo diret­ta­mente sulla vita dei miei co­cittadini, ma mi incu­rio­si­sce come la orga­niz­zano - e la vita è sem­pre molto dif­fi­cile, è dif­fi­cile attra­ver­sarla ed essere felici»

Accet­te­rebbe la defi­ni­zione di pie­tas per il suo modo di guar­dare ai per­so­naggi dei suoi rac­conti? 
«O di com­pren­sione. O di capa­cità di per­do­nare i torti degli altri. Sì, se è pie­tas sapermi iden­ti­fi­care nella con­di­zione degli altri, nei loro com­por­ta­menti. Non scrivo così per­ché io sia par­ti­co­lar­mente buona. Ma per­ché posso imma­gi­nare che io stessa, in certe con­di­zioni, potrei com­por­tarmi in maniera diso­no­re­vole». 

Lei è molto amata e letta, ma i suoi rac­conti non sono certo con­so­la­tori o tran­quil­liz­zanti, sca­vano, fanno sof­frire. 
«Credo che la gente legga le mie sto­rie per le stesse ragioni per cui io le scrivo. Per­ché non cerco lo happy ending, per­ché scrivo per un momento di choc, di stu­pore, di rive­la­zione - ciò che rende la vita appas­sio­nante per me. E se rie­sco a susci­tare negli altri que­sto effetto, è mera­vi­glioso. Lo so, parlo di cose dif­fi­cili, di sof­fe­renza, di come si soprav­vive alla sof­fe­renza». Di Le lune di Giove, il rac­conto che dà il titolo alla rac­colta e che ha al cen­tro la figura di suo padre, col­pi­sce il suo rap­porto con la vec­chiaia. «Non ho mai avuto paura della vec­chiaia, ma ora, a set­tan­ta­sette anni, sento che il tempo si sta chiu­dendo. E ho un po’ paura delle cose che pos­sono suc­ce­dere. Di quello che ho visto suc­ce­dere agli altri. Non c’ è che una cosa da fare. Stare più attenta che in pas­sato a come uso il tempo che mi è con­cesso. Voglio usarlo al meglio. Magari - sor­ride - per scri­vere». 

Intervista di Irene Bignardi,  Repubblica 5 marzo 2005