Visualizzazione post con etichetta la lettura. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta la lettura. Mostra tutti i post

31/05/16

Francesco Piccolo e il Male sullo schermo. Non è stato Hitchcock ma Kubrick a scoperchiare il nostro cuore nero di spettatori.






Francesco Piccolo, nell'ultimo numero de La Lettura, riaffronta l'annosa questione del Male sullo schermo (Dalla parte del Male, 29 maggio 2016), prendendo a spunto il successo della violenta serie Gomorra 2, dove praticamente i buoni non esistono più, e i cattivi sono diventati perfino modelli da emulare, come avviene anche per House of Cards e innumerevoli altri prodotti dell'entertainment contemporaneo. 

Piccolo dedica quasi tutto il suo lungo articolo alla dimostrazione che il diritto di progenitura per questo sdoganamento del male, spetta di diritto ad Alfred Hitchcock, e in particolare al celebre Nodo alla gola (Rope), girato nel 1948, dove il genio londinese, ispirandosi ad un dramma teatrale di Patrick Hamilton (a sua volta ispirato da un fatto di cronaca, avvenuto nel 1924, l'assassinio gratuito di un ragazzino da parte di due giovani uniti da un legame omosessuale, che sconvolse l'America) mise in scena un incredibile film girato in unico ambiente, con 11 piani sequenza, considerato oggi una pietra miliare del cinema. 

La teoria di Piccolo - ampiamente ripresa dalla celebre intervista di Francois Truffaut a Hitchcock (Il cinema secondo Hitchcock, 1966) - è che fu proprio Hitchcock a sovvertire per la prima volta il senso morale dello spettatore, portandolo a schierarsi dalla parte dei due omicidi. Durante il film, dice Piccolo, Hitchcock induce lo spettatore a parteggiare per loro, a sperare che la celebre cassapanca dove i due hanno nascosto il corpo della vittima innocente, non venga aperta; che i due non vengano smascherati dal professore di filosofia Cadell (James Stewart) insospettito dal comportamento dei suoi due studenti, che hanno messo in pratica fino all'estremo, le sue teorie. 

La teoria di Piccolo non mi convince, perché l'ho sperimentata su di me. E in tutte le volte che ho visto quel film mi sono invece ritrovato dalla parte dello spettatore che 'spera' che i due vengano scoperti, cosa che non avviene (se non alla fine) per una serie fortuita di circostanze, che Hitchcock è maestro nell'accumulare, tenendo in pugno la curiosità dello spettatore. 

In realtà Hitchcock, come sanno quelli che l'hanno studiato, era il più moralista dei moralisti, e il suo gioco, nei suoi grandiosi film, è stato sempre quello di manipolare lo spettatore, mettendolo a conoscenza di cose che i protagonisti non sanno. 

Giocando insomma, con l'ansia di giustizia dello spettatore, ed esasperandone l'attesa. Senza sovvertirla mai, nei valori morali di riferimento. 

Mi sembra invece che se proprio si vuole trovare un capostipite di questo geniale e terribile rovesciamento morale, esso vada cercato in Stanley Kubrick e nel suo Arancia Meccanica (1971), tratto dal romanzo di Anthony Burgess. 

In quel film, infatti, per la prima volta, viene completamente rovesciato il senso morale dello spettatore, il quale - seguendo le atroci scorribande di Alex e della sua banda - è condotto per mano, prima a simpatizzare con il contesto (Alex è un delinquente glamour, un vero dandy, dai gusti raffinati, che si esalta con Beethoven e che pratica l'ultra violenza gratuita come fosse arte) - e poi a schierarsi decisamente con lui (con un omicida efferato, un violentatore, un sadico), quando il sistema, attraverso La cura Ludovico, lo trasforma in un docile agnello che prende calci e non li restituisce perché non può. 

Quando nel finale del film si intuisce che Alex è 'guarito' dalla cura, ed è tornato quello di prima, il suo ghigno efferato ha conquistato definitivamente lo spettatore.  Tutti, nessuno escluso, siamo felici che Alex sia diventato la bestia d'uomo che era prima. 

Nessuno era arrivato a tanto, e con tale esemplare chiarezza enunciativa.  Arancia Meccanica per la prima volta scoperchiava il cuore nero degli spettatori, e li costringeva, senza più filtri, a guardarvi per bene dentro. 

Fabrizio Falconi




15/12/15

Società schiumosa, "siamo sfere che esplodono e implodono". Intervista a Peter Sloterdijk di Donatella di Cesare.






Vorrei iniziare il nostro dialogo dal tema del terrore. Ho letto in questo periodo commenti che mi sono parsi dettati da una forte reazione emotiva. Come se il clima bellico influisse anche sui media. In diverse circostanze lei ha detto che il terrore moderno ha una lunga storia e risale almeno alla rivoluzione francese e all’uso della ghigliottina. Il terrore è inscritto nella democrazia? 

PETER SLOTERDIJK — Certamente. Democrazia vuol dire non avere più bisogno del terrore. Qui parla l’hegeliano che è in me: il terrore è uno stadio inaggirabile nel cammino verso lo Stato moderno. Bisogna avere attraversato il terrore per aprirsi alla democrazia. Ma proprio per questo il terrore resta un aspetto della politica nella modernità. 

DONATELLA DI CESARE — Ritengo però che il terrorismo attuale sia un fenomeno postmoderno. Sbaglia chi usa con una certa facilità l’etichetta «barbarie», perché questo impedisce di considerarne la complessità. E credo che sia anche una grossolana semplificazione interpretare quel che avviene come il conflitto tra la religione (o le religioni) da un canto e la democrazia illuminata dall’altro. 

PETER SLOTERDIJK — Non vorrei fare dell’islamismo una ideologia. Pur essendo un critico della religione, vedo qui un abuso della religione che, ridotta a un legame costrittivo, viene piegata a fini politici, primo fra tutti quello di costituire una comunità. 

DONATELLA DI CESARE — A questo proposito credo che il presunto «Stato islamico» sia anche una disposizione d’animo molto diffusa non solo in Medio Oriente, ma nelle periferie delle metropoli occidentali. 

PETER SLOTERDIJK — I terroristi sono per me attivisti del «terzo sogno», del sogno islamico che si oppone a quello americano. Ecco perché sono postmoderni: da un canto abitano nella realtà virtuale del XXI secolo, dall’altro fuggono nel passato del VII secolo. Mentre usano internet, attraversano il deserto — la testa piena di miti e sogni. E a questa paranoia favolistica ed eroica convertono molti giovani

DONATELLA DI CESARE — Che cosa li spinge a farsi esplodere? Non mi convince l’idea che — come alcuni hanno insinuato — abbiano un concetto di vita diverso dal «nostro». Ho l’impressione che ci sia un tratto apocalittico nella loro decisione di dare e darsi la morte.

PETER SLOTERDIJK — Direi che sono acceleratori dell’incendio. Per capire l’esito nichilistico delle enormi frustrazioni accumulate da questi giovani, occorre rileggere le analisi di Nietzsche e di Schiller sul risentimento. Parlerei di una fenomenologia della umiliazione. È grazie a un contatto più o meno superficiale con l’ideologia jihadista che una enorme riserva di sentimenti negativi assume una direzione politica. La criminalità spicciola assurge ad azione bellica. Il piccolo delinquente — e nessuno di questi giovani vuole esserlo, sebbene molti di loro purtroppo lo siano — si muta allora in combattente. 

DONATELLA DI CESARE — Ecco allora il loro riscatto, la loro redenzione. 

PETER SLOTERDIJK — Sì, vengono riscattati dalla guerra. Qualcosa di analogo è accaduto d’altronde nell’agosto del 1914, quando in migliaia celebrarono l’inizio del conflitto mondiale, pervasi quasi da un’estasi, come se, diventando vittime sacrificali, venissero nobilitati. Questo per me vuol dire che occorre evitare di conferire alla lotta al terrorismo lo statuto di guerra. E vuol dire anche che questa ondata di terrorismo non durerà più di un paio di anni. Il rischio è invece che la democrazia regredisca a non-democrazia

DONATELLA DI CESARE — Non crede allora che ci troviamo all’inizio di una guerra globale dove non esistono più fronti? 

PETER SLOTERDIJK — Certamente. Ma già da decenni siamo in questa mobilitazione totale che volge verso l’incerto, dove tutti combattono contro tutti, e dove — come aveva già detto Karl Jaspers nella sua opera del 1930 La situazione spirituale del tempo — non ci sono più fronti. 

DONATELLA DI CESARE — Convivere con chi è estraneo è la sfida del nostro tempo. 

PETER SLOTERDIJK — Proprio così. Il fenomeno epocale del nostro secolo è l’enorme spostamento di masse che con un termine troppo riduttivo chiamiamo emigrazione. Questo fenomeno non finirà in tempi brevi. 

DONATELLA DI CESARE — Vede come causa di questo fenomeno motivi peculiari oltre, s’intende, le guerre locali, le dittature e la fame? 

PETER SLOTERDIJK — Non dobbiamo sottovalutare la portata enorme del cambiamento climatico. La spogliazione della terra ha assunto proporzioni inimmaginabili. Continuiamo a chiudere gli occhi. Anche i filosofi dovrebbero occuparsi molto di più della questione delle fonti di energia. È una filosofia sociale che non è stata ancora scritta. 


continua a leggere qui.

26/07/15

La bellezza dell'istante. Di Emanuele Trevi.

Atlas Clock, Fifth Avenue, New York



«Scheggia di tempo grande gemma». E ancora: «Ogni istante vale una gemma inestimabile». Sono i consigli che un insegnante di zen che si chiamava Takuan scrisse a un gran signore che si annoiava. 

Si trovano in uno di quei rarissimi libri che in poche decine di pagine racchiudono, si può dire, tutto quello che c’è da sapere: le 101 storie zen, raccolte nel 1957 da Nyogen Senzaki e Paul Reps

Un vero vangelo del transitorio e dell’impermanente.

È una sapienza antichissima che si traduce in racconti leggiadri, rapidissimi, illuminanti. Ma perché sia davvero una sapienza, poco importa che sia antichissima. E ancora di meno conta il fatto che venga studiata, appresa come una delle tante astrazioni dell’intelligenza. 

Al limite, si potrà anche ignorare il concetto di «zen», che è solo una parola come un’altra. 

L’essenziale è che qualcuno, questa sapienza, la sperimenti effettivamente, la viva in prima persona. 

Più che trasmettere un’informazione, allora, un bravo maestro come Takuan intende scuotere l’uomo importante che si è rivolto a lui, costretto a starsene ore e ore impettito a ricevere l’omaggio dei suoi sottoposti, mentre i giorni gli sembrano sempre più lunghi, intollerabilmente. 

Le complicazioni dell’etichetta giapponese hanno finito per traviare il suo spirito, e il maestro deve tentare di risvegliarlo da una cattiva illusione. 

La verità, ricorda Takuan al potente signore, è che il tempo è prezioso, è come una gemma inestimabile, e non è mai più lungo di quello che deve essere

Il segreto del suo valore sta proprio nel dileguarsi senza lasciare tracce. La nostra vita consiste di giorni, possiamo dire che vivendo non facciamo altro che passare da un giorno all’altro, ognuno ancora più effimero di una bolla di sapone. Se ci fosse il modo di conservarlo nel ghiaccio, un giorno, o di metterlo in una cassaforte, non sarebbe così inestimabile. «Scheggia di tempo grande gemma».

05/06/15

"Vivo nel bosco: ascolto gli alberi che sussurrano " - Intervista a Peter Handke di Alessandra Iadicicco.




Questa è la bellissima intervista realizzata da Alessandra Iadicicco (sua traduttrice per l'italiano) a Peter Handke, nella casa dello scrittore a Chaville, nei sobborghi di Parigi, pubblicata sull'ultimo numero de La Lettura del Corriere della Sera. 

«Ma sì, venga da queste parti a maggio, quando al margine del bosco, tra l’erba o sotto l’edera, vale la pena di scoprire i prugnoli di San Giorgio». L’invito di Peter Handke era arrivato per posta, dopo uno scambio di lettere e di osservazioni sul tradurre, dopo la richiesta di un incontro e l’invio di qualche immagine di certi trofei. Gli avevo spedito le foto dei porcini raccolti l’estate scorsa in Alto Adige, nei giorni in cui lavoravo alla traduzione del suo Saggio sul cercatore di funghi: un racconto fiabesco, la storia di un’incredibile avventura uscita in questi giorni da Guanda. Lui aveva risposto con la foto di un gigantesco piatto di funghi da lui stesso cucinati per Capodanno.

Handke ha un sense of humour che contraddice l’immagine, che in genere gli si attribuisce, di quell’orso eremita, schivo, furente, allergico ai giornalisti… Come dargli torto? Certe sue posizioni sono state travisate. Come nel caso della ex Jugoslavia ai tempi della guerra nei Balcani. Sostenne la popolazione jugoslava, sensibile «alla loro tragedia — disse —, alla loro situazione senza speranza». Si schierò per la Serbia, si scagliò contro i bombardamenti della Nato lanciati su migliaia di civili. Pianse la sorte dei bambini vittime innocenti del conflitto, per i quali l’anno scorso ha devoluto gli oltre 300 mila euro del Premio Ibsen. E, da certa stampa, fu etichettato come fascista, un sostenitore del boia Miloševic o addirittura del sanguinario generale Mladic. Ora, proprio in nome «della grande amicizia e della simpatia dimostrata da Handke verso la popolazione serba», Belgrado gli ha conferito pochi giorni fa la cittadinanza onoraria.

Dopo una vita avventurosa, abita da anni in solitudine nel sobborgo parigino di Chaville, in una casa che, cinta da un muro e dal verde, dalla strada non si scorge nemmeno. Ma il gesto con cui apre il cancello del giardino — per mostrare orgoglioso i due meli, il cotogno non ancora del tutto sfiorito, il giovane pero, il grande cedro, il noce, il castagno… è lui in persona a coltivare le piante — non potrebbe essere più ospitale.

Lei stesso ha tradotto molti libri, di autori antichi e moderni. Tradurre le procura gioia?
«Ho paura quando scrivo, sempre, ancora adesso. La scrittura propria è sempre pericolosa. Ma quando traduco non ho paura. Semmai ho problemi, ma i problemi si possono risolvere. Scrivendo invece… Scrivere non è normale come sembra per la maggior parte degli scrittori oggi. Così la letteratura non è più la grande spedizione che potrebbe essere. Tanti oggi trovano normale scrivere. Forse è naturale, ma non è normale. Può diventare naturale man mano che si scrive, ma l’inizio non è naturale: l’inizio è un sacrilegio».

Perché?

«Non lo so. Non posso sempre dire perché… Però è una necessità vitale. Senza scrivere non potrei esistere. Scrivere è sano, indica la via verso la salute. Tradurre invece è vampiresco. Ti divora l’anima, non la nutre a sufficienza. Anche quando si ama molto un libro, o si traduce un autore che si sente affine. Tradurre non basta. Però una volta tradurre fu per me una salvezza».

Quando? E la salvò da che cosa?

«Fu la prima traduzione, dall’inglese, una lingua che non amo parlare. Di un autore americano, Walker Percy, tradussi The Moviegoer, Der Kinogeher, un personaggio che mi somiglia. Era il 1979, ero appena tornato in Austria, ma non volevo tornare in patria. Per anni avevo vissuto all’estero, prima in Germania, poi a Parigi. Mi trasferii nel ’79 a Salisburgo: volevo che mia figlia Amina frequentasse il ginnasio in tedesco. Ma allora la patria per me era terra straniera. Fu la traduzione a riportarmi a casa, a rendermi di nuovo familiare il mio Paese. La lingua e, parallelamente, il paesaggio attorno a Salisburgo mi indicarono la strada. Lingua e paesaggio: una fragile patria… La lingua che usai per tradurre mi riportò al mio posto. Non la scrittura. Perché la scrittura, lo ripeto, è una patria pericolosa…».

Tradurre permette di stringere legami attraverso confini che oggi, ancorché invisibili, sono più che mai soffocanti…

«Già… Nel frattempo gli antichi confini — politici, economici — sono scomparsi. Eppure i confini culturali sono molto più forti. I libri — non parlo di libri veri — sono scritti dappertutto allo stesso modo: in America, Russia, Cina… Questa indifferenza è peggiore di qualsiasi confine, dei confini che un tempo mi erano cari. Le traduzioni, poi, sono sempre sostenute dai ministeri, finanziate dagli istituti di cultura. Si vuole promuovere la letteratura internazionale. Ma io sento la mancanza di una letteratura mondiale, di quella che Goethe chiamava la Weltliteratur, che nasce dall’eterno scambio tra i popoli attraverso i confini e i linguaggi. Non potrà mai scomparire, ma non sai dove scorre. È come un fiume carsico che fluisce al di sotto del terreno e devi accostare l’orecchio alle rocce calcaree per capire dove passa e dove verrà alla luce».

Confini lei ne ha attraversati tanti, non solo traducendo. Ha fatto il giro del mondo, ha cambiato vari i luoghi di residenza.

«Ma ora di qui non mi muovo più. Vivo a Chaville da 25 anni. E difendo il mio posto, difendo il luogo: la mia casa, il giardino…».


Sarà perché lei è uno scrittore di luoghi...

«Sarà perché soffro da sempre per la mancanza di un luogo, perché dall’infanzia conosco il dolore dello sradicamento. Così anche un luogo episodico è sempre stato come una grazia per me. Un posto però deve diventare epico: si deve raccontarlo, trasformarlo nel personaggio di una storia, far sì che possa apparire per tutti».

E come vive il trascorrere del tempo? Ha l’aria di un uomo che non invecchia. Come «il cercatore di funghi»: da bambino non voleva sapere nulla del suo futuro. Da adulto, avvocato di fama internazionale, nell’intimo non si è mai spinto oltre i margini del bosco.

«È così: decisivo per me è rimasto il mormorare degli alberi sul margine del bosco. Se mi sfuggisse quel sussurro, se non riuscissi più a coglierlo, mi direi: hai perso tempo, hai mancato il momento. Questo è il tempo per me. Non il tempo politico. Rifiuto di credere che il tempo politico sia il mio tempo, il mio destino. Gli sono sfuggito. Sono un profugo del mio tempo. E non mi volto indietro, come la moglie di Lot, a guardare verso la politica. Mi trasformerei in una colonna di pietra, con la quale non si può fare nulla. No, il tempo per me è un altro. Anche tutte le mie spedizioni libresche mi portano in un altro tempo. L’altro tempo è, credo, un Dio buono, l’unico Dio che io abbia mai visto. E anzi l’ho sempre visto come una donna una dea: die Göttin Zeit… La Dea Tempo mi ha sempre mostrato un volto femminile».

E la sua scrittura è senza tempo, fuori dal tempo, inattuale? Nel «Saggio sul cercatore di funghi» scrive: «Finché questa flora selvatica resisterà all’allevamento, alla coltura, fino ad allora l’andar per funghi resterà l’avventura della resistenza! Una forma di eternità». 

«Però non sono solo i funghi… Voglio dire. Quando si dice di un libro che è attuale io rispondo: allora non mi interessa. I libri non hanno niente a che fare con l’attualità. Attualità però è una bellissima parola. Allude all’azione, alla vita. Però a me piace riferirmi a un’altra attualità. Voglio dire, non esisterei senza “il mondo delle notizie”. Quel mondo però contribuisce a darmi l’impulso e l’energia a pensare ex negativo qualcos’altro. In questo senso ha ragione chi dice di me che sono uno scrittore utopico. Perfino nei miei diari entra il cosiddetto mondo dell’attualità e quel che mi accade attorno. L’altro giorno, ad esempio, c’era sul treno una coppia di anziani accompagnati da due giovani badanti romeni. La scena si svolgeva in silenzio, gli anziani erano muti, come i loro accompagnatori. Io però ho immaginato che i quattro intavolassero una singolare conversazione. È invenzione, il che non significa fantasia arbitraria, vuol dire da quella che è l’“attualità attuale”, fantasticare su una attualità eterna».

I suoi libri, le traduzioni, i saggi, i diari, sono tutti manoscritti. La sua scrittura è riprodotta sulla copertina delle edizioni originali… 

«Anche questo segna un tempo diverso. Da oltre trent’anni scrivo con la matita. Ho cominciato a farlo per via dei viaggi. Spostandomi da un Paese all’altro, le lettere sulla tastiera della macchina per scrivere erano in un ordine diverso. Questo mi distraeva. Mi irritavo, mi arrabbiavo: non sono tanto saldo di nervi… Dovevo cercare il tasto giusto e la fantasia, la visione interiore era minacciata — no, esagero — era disturbata. Così ho provato a scrivere a mano. Funzionava! Fu una sorpresa. Ne è sorto un nuovo ritmo, anzi, un’altra Folge la chiama Goethe, un’altra sequenza: in questo senso sì, la mia è una scrittura inattuale. Eppure ci sono un paio di persone che mi leggono. Però mi manca la scrittura epica. L’avventura del cercatore di funghi è stata l’ultima».

Come trascorre le sue giornate da solo qui

«La mattina leggo, annoto quel che è accaduto il giorno prima, vado nel bosco, di solito verso mezzogiorno, quando tutti sono a tavola. D’inverno nel pomeriggio vado al cinema, a Parigi o a Versailles. Film ne vedo tantissimi, anche quelli brutti. Comunque il cinema è stimolante. Lo stesso non vale per i libri. Un brutto libro provoca un’irritazione sterile e cattiva. Il cinema, però, con tutte le sue potenzialità, non potrà mai colmare il posto della letteratura, che al momento è vuoto. Peccato».

intervista realizzata da Alessandra Iadicicco (sua traduttrice per l'italiano) a Peter Handke, nella casa dello scrittore a Chaville, nei sobborghi di Parigi, pubblicata sull'ultimo numero de La Lettura del Corriere della Sera. 


La casa di Peter Handke a Chaville

15/11/13

100 anni fa la Recherche di Proust. Un articolo di Alessandro Piperno su Swann




Cento anni fa, ieri, esattamente il 14 novembre 1913, debuttava, dopo una serie di risposte negative di varie case editrici, "Dalla parte di Swann", primo volume del capolavoro di Marcel Proust "Alla ricerca del tempo perduto", che restera' nella letteratura mondiale. 

Editori Internazionali Riuniti celebra l'anniversario riproponendo, nella collana Asce, le "Poesie" (traduzione della poetessa Luciana Frezza), una silloge di componimenti editi in riviste, o in differenti raccolte di lettere, o in pubblicazioni di amici dell'autore, o in plaquettes di "versi ritrovati", o ancora inediti provenienti per lo piu' dall'archivio di Madame Mante-Proust e dal Fonds Marcel Proust dell'Universita' dell'Illinois a Urbana. 

Nella stessa collana e' presente anche il romanzo "Gelosia" (traduzione di Cristiana Fanelli) del maestro francese.



Alessandro Piperno Marcel Proust. Perché Swann (la vittima) è uno di noi

Chissà se tra le tante definizioni della Recherche non possa trovare spazio anche questa: la Recherche è la lunga impudica confessione di un saggista impazzito. Proust è alle soglie della mezza età, in piena sindrome Salieri: pensa che Dio gli abbia regalato il dono di saper riconoscere la bellezza, ma non di saperla inventare. Spinto dal risentimento, si mette a scrivere un saggio letterario contro Charles Augustin de Sainte-Beuve, uno dei più grandi scrittori francesi del XIX secolo. Ma ecco che questo astioso saggista, nonché romanziere fallito, trascinato dalle sue elucubrazioni, viene preso dalla smania di raccontarci i fatti suoi o, quanto meno, i fatti di un tizio che gli somiglia parecchio: da allora in poi non riesce più a fermarsi. Il risultato è il più fiabesco e, allo stesso tempo, il più nichilista romanzo mai scritto.

fonte ANSA  -  Corriere della Sera – la Lettura 10 novembre 2013

18/02/12

Rémi Brague - "Amo dunque sono"



Qualche giorno fa il supplemento del Corriere della Sera, La Lettura, ha dedicato spazio ad una ampia intervista realizzata al filosofo Rémi Brague, intitolata "Amo dunque sono."

Scrittore, specialista di filosofia medievale, araba ed ebraica, Rémi Brague insegna Filosofia greca, romana ed araba all'Università Paris I Panthéon-Sorbonne dove dirige il centro di ricerca sulla tradizione nel pensiero classico. Ma Brague, come scrive Maria Antonietta Calabrò che ha realizzato l'intervista, è anche uno studioso che "ha sviluppato una riflessione sull’uomo e sulla sua autoconsapevolezza che sembra ormai essere giunta a un punto drammatico di non ritorno e che chiede, quindi, un nuovo inizio, a cominciare dal Vecchio Continente”

Quando si parla di 'radici cristiane', o di qualunque tipo di radici, Brague, storce il naso:  "Le radici sono una immagine strana.. Perché considerarci come una pianta ? In francese 'piantarsi' vuol dire sbagliarsi, fare un errore... Se si vogliono a ogni costo delle radici Un riferimento a Platone, che scrisse “noi siamo degli alberi piantati al contrario, le nostre radici non sono sulla terra, ma in cielo. Noi siamo radicati in ciò che, come il cielo, sfugge a ogni possesso”.

Un nuovo inizio è insomma, un uomo piantato al contrario che in qualche misura, e per approssimazione, possa poter dire quello che solo Dio dice compiutamente di sé: Amo dunque sono.

Brague nella intervista fornisce anche una interpretazione molto interessante del relativismo, fornendo un'analisi originale:
“ciò che genera il relativismo non è l’equivalenza dei valori, ma l’idea stessa di valore; ciò che è bene (la libertà, la giustizia…) è bene perchè sono io che gli dò valore, perchè come si dice, io lo “stimo”. Allora il gesto che dà valore è più forte che il valore in se stesso. Questo valore, allora, posso sempre ritirarlo. Quando un bene viene chiamato “valore”, lo si devalorizza. …… 

Da dove ricominciare ? Bisognerebbe farla finita con i valori, e riscoprire i beni: quelli materiali, molto concreti, dietro i loro simboli finanziari, le virtù morali dietro le tendenze alla moda…

Per essere chicchessia,  ragionevole oppure pazzo bisogna prima di tutto Esistere. Cio’ che è nuovo al giorno d’oggi è che l’esistenza stessa dell’uomo dipende sempre più dalla sua libera decisione. Noi abbiamo la possibilità tecnica di distruggerci, rapidamente (armi nucleari) o lentamente (inquinamento). E possiamo distruggere la specie umana, pacificamente, senza rumore, senza nemmeno rendercene conto, semplicemente cessando di riprodurci. Possiamo dire che per continuare ad esistere l’umanità ha bisogno di buone ragioni."

E' molto interessante il passo poi nel quale alla domanda della intervistatrice: "Può essere amata la verità ?" Brague risponde:

"Noi non possiamo amare che ciò che è bello. Se la verità è brutta, noi possiamo tutt’al più accettarla, a motivo di quella 'probità' (Redlichkeit) intellettuale che Nietzsche diceva essere “la nostra ultima virtù”. E' una forma di coraggio , virtù molto rispettabile. Soltanto che essa è incapace di far vivere, di suscitare la vita.

...Il bello ci strappa a noi stessi: come si dice, ci rapisce. Oppure perché per la modernità si tratta di massimizzare il sentimento che il soggetto ha di se stesso aumentando le sensazioni. “Sensazione” in greco: àisthesis."

Forse bisognerebbe cominciare con il riscoprire il bello.  Far dialogare gli uomini sulla base della ragione comune. Tutte le persone intelligenti, credenti o non, hanno in comune l’essere in bilico tra quello che sono e quello che dovrebbero essere. I fanatici, religiosi o scientifici, sono sicuri di loro stessi. Ma un dubbio che si compiacesse di se stesso senza cercare la verità sarebbe a sua volta fortemente un dubbio…"

La conclusione è allora: Amo dunque sono ?  

"L’amore resta ciò che si muove. Ma non si ama perchè ci motiva o aumenta il nostro giro di affari. Allora non è più Amore…

Chi può dire di Amare? Amare per noi è sempre rendersi conto che non si ama abbastanza o male, o più se stessi che l’altro.

E chi può vantarsi di essere? Solo Dio può dire “Io sono colui che sono”. E solo di Dio si può dire che è Amore. "