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31/05/16

Francesco Piccolo e il Male sullo schermo. Non è stato Hitchcock ma Kubrick a scoperchiare il nostro cuore nero di spettatori.






Francesco Piccolo, nell'ultimo numero de La Lettura, riaffronta l'annosa questione del Male sullo schermo (Dalla parte del Male, 29 maggio 2016), prendendo a spunto il successo della violenta serie Gomorra 2, dove praticamente i buoni non esistono più, e i cattivi sono diventati perfino modelli da emulare, come avviene anche per House of Cards e innumerevoli altri prodotti dell'entertainment contemporaneo. 

Piccolo dedica quasi tutto il suo lungo articolo alla dimostrazione che il diritto di progenitura per questo sdoganamento del male, spetta di diritto ad Alfred Hitchcock, e in particolare al celebre Nodo alla gola (Rope), girato nel 1948, dove il genio londinese, ispirandosi ad un dramma teatrale di Patrick Hamilton (a sua volta ispirato da un fatto di cronaca, avvenuto nel 1924, l'assassinio gratuito di un ragazzino da parte di due giovani uniti da un legame omosessuale, che sconvolse l'America) mise in scena un incredibile film girato in unico ambiente, con 11 piani sequenza, considerato oggi una pietra miliare del cinema. 

La teoria di Piccolo - ampiamente ripresa dalla celebre intervista di Francois Truffaut a Hitchcock (Il cinema secondo Hitchcock, 1966) - è che fu proprio Hitchcock a sovvertire per la prima volta il senso morale dello spettatore, portandolo a schierarsi dalla parte dei due omicidi. Durante il film, dice Piccolo, Hitchcock induce lo spettatore a parteggiare per loro, a sperare che la celebre cassapanca dove i due hanno nascosto il corpo della vittima innocente, non venga aperta; che i due non vengano smascherati dal professore di filosofia Cadell (James Stewart) insospettito dal comportamento dei suoi due studenti, che hanno messo in pratica fino all'estremo, le sue teorie. 

La teoria di Piccolo non mi convince, perché l'ho sperimentata su di me. E in tutte le volte che ho visto quel film mi sono invece ritrovato dalla parte dello spettatore che 'spera' che i due vengano scoperti, cosa che non avviene (se non alla fine) per una serie fortuita di circostanze, che Hitchcock è maestro nell'accumulare, tenendo in pugno la curiosità dello spettatore. 

In realtà Hitchcock, come sanno quelli che l'hanno studiato, era il più moralista dei moralisti, e il suo gioco, nei suoi grandiosi film, è stato sempre quello di manipolare lo spettatore, mettendolo a conoscenza di cose che i protagonisti non sanno. 

Giocando insomma, con l'ansia di giustizia dello spettatore, ed esasperandone l'attesa. Senza sovvertirla mai, nei valori morali di riferimento. 

Mi sembra invece che se proprio si vuole trovare un capostipite di questo geniale e terribile rovesciamento morale, esso vada cercato in Stanley Kubrick e nel suo Arancia Meccanica (1971), tratto dal romanzo di Anthony Burgess. 

In quel film, infatti, per la prima volta, viene completamente rovesciato il senso morale dello spettatore, il quale - seguendo le atroci scorribande di Alex e della sua banda - è condotto per mano, prima a simpatizzare con il contesto (Alex è un delinquente glamour, un vero dandy, dai gusti raffinati, che si esalta con Beethoven e che pratica l'ultra violenza gratuita come fosse arte) - e poi a schierarsi decisamente con lui (con un omicida efferato, un violentatore, un sadico), quando il sistema, attraverso La cura Ludovico, lo trasforma in un docile agnello che prende calci e non li restituisce perché non può. 

Quando nel finale del film si intuisce che Alex è 'guarito' dalla cura, ed è tornato quello di prima, il suo ghigno efferato ha conquistato definitivamente lo spettatore.  Tutti, nessuno escluso, siamo felici che Alex sia diventato la bestia d'uomo che era prima. 

Nessuno era arrivato a tanto, e con tale esemplare chiarezza enunciativa.  Arancia Meccanica per la prima volta scoperchiava il cuore nero degli spettatori, e li costringeva, senza più filtri, a guardarvi per bene dentro. 

Fabrizio Falconi




18/11/14

Interstellar - Una domanda sulla morte.




Anche Interstellar - come ogni altro film di Christopher Nolan - ha attirato critiche da parte della comunità scientifica per le inesattezze contenute (Qui si può leggere anche la risposta del regista). 

Ma è fin troppo ovvio che ad un artista non si chiede di fare divulgazione scientifica (con lo stesso metro quale scienza approverebbe il Bambino delle Stelle finale di Kubrick nella Space Odissey?) ma di raccontare una storia e possibilmente aiutare a riflettere sulla contemporaneità. 

Nolan lo fa. 

Interstellar è un film prezioso, perché costringe a riflettere sul tema della morte e della distanza. L'astronauta Cooper perso nei meandri di un buco nero (lo scienziato di cui sopra boccia l'ipotesi che si possa sopravvivere ad una caduta in un buco nero, ma ad essere esatti nemmeno si è guardato con attenzione il film, perché qui si parla tecnicamente di uno wormhole e non di un buco nero, sono due cose diverse e a quanto pare ancora nessun umano c'è mai finito dentro), si ritrova - come morto - in una dimensione quantistica separata dal piano terrestre reale, ma non del tutto. 

Cooper può vedere (?) davanti a sé squadernati tutti i tempi di vita, della sua vita terrestre, quelli di sua figlia, come se fossero disposti sullo scaffale di una libreria. 

La morte è dunque forse proprio questo essere fuori, questo essere oltre, questo essere prigionieri ?

La morte di Cooper non è - per esigenze di copione, come scopriremo alla fine - una morte.  Ciò che è morto però è il tempo, che non riusciamo mai ad immaginare per quello che esso effettivamente è: una convenzione, soltanto una delle dimensioni possibili. 

Non ho paura della morte, ho paura del tempo, dice in una memorabile battuta il professor Brand, alias Michael Caine, teorico della Nasa nel film.

Sembrano la stessa cosa, ma non lo sono. 

Fabrizio Falconi

16/07/14

Non si "deve" vedere tutto ! Curare ciò che entra dagli occhi.





La sottile dittatura globale sotto la quale viviamo ormai da qualche tempo ha imposto un nuovo paradigma. In effetti si vive ormai nella società della visione. 

Dove tutto non solo è consentito, e cioè visibile (e visibile per tutti e a tutti), ma tutto è anche raccomandabile o doveroso

Chi non vede o non vuole vedere è quantomeno fuori dal gioco e nel grande gioco della dittatura della visione è naturalmente un disfattista

La visione viene sollecitata, blandita, invitata, raccomandata, perseguita, propagata in ogni modo, grazie al Vaso di Pandora della tecnologia: su un campo di calcio una volta c'era una telecamera, oggi ce ne sono trentasette; in un solo scorrimento di una home di facebook, puoi gustarti cento video, cento immagini, dalle più orripilanti alle più suadenti; con i nuovi google glass puoi anche avere la tua visione soggettiva o la visione di un altro in un infinito gioco di aspetti narcisistici. 

E chi non vuole, chi si sottrae ? 

E' un inadeguato o un pauroso o un antico

La vecchia Cura Ludovico che Burgess e Kubrick avevano immaginato agli albori dei '70, costringevano il povero Alex (Malcolm Mc Dowell) a cibarsi di immagini di orrore e sesso, senza poter chiudere mai gli occhi.  I ferri lo costringevano a vedere.  Il veleno che gli iniettavano nel sangue serviva per associare a quelle immagini sensazioni di vomito e repulsione. 

La Cura Ludovico, però, falliva.   Alex, uscito pecorella dal trattamento, nelle ultime immagini del film è già pronto a tornare Lupo. 

Anche oggi siamo un po' tutti come Alex. Costretti a vedere tutto. Forse nella convinzione che vedere tutto ci renderà tutti più agnelli, più mansueti, meno bisognosi. 

Ma è difficile che andrà così. 

Gli occhi sono specchio dell'anima, recita un vecchio aforisma. Ma il senso dell'affermazione è bilaterale: non significa soltanto che ciò che è nell'anima passa, si vede attraverso gli occhi, ma anche il contrario e cioè che quello che entra dagli occhi va - passa, si vede - direttamente nell'anima. 

Per questo gli occhi hanno palpebre.  E' stato deciso così.  Vedere non è un dovere.  Vedere è e resta una libera scelta dell'essere, sempre. 
Chiudere gli occhi non vuol dire non vedere.  Chi chiude gli occhi, anzi, spesso ha gli occhi più spalancati degli altri che credono di vedere.

Eyes wide shut, diceva ancora Kubrick, nel suo testamento finale.