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30/11/15

Karl Ove Knausgård, "La morte del padre" (RECENSIONE).




Mi ero piuttosto incuriosito riguardo al fenomeno Karl Ove Knausgård.

Lo scrittore, nato a Oslo nel 1968, ha studiato letteratura all’Università di Bergen e vive a Malmö, in Svezia. 

Per il suo primo romanzo Ute av verden (1991) è stato insignito del Norwegian Critics Prize for Literature, primo caso di assegnazione del premio a un debuttante. 

Il secondo romanzo, En tid for alt, ha vinto molti premi ed è stato giudicato tra i migliori 25 romanzi norvegesi di tutti i tempi. 

Ma dopo questi due primi romanzi, il caso è diventato con quello che in molti hanno definito il suo capolavoro, una vera sfida narrativa: sei volumi intitolati La mia battaglia, più di 3500 pagine autobiografiche, di cui La morte del padre (2014), tradotto in Italia da Feltrinelli - come gli altri - è il primo volume della serie. 

Sono invece rimasto molto deluso dalla lettura. 

Nel corso di più di 500 pagine, Knausgård, racconta sostanzialmente la propria vita. Priva di eventi memorabili, priva di circostanze straordinarie.  Una vita assolutamente comune, ordinaria ma - è questo che conta - raccontata in modo assolutamente ordinario e mai veramente letterario. 

Diviso in due parti piuttosto nette, nella prima, La morte del padre racconta della adolescenza dello stesso autore: una famiglia come tante, nella fredda e quieta Norvegia, i primi ricordi - di quando aveva otto anni (la parte migliore del libro) - le prime sbronze da sedicenne, i sotterfugi, i silenzi del padre, i primi amori immaginati o vissuti, le schitarrate rock, i gusti degli adolescenti che sono comuni in tutto il mondo.    

Nella seconda, entra in scena la morte del padre - molto più avanti dunque temporalmente nella vita di Karl Ove che adesso è sposato e ha due figli, e fa già lo scrittore - che è morto alcolizzato in casa della madre (la nonna di Karl Ove), il ritorno alle origini dello scrittore e di suo fratello Yngve, la scoperta di una deriva e di un degrado totale che ha portato il padre a morire in una casa piena di rifiuti, di escrementi, di sigarette e di bottiglie vuote; lo sforzo dei due fratelli per rimettere in sesto la casa, preparare i funerali, affrontare il dolore silenzioso e traumatico della nonna, divenuta quasi afasica. 

In tutto questo, Karl Ove si mette - o si vorrebbe - mettere a nudo, raccontando tutto di sé, dei suoi moti interiori, delle sue debolezze strutturali e caratteriali - il pianto che affiora decine di volte, prima e dopo la morte del padre - dei suoi piccoli e grandi tormenti, dei suoi silenzi - pochi - dei suoi interrogativi irrisolti. 

Il lettore viene trascinato quindi in una specie di flusso ininterrotto di elementi poco significativi, quasi risucchiato dentro una narrazione minuziosa fino all'eccesso insostenibile, che racconta ogni movimento, ogni dettaglio inutile, ogni particolare trascurabile. 

E' perfino dichiarato dall'autore, nel corso del suo lunghissimo monologo, che il modello è la Recherche proustiana. Ma è un modello molto rischioso per Kanusgard, che non può non perdere la scommessa su tutta la linea. 

La narrazione non decolla mai, non è mai vera letteratura, ma solo accumulo di inutili informazioni. La lentezza inane del racconto smonta ogni ipotesi lirica, ogni sostanza vera, lasciando la continua sensazione di una operazione furba, e nulla più. 

Knausgard non ha molto altro da offrire che questo racconto onanistico, che non arriva mai al punto, e che non aggiunge nulla a quel che c'era prima (del racconto), se non questo compiacimento masochistico, vittimistico. 

Dovendo sintetizzare, mi sovvengono queste parole di Benedetto Croce, che mi pare si adattino perfettamente alla narrazione dell'autore norvegese: 

Il senso comune, quando non pretende di diventare scienza ha sovente ragione. Per esempio ieri una signora mi diceva a proposito di un volumetto di novelle: "Che cosa importano codeste storie, di cui posso raccogliere larga messe sol che presti un momento l'orecchio a una conversazione qualsiasi ? Che m'importano codeste descrizioni di cose o di parti di cose che veggo dappertutto, sol che volga l'occhio intorno ? La vita volgare la conosco anche io. Gran bisogno di leggere un libro per conoscerla ancora una volta !"
E la signora aveva ragione. Non che l'arte non sia libera di rappresentare quel che voglia... Ma l'artista ha il dovere di rappresentare ciò che franca la spesa di rappresentare, ciò che interessa.  Accade il medesimo della verità scientifica. Se io conto a una a una tutte le fave che sono in un sacco, dico forse una bugia o un errore ? No: anche quel numero è una verità. Ma spendo bene il mio tempo ? Chi avrebbe il coraggio di rispondere di sì? (Benedetto Croce, Dal libro dei pensieri, Adelphi, 2002, pag.20). 

Ecco: Knausgard conta molto bene le sue fave. Ma non ho speso bene il mio tempo a sentirle contare.

Fabrizio Falconi