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14/12/21

Libro del Giorno: "Sedurre da dio" di Olga Cirillo

 


Non è soltanto una idea editoriale, come oggi purtroppo chiede tirannicamente il mercato editoriale editoriale: in questo libro c'è molto di più. 

Si tratta di un originale e interessantissimo saggio, scritto da Olga Cirillo, che vive e lavora a Napoli e si occupa principalmente di poesia elegiaca ed è stata cultrice della materia di Letteratura Latina all'Università Federico II, nel quale l'autrice esplora i miti classici, da Era e Afrodite e Apollo, a Giasone e Teseo, a Enea e Odisseo, a Pandora e Elena, fino a Narciso e Eros e Psiche. 

Un viaggio sorprendente attraverso il mito per scoprire quello che la psicologia analitica sa già molto bene, e cioè che le figurazioni antiche descrivono il campo delle emozioni umane - e di conseguenza delle relazioni - meglio di qualunque trattato specifico e con una chiarezza incredibilmente moderna.  Ciò è particolarmente interessante considerando la grande confusione che sembra regnare sopra le relazioni amorose umane, dove tutto sembra o sembrerebbe molto più complesso e complicato rispetto al passato. 

Non è così e il nostro è semplicemente un errore di prospettiva. Le dinamiche amorose infatti rispondono, per linee generali, ma anche nel particulare dei simbolismi, a quanto è descritto nel racconto mitologico dell'età antica.

Il viaggio attraverso la narrazione di alcuni tra i più noti miti erotici del mondo antico percorre i diversi volti della seduzione. Quando il desiderio interviene nella vita, provoca cambiamenti e conflitti, fino a che non si realizza. Nel racconto mitologico, a indurlo è sempre un’influenza divina, quella di Eros o di Afrodite, che contano su uno o più oggetti magici. In qualche caso, essi agiscono insieme, combinando le proprie strategie come complici perfetti, il che, tuttavia, non risparmia loro di soffrire delle stesse pene che riservano alle inconsapevoli vittime.

Nella interpretazione moderna, come insegnano Jung e Hillman, alle entità divine si possono sostituire, con pregnanza di senso, le figure archetipiche che sono alla base dei comportamenti e della storia umani. Figure che vivono dentro ciascuno di noi e che nomi come: "carattere", "destino", "predisposizione", "affinità", definiscono sinteticamente, in mancanza di meglio. Anche perché la natura umana - e l'eros rappresenta la natura umana alla sua massima potenzialità - si muove su basi ancestrali ancora del tutto inesplorate: chi si aspettasse di poter definire la dinamica amorosa in base a mere teorie psicologiche o psicanalitiche o peggio ancora, con motivazioni genetiche o neuronali, non ne capirebbe niente.  

Nell'amore c'è un quid potente che ci continua a sfuggire e che - per fortuna - sconvolge ogni nostro piano e ogni nostra previsione o controllo.

E' di questo quid che parlano - emozionandoci - questi miti, raccontandolo nel modo più sincero, più veritiero possibile.  E di questo quid è fatto quindi anche questo splendido libro.

Fabrizio Falconi 

Olga Cirillo
Sedurre da dio 

26/09/19

Il carattere proprio dell'amore: il Simbolo di Platone.



Il simbolo come azione che compone i distanti

Nel Simposio di Platone ritroviamo la parola Simbolo per designare il carattere proprio dell'amore: che è, appunto, Simbolo di quell'unità che lega gli uomini in quanto provenienti da una stessa origine e in quanto alla ricerca, con il consenso pietoso degli dèi, di quell'unità che, proprio a causa degli dèi, è stata spezzata.
Per questo ogni uomo è simbolo, tessera dell'uomo totale: Hékastos oun emon anthropou symbolon.

Simbolo è dunque espressione che dice unità da remote distanze, tensione verso una totalità assente richiamata dall'incompiutezza di senso della situazione presente.
In termini junghiani: se l'Io è l'espressione della "situazione" presente, il Sè è quella "totalità" assente verso cui il simbolo de-situa. Il Sè dell'uomo (das Selbst) è infinitamente più comprensivo del suo Io (das Ich), così come i confini del possibile sono infinitamente più ampi della realtà determinata e consaputa.
Nella dialettica Io-Sé, Jung dà forse una delle migliori descrizioni della coscienza simbolica, che poi non è altro che la conoscenza umana salvata da quell'irrigidimento nella dimensione razionale, in cui la cultura occidentale l'ha costretta, quando ha ideato quel reticolato di segni per la de-signazione delle cose. Tra "segno" e "simbolo" corre infatti quella differenza che i Greci avevano intuito tra "dia-bàllein" e "sym-bàllein", tra disgiunzione e composizione.

20/09/19

Nulla succede per caso. Sincronicità e coincidenze nei periodi di transizione della nostra vita




Ci sono nella vita periodi che possiamo chiamare di transizione: sono quei periodi in cui la stabilità non è tale da darci soddisfazione interiore, e allora sentiamo di dover operare dei cambiamenti in un'esistenza diventata noiosa e paralizzante;  oppure momenti in cui eventi incontrollabili gettano lo scompiglio in una situazione che avevamo ormai accettato.   Talvolta questi periodi di transizione possono essere provocati da entrambi gli elementi: una necessità interna di cambiamento e una serie di eventi esterni che ci fanno uscire da un solco nel quale non sapevamo neppure di trovarci. 

Molti individui, durante questo processo di transizione, ricevono un aiuto non soltanto esterno o sociale, ma di carattere interno e psicologico: senza che lo desideri o lo si cerchi esso giunge nella forma di una sequenza accidentale di eventi che si verifica nel momento più adatto per aiutarci a proseguire, spesso proprio quando abbiamo la sensazione che ci sia ormai poco da fare. 

Uno dei tratti distintivi della concezione junghiana della psiche è la convinzione che essa sia un fenomeno naturale e che tutti i suoi aspetti, compresi quelli in apparenza patologici o distruttivi, abbiano in realtà la funzione di far sì che lo sviluppo psicologico non si arresti. 

La visione di Jung, secondo la quale i fenomeni psicologici hanno sempre una loro funzione, rafforza la sua concezione di sincronicità. Quando accadono eventi acausali, significativi sotto il profilo emotivo e sotto quello simbolico, il fatto di sperimentare psicologicamente una sincronicità consente in qualche modo di procedere.  

Ecco perché le sincronicità si verificano sempre in momenti di transizione cruciali.

Come l'aiuto che spesso riceviamo dall'esterno, la psiche ci fornisce a volte un aiuto interno e psicologico in forma di coincidenze significative. 





27/10/18

Jung: Una formidabile pagina dedicata agli uomini che si identificano del tutto con il proprio ruolo o con il proprio ufficio.



Comunissimo è il caso della sciatta identità di molti uomini con le loro occupazioni o col loro titolo. 

Certamente il mio ufficio è un'attività che mi compete, ma è in pari tempo un fattore collettivo, nato storicamente dalla cooperazione di molti e la cui dignità deve la sua esistenza soltanto a un consenso collettivo. 

Se quindi io mi identifico col mio ufficio o col mio titolo, mi comporto come se fossi io stesso l'intero fattore sociale che costituisce un ufficio, come se io fossi non solo il titolare dell'ufficio, ma anche il consenso della società. 

In tal modo io mi sono inconsuetamente espanso ed ho usurpato qualità che non sono in me, ma fuori di me. 

"L'Etat c'est moi", ecco il motto di questa gente. 

L'identificazione con l'ufficio o col titolo ha perfino qualcosa di seducente, sicché molti uomini non sono nient'altro che l'ufficio conferito loro dalla società. 

Sarebbe vano cercare sotto tale scorza una personalità. 

Dietro la gran gonfiatura si troverebbe solo un miserabile omiciattolo

Perciò l'ufficio è così seducente: perché rappresenta una comoda compensazione delle insufficienze personali. 

Carl Gustav Jung, L'Io e l'inconscio, p.48.

18/06/16

Il Libro del giorno: "Jung Parla (interviste e incontri)".




Volume preziosissimo che raccoglie quasi tutte le interviste pubbliche e i resoconti degli incontri di Carl Gustav Jung dal 1912 al 1960. 

Ripetizioni a parte - che potevano forse essere evitate nella cura del libro - il volume offre pagine assolutamente straordinarie che testimoniano il genio immenso di Jung e anche i suoi limiti, le sue umane debolezze. 

Grandi le pagine sullo studio dei dittatori, quelle sulla "eternità" della psiche, sulla sua atemporalità, commovente il suo tentativo di offrirsi, "uomo che pensa" alla comprensione e al sapere del "non umano". 

Un libro da leggere e da rileggere, da tenere tra i preferiti di sempre. 








16/06/15

Immigrati, un esodo biblico. La nostra Nemesi.



La tragedia che si svolge sotto i nostri occhi ogni giorno ora, ha un nome preciso: Nέμεσις, Nèmesis. 

Queste migliaia che vengono da noi ora con i loro stracci, reietti, additati come portatori di scabbia e altri castighi biblici, sono i figli dei figli di coloro che l'uomo bianco ha affamato e reso schiavi per secoli, da quando i galeoni della Nuova America portarono in catene quei figli d'Africa, a milioni, da quando le grandi potenze europee si spartirono un bottino che sembrava infinito, senza alcuna pietà, riducendo un meraviglioso continente ad una tabula rasa, spargendo guerre e inimicizie, affondando le avide mani, sradicando popoli interi dai loro riti e dalle loro culture millenarie. 

Per Nemesi, ora, queste masse di diseredati che non hanno più nulla alle loro spalle vengono e verranno ad esigere il nostro domani. 

Ciò non è detto per pacificare coscienze. Tutt'altro. Il fatto che noi non si sia direttamente responsabili di ciò che succede dall'altra parte del Mediterraneo (ma è poi vero ?) non assolve e non concede alibi. 

Getta semmai, valutando le desolate immagini di questo esodo oramai biblico, qualche ombra lunga sulla smisurata presunzione di una Civiltà progressista, in progresso, quasi come se la Storia non avesse insegnato nulla.

E' forse bene allora rileggere queste considerazioni di C.G. Jung in Tipi psicologici, p.152.

Proviamo a dar via libera agli istinti dell'uomo civilizzato ! Per gli esaltatori entusiasti della civiltà, non ne sgorgherà altro che bellezza. Questo errore non è che il frutto di una profonda ignoranza psicologica. Le forze istintuali compresse nell'uomo civilizzato hanno un'enorme potenza distruttrice e sono assai più pericolose degli istinti dell'uomo primitivo, il quale vive costantemente in misura modesta i propri istinti negativi. Per questo motivo nessuna guerra del passato supera in orrore le guerre tra nazioni civili. 

Fabrizio Falconi

in testa: La Nemesi alata, armata di spada e clessidra, in un quadro di Alfred Rethel del 1834

26/07/14

Goebbels, Goering e .. Jung.


Il celebre aforisma: Quando sento qualcuno parlare di cultura, metto mano alla pistola (terribilmente attuale anche nel mondo analfabetizzato di oggi) è da sempre erroneamente attribuito (e anche oggi, nel mare magnum inconsapevole della rete) a Goebbels (il quale, però, come riferiscono le cronache storiche era fin troppo sofisticato per pensare e pronunciare una cosa simile). 

La frase, come si sa, fu invece pronunciata da Hermann Goering (un gerarca molto più rozzo e concreto del cerchio magico che contornò Adolf Hitler durante gli undici anni della sua dittatura), e originariamente recitava: Quando sento qualcuno parlare di cultura, la mano mi corre al revolver

Pare in effetti che Göring amasse ripetere questa frase, la quale tuttavia origina da una battuta di un dramma molto in voga in quegli anni e ispirato alla figura di Albert Leo Schlageter (una specie di "martire nazista"), nel cui testo un personaggio si rivolge all'omonimo protagonista esclamando Quando sento parlare di cultura [...] tolgo la sicura alla mia Browning! ( in lingua originale: Wenn ich Kultur Höre ... entsichere ich meinen Browning (Atto 1, scena 1).

Tornando a Goebbels, quella in testa è - a quanto mi risulta l'unica foto esistente che ritrae il Ministro della Propaganda nazista mentre sorride.

Fa parte di una celebre serie realizzata dal fotografo tedesco, naturalizzato americano (ebreo) Alfred Eisenstaedt e pubblicata da Life che ritrae Joseph Goebbels durante la sua partecipazione al Convegno della Società delle Nazioni a Ginevra nel settembre del 1933, e alla quale appartiene anche l'altra celebre foto recentemente colorizzata, nella quale Goebbels guarda minaccioso nell'obiettivo.  





Questa foto è giustamente famosa nel mondo e citata per la sua capacità di cogliere l'attimo dello scatto che rivela la ferocia del Ministro della Propaganda nascosta sotto l'apparenza delle buone maniere, allorquando Goebbels, poco prima dello scatto (o nel momento stesso) viene informato che colui che lo sta fotografando è un ebreo.   

E sempre a proposito di Goebbels, esiste un racconto (non confermato), proprio di questo periodo,  che viene riferito anche dallo studioso inglese Arthur I. Miller, nel suo libro L'equazione dell'Anima,  (Rizzoli, 2009), un saggio costruito intorno alle figure, alla corrispondenza e ai rapporti tra il fisico Wolfgang Pauli e Carl Gustav Jung.

Secondo questo racconto Joseph Goebbels, nel 1934, convocò  C.G.Jung (la vicenda non trovò mai una conferma ufficiale, ma fu riferita da uno scrittore amico di un paziente di lungo corso di Jung), a Berlino perché assistesse ad alcune cerimonie in cui erano presenti Hitler, il comandante dell'aviazione tedesca Hermann Goering e il capo delle temute SS Heinrich Himmler. Il compito affidato a Jung (all'epoca residente in Svizzera a Zurigo e già ritenuto un nume tutelare della psichiatria) era di stabilire se quegli uomini fossero pazzi e riferire le sue impressioni su quel manipolo di personaggi perché in tal caso "con una operazione segreta, sarebbero stati uccisi. e organizzato un colpo di Stato."  

Stando al racconto, Jung andò e ci mise molto poco per convincersi che in effetti erano tutti pazzi. Ma, temendo per la propria vita,  "si guardò bene dal riferirlo a Goebbels, perché non si fidava di lui e lo riteneva il più pazzo e il più pericoloso di tutti."

Chissà se l'episodio risponde al vero. In caso affermativo resterebbe la curiosità di sapere come si sarebbero svolti gli avvenimenti successivi nel caso di un responso esplicito di Jung.  Una delle tante sliding doors della storia, di cui non conosceremo mai gli  esiti alternativi. 

Fabrizio Falconi - © riproduzione riservata. 

04/07/13

Cari psicoanalisti, leggete King. Un intervento di Emanuele Trevi sul Corriere della Sera.



È abbastanza comune affermare che per amore si arriva a delirare, eppure il desiderio e il delirio, in quell’assurdo labirinto che è la mente umana, possono anche diventare feroci antagonisti. Chi nega o in qualunque modo scaccia dalla coscienza il proprio desiderio, sta già delirando. E non c’è energia mentale più potente, si direbbe, di quella dell’errore e dell’autoinganno. Per certi individui, rivelare a se stessi ciò che veramente amano è l’impresa più difficile. Tale è il loro orrore della verità, che sono capaci di costruire interi mondi fittizi per seppellirla più a fondo che possono. Ma più di tanto, per quanto si sforzino, non possono. Ed è qui che cominciano i guai. Tra i narratori più efficaci di questa ingegnosa trappola psicologica, il prolifico Wilhelm Jensen occupa un posto del tutto particolare. Da poco ristampata con le bellissime illustrazioni di Cecilia Capuana Gradiva (Donzelli) è l’unica sua opera, tra le decine che ne scrisse, ad essergli sopravvissuta. Lo scrittore tedesco pubblicò questa fantasia pompeiana, come la definì, nel 1903, quando era già avanti con gli anni e all’apice di una vasta ma effimera fama.

Sarebbe un vero peccato se anche Gradiva fosse scivolata nell’inesorabile gorgo dell’oblio. A rileggerlo oggi, questo breve romanzo sentimentale-archeologico, mascherato da storia di spettri, conserva una notevole forza di persuasione. Com’è noto, però, a garantire all’opera la sua durata nel tempo non furono né i lettori di narrativa né i critici letterari, ma l’interesse, quasi vampiresco, di Sigmund Freud. È questa circostanza a rendere del tutto eccezionale la fortuna dell’operetta di Jensen. Fu Carl Gustav Jung, nell’aprile del 1906, a mettere in mano a Freud Gradiva. Erano ancora lontani, Freud e Jung, dalla clamorosa rottura del 1912. Erano i tempi eroici della Società di Vienna, e quegli eccezionali speleologi procedevano solidali, come fossero legati in cordata, nei cunicoli e nelle voragini della coscienza umana. Le loro idee provocavano una generale diffidenza, che rafforzava la solidarietà fra gli iniziati. Ad ogni modo, il romanzo di Jensen, intessuto com’era di fantasie deliranti e sogni rivelatori, e pervaso da una potente corrente erotica, fece letteralmente balzare Freud sulla sedia. Durante le vacanze estive, trascorse come d’abitudine all’Hotel du Lac di Lavarone, Freud si mise all’opera componendo quello che sarebbe destinato a rimanere uno dei suoi saggi più limpidi e belli, intitolato Il delirio e i sogni nella «Gradiva» di W. Jensen, pubblicato la prima volta nel 1907. Quando si dice (giustamente) che Freud è un grande scrittore, è a testi come questo che bisogna pensare. Dando fondo alle sue innate qualità di narratore Freud riscrisse Gradiva creando quello che Giorgio Manganelli avrebbe definito un «libro parallelo». Ci si può rendere conto del valore e dell’importanza dell’impresa servendosi di un vecchio ma utilissimo libro curato nel 1961 da Cesare Musatti, intitolato Gradiva, che ristampa insieme il romanzo di Jensen e il saggio di Freud, accompagnati da un intelligentissimo commento.

L’interesse dell’autore dell’Interpretazione dei sogni per le avventure italiane del giovane archeologo tedesco Norbert Hanold è più che giustificato. La sua è una vicenda che rende manifesto, in modo molto più efficace di qualunque trattazione scientifica, il funzionamento della rimozione, che dei meccanismi della psiche umana è il più pericoloso e gravido di conseguenze. L’eroe di Jensen ha consacrato l’esistenza alla sua unica passione, l’archeologia. Solo al mondo, le uniche figure femminili che ha considerato sono fatte di marmo e di bronzo. E di una di queste figure arriva addirittura a innamorarsi. O perlomeno, così lui stesso crede che vadano le cose. Si tratta, ad ogni modo, di un’opera d’arte realmente esistente, e conservata ai Musei Vaticani: il bassorilievo di una fanciulla velata che cammina, dirigendosi chissà dove, sollevando con la mano un lembo della veste. L’elemento più notevole della figura è la posizione del piede destro, sollevato in maniera quasi perpendicolare al suolo. È questo particolare che genera in Norbert una vera ossessione per l’opera così leggiadra di un ignoto artista greco, da lui ribattezzata Gradiva, «colei che avanza», versione femminile dell’epiteto che in latino accompagnava abitualmente Marte.

Un misterioso concatenarsi di sogni e premonizioni induce Norbert a partire da un giorno all’altro per l’Italia, finendo per cercare le tracce della Gradiva tra le rovine di Pompei. E in effetti, la incontrerà, ma in carne ed ossa. Ma non si tratta di uno spettro autorizzato a vagare nella luce del sole nell’ora meridiana, come crede il giovane archeologo, ma della ben concreta e viva Zoe Bertgang, vicina di casa di Norbert e sua amica d’infanzia, ben decisa a sposarlo. È questo personaggio femminile l’invenzione più riuscita di Jensen, e la sua strategia finisce per affascinare Freud molto più dei sintomi di Norbert. Zoe comprende al volo che il giovane non solo l’ha totalmente dimenticata, ma la crede un fantasma del passato, morta a Pompei nell’eruzione del Vesuvio del 79 dopo Cristo. Ma la peggiore strategia da usare con un delirante è quella di sbattergli in faccia la realtà, nuda e cruda. Per tirare a sé Norbert, serve una lenza più sottile. Sarà necessario accettare il particolare ordine di realtà in cui vive Norbert, e aspettando di scardinarlo, prestarsi al ruolo del fantasma della fanciulla pompeiana morta sotto le ceneri del vulcano.

Emanuele Trevi

Fonte: Corriere della Sera

27/01/13

Jung parla della morte





Traggo questa meritoria traduzione di questa intervista - fatta da C.G.Jung poco tempo prima di morire - da 
Il Blog di Andrea Gentile. E' una riflessione molto interessante sulla morte, che chi vuole può ascoltare direttamente sul sito soprastante e chi preferisce, può leggere qui sotto.

Intervistatore: Ricordo che una volta dicesti che la morte, a livello psicologico, è importante tanto quanto la nascita……. ma la morte è una fine?

Jung: Se la morte è una fine non si sa con certezza, perchè sappiamo che ci sono queste particolari facoltà psichiche che non sono interamente confinate in uno spazio e in un tempo; possiamo avere sogni o visioni….  e tu esisti e probabilmente sei sempre esistito. Questi fatti dimostrano che la psiche in parte non è dipendente da questi confini, e quindi se la psiche non è sotto l’obbligo di vivere solamente in uno spazio ed in un tempo (e di certo non lo è), allora è ammesso che praticamente c’è una continuazione della vita e quindi una sorta di esistenza oltre il tempo e lo spazio.

Tu credi che la morte sia una fine?

Jung: Bene, io non posso dire credo…. credere è una cosa difficle per me, io non credo, devo avere delle ipotesi, ma se lo so, non ho bisogno di crederci... quando ci sono sufficienti motivi per una certa ipotesi, io devo accettarla, potrei dire che dobbiamo riconoscere quantomeno la possibilità della sua esistenza.

Int. : (Qui c'è una domanda sulla morte come fine certa e su che visione dovrebbero avere gli anziani rispetto alla morte)

Jung: Io ho trattato molti pazienti anziani ed è molto interessante vedere come l’inconscio agisce sulla concezione della morte come apparentemente definitiva… Io penso che è meglio per le persone anziane guardare avanti al giorno successivo, come se ci fossero secoli ancora da vivere e solo così vivrà correttamente,….. se al contrario sarà spaventato e guarderà indietro si pietrificherà, si irrigidirà e morirà prima del suo tempo. Ma se guarderà avanti guardando fiducioso nella grande avventura della vita che ha davanti, allora vivrà…. e questo è il vero significato al quale tende l’inconscio. Dato che è abbastanza ovvio che moriremo tutti e questo è il triste finale di tutto….. [ anche qui c'è un passaggio che non ho ben compreso dato il suo inglese]…. Io non so perchè abbiamo bisogno di un’anima, ma preferiamo avere anche un’anima, perché in questo modo ti senti meglio, e così quando pensi in una certa maniera ti potrai considerevolmente sentire meglio….. e penso che se pensi attraverso le linee della natura, pensi correttamente!

06/10/12

I-Ching, Jung, il Caso e il Caos.




Parliamo di Caso, di quello che gli uomini chiamano caso, e sarà bene richiamare l'etimologia della parola, che deriva dal latino: casus, dal verbo cadere.

Ed è solo il 'caso' di ricordare che in italiano caso è anagramma di caos, il quale deriva a sua volta dal greco chàos, ovvero abisso.

In tutte e due le parole, quindi, c'è un richiamo al cadere giù, alla profondità: il Caos e il Caso sono forze che ci trattengono giù mentre noi - la volontà umana - cerca di andare su, erigendo costruzioni di ordine e di senso, anche laddove Caos e Caso sembrano regnare sovrani.

In Oriente l'approccio a questo ordine di problema, nel corso dei secoli è stato significativamente diverso da quello occidentale, dove hanno predominato il razionalismo aristotelico e il rigore del metodo empirico.

Il massimo tentativo di ordinamento, di dare ordine ad una linea casuale, in Oriente, è quello rappresentato  dai famosissimi I-Ching. Anche detto Libro dei Mutamenti, uno tra i più vecchi testi cinesi, risalente secondo alcuni a 2.000 anni prima di Cristo.

L'I-Ching è basato su 64 esagrammi, ciascuno composto da sei linee spezzate (energia yin) o intere (energia yang).

Attraverso il ripetuto lancio di tre particolari monete, colui che desidera porre una questione sulla propria vita, costruisce l'esagramma profetico per individuare il responso alla domanda posta.

Le line cosiddette mobili determinano un secondo esagramma, che fornisce le indicazioni circa l'eventuale sviluppo dell'attuale situazione.

Penso sia noto a molti il pensiero di Carl Gustav Jung, a proposito dell'I-Ching, che è bene espresso nella celebre prefazione al testo, nella edizione inglese del libro, stampata nel 1949.

Oggi si trova in molte edizioni - la migliore quella di Adelphi (1991).

Consiglio a tutti questa lettura - sono poche pagine - in cui Jung sembra voler smantellare pezzo per pezzo la nostra concezione moderna, molto occidentale di casualità (e di causalità).

L'I-Ching non ha mai smesso di suscitare interesse e perplessità: come possono sentenze pre-scritte da qualcuno, duemila anni fa in Cina, rispondere casualmente alle mie esigenze, alle domande che io pongo oggi?

Jung spiega come tutta la scienza occidentale sia fondata sul concetto della causalità, considerata come verità assiomatica: tutto ha una spiegazione, e una causa.

L'evoluzione (e in particolare la fisica moderna) ha portato invece l'uomo a capire come quelle che vengono chiamate Leggi Naturali siano soltanto verità statistiche, condannate a contemplare eccezioni e valide soltanto fino alla successiva evidenza contraria. 

Nelle eccezioni alle consolidate Leggi Naturali  - poniamo ad esempio la cosiddetta Energia Oscura dell'Universo, che non obbedisce alle nostre conoscenze attuali - gioca la sua parte il caso.

Così, se noi interpelliamo il meraviglioso libro dell'I-Ching, ottenendone dei responsi sapienziali che sembrano scritti per noi, in quel momento, la causa non sembra da ricercare solo nella abilità degli amanuensi cinesi.

Chiunque abbia provato ad interrogare il libro - con serietà (seguendo le regole, e quindi consultando e studiando solo il libro, secondo le regole), e non attraverso gli orridi giochetti che girano via internet - potrà citare episodi sorprendenti.

Ma, scrive Jung, siamo perplessi soltanto noi, giacché inciampiamo sempre di nuovo nel nostro pregiudizio, ovvero nella nostra nozione di causalità.

Che significa ignorare le molte forze psichiche che sembrano prescindere la nostra volontà razionale, che sono inconsce, ma stranamente in sintonia con un sentire ulteriore (quelli che Jung chiama archetipi). E ci tendono mille trabocchetti alla nostra smania ordinatrice, facendoci appunto scivolare o cadere nel caso.

O - se non sappiamo venirne fuori - nell'abisso del Caos.

Fabrizio Falconi.

29/10/11

E' morto James Hillman .



E' morto ieri a Thompson, USA, il grande James Hillman.

Non esito a definirlo una delle 'grandi anime' che ha attraversato il Novecento (e questi primi anni del Duemila).  Sono sicuro che il suo pensiero rimarrà, e sarà anche fondamentale per com-prendere qualcosa in più di noi stessi, di quello che siamo, che siamo diventati, e in cui possiamo trasformarci.

Hillman si è battuto una vita intera - formandosi nell'alveo del pensiero junghiano - per mettere in luce come sia necessario, oggi più che mai indispensabile, liberare l'anima dalla prigione dei concetti che la opprimono, di tutti i pensieri, false culture, dogmi, che impediscono all'anima di ciascuno di noi di librarsi e di ottenere la pienezza invocata, che è lo scopo primario (anche se non riconosciuto e negato) di ogni esistenza.

Hillman insisteva sulla necessità di riprendere un linguaggio più arcaico e più ricco - il linguaggio dell'anima dell'uomo è sempre lo stesso, nei secoli - e di recuperare un contatto più autentico con quello che chiamava il linguaggio di Venere.  


Gran parte dei mali del nostro tempo, sosteneva Hillman, nascono proprio da questa incapacità di andare in fondo, di rompere la breccia di esistenze costituite su necessità inautentiche, di ritornare ad ascoltare la voce dell'anima, il codice di quella ghianda che è insita dentro di noi, che soffre per noi, che parla, che vuole farsi ascoltare e che noi spesso facciamo di tutto per NON ascoltare.

"Questa cultura" scriveva ne Il linguaggio della vita, intervistato da Laura Pozzo,  "ci vuole maniacali: iperattivi, spendaccioni, consumisti, spreconi, chiacchieroni, pieni di idee che ci saettano nella mente senza fermarsi perché per non riuscire noiosi non ne approfondiamo nessuna; così anche il senso della tristezza va perduto."

Ci mancherà Hillman, anche se riempiremo il vuoto con la profondità eloquente del suo capolavoro, Il codice dell'anima e degli altri capolavori che ci ha lasciato.

Qui il video-intervista IL SENSO DELLA VITA, realizzato da Silvia Ronchey qualche anno fa. 


19/09/11

Dieci luoghi dell'anima - Introduzione.



Chiunque di noi ha sperimentato, almeno una volta, giungendo in un luogo sconosciuto, di avvertire dentro il cuore, senza apparente motivo, una inspiegabile sensazione di familiarità, conoscenza, pace. Non ho usato questi termini casualmente: familiarità, conoscenza, pace.

Sono i paradigmi che ciascuno non si stanca di ricercare nel cammino della propria vita. E sperimentabili tutti e tre insieme soltanto per brevi illuminazioni, istanti di pienezza che si cerca di afferrare e tenere stretti, prima che, sfumando, si allontanino. Quando analizziamo i motivi dell’incantesimo che un luogo ci ha suscitato accogliendoci, tiriamo in ballo i ricordi dell’infanzia, le similitudini, le aspettative, le caratteristiche tipiche, le proporzioni, le forme, i colori.

Ma non è soltanto questo, io credo, che ci ha portato a sentire quella conoscenza, quella familiarità, quella pace. Andrej Tarkovskij, il grande regista russo, avvertiva, nei suoi diari: L’unica funzione della nostra coscienza è quella di creare finzioni, mentre la conoscenza è data dal cuore, dall’anima. La coscienza, sottende Tarkovskij, ci costringe sempre al distinguo, alla differenziazione, al ragionamento, all’opportunità, al calcolo.

Tutti aspetti che difficilmente si coniugano con la familiarità, con la pace e con quella conoscenza vera, intima che - sembra dirci uno dei registi del Novecento considerato più vicini allo spirituale, al sacro - si manifesta, accade, soltanto quando si spengono o si attenuano i gangli della nostra onnipresente coscienza, e lasciamo parlare il nostro cuore, la nostra anima. Per Tarkovskij, i due termini sembrano sinonimi: ma sappiamo che sulla distinzione tra ‘cuore’ e ‘anima’ si è discettato da sempre, in filosofia, in teologia, in mistica. E così (pensiamo a Santa Caterina da Siena), il cuore è stato identificato come la parte più autentica della personalità umana, quella parte che corrisponde al ‘sentimento’, quella “da cui sorgono le lacrime”, ed ogni esperienza emotiva.

Nella definizione di ‘anima’ per come è stata approfondita in psicologia, dagli studi a partire da Jung, c’è qualcosa di più: James Hillman, ricostruendo la storia di questo concetto, che parte dal genius dei latini, per attraversare il daimon dei greci e l’angelo custode dei cristiani, approda ad una definizione ‘larga’ di anima che contiene quel che di ineffabile è contenuto in ogni individuo umano. Quel che non si spiega con il materiale biologico ereditato, geni e cromosoma. 

Quella parte di noi, che noi – non sapendo definire meglio – chiamiamo con i più diversi nomi: ‘carattere’, ‘destino’, ‘predisposizione’, ‘vocazione’, e tanti altri. Quel ‘quid’ che fa di noi un essere unico e irripetibile. Io e voi,- scrive Hillman ne Il Codice dell’Anima - e chiunque altro siamo venuti al mondo con una immagine che ci definisce. Una immagine che ci definisce. E che dunque, è già definita. E se la nostra immagine, cioè la nostra anima, ha un ‘codice’ già pre-costituito, questo ‘codice’ non fa che interpretare – durante tutta la vita fisica su questa terra - i segnali dell’esistenza: incontri, persone, emozioni, esperienze personali, tutto viene filtrato dal linguaggio della nostra anima, sempre alla ricerca di qualcosa che possa essere ‘riconosciuto’ e ‘ricollegato’ ad una essenza che sembra precedere ogni altra acquisizione cognitiva. Questa parte del nostro essere - l’anima - rappresenta anche in termini cristiani, quel ‘ponte’ con lo spirito, quella parte che attraverso un ‘riconoscimento’ che non è dei sensi, ci mette in contatto con lo spirito universale della creazione.

 Il Dio della Pace – scrive San Paolo - vi santifichi totalmente e tutto il vostro essere, spirito, anima e corpo, siano custoditi irreprensibili per la parusia del Signore nostro Gesù Cristo. (Tes, 5,23). Anima, quindi, come ‘ponte’ tra corpo – cioè vita fisica – e spirito – cioè vita eterna. Questi concetti apparentemente astratti ciascuno di noi li sperimenta quando, senza rendercene neanche conto, incontriamo qualcuno che – non sappiamo spiegare perché – colpisce la nostra vita in modo indelebile. 

 “L’ho vista, e appena l’ho vista ho capito che era la donna della mia vita.” “Appena l’ho conosciuto ho capito che era una persona speciale, e che mi potevo fidare del suo carisma.” Non sono i sensi a dirci queste cose. E’ la nostra anima, che ha ‘riconosciuto’ qualcosa. Le anime si riconoscono anche se non si parlano. E allo stesso modo, io credo, vi sono luoghi che possiedono capacità di parlare alle anime, proprio alla nostra anima e in quel momento, oltre l’evidente bellezza di un armonico paesaggio, o di una efficace gradazione di forme e colori. La capacità di questi luoghi di parlare alla nostra anima non dipende solo da caratteristiche esteriori; c’è anzi il forte sospetto che i ‘luoghi dell’anima’ traggano la loro forza dal fatto di essere contenitori di voci e di storie, che continuano a vivere.

 In termini di fede, i primi cristiani sapevano a tal punto quanto fosse importante questa venerazione dei luoghi, da tenerli segreti – quelli riservati al culto o alla memoria di persone dalla storia e dall’anima straordinari – e riunirvisi in silenzio, in circostanze ‘misteriose’, fuori dalle convenzioni della vita mondana. Un luogo era importante e ‘sacro’ proprio perché – grazie alla presenza di queste voci ancora vive – riusciva a liberare le potenzialità delle anime dei vivi, a far lievitare quella possibilità di essere ponte tra corpo e spirito, tra fisicità e trascendenza. 

Anche oggi esistono molti luoghi con queste caratteristiche, nel mondo. Ed è un catalogo non compilabile, perché il codice dell’anima non vale per tutti allo stesso modo. Perché nessuna regola generale può valere per l’impalpabilità dell’anima e dei suoi molti linguaggi. Il tracciato che qui di seguito ho segnato è quindi soltanto personale. Luoghi scoperti casualmente, in occasione di viaggi, vacanze, o per motivi di interesse culturale, o a causa del mio lavoro di giornalista.

Qui ho dapprima ‘sentito’ e poi ‘conosciuto’ storie che ho provato a raccontare, in una geografia divenuta sempre più precisa, corrispondente ad un cammino interiore, rivolto al cuore del senso di una storia di uomo cresciuto dentro una tradizione occidentale e cristiana, lunga due millenni. E’ la stessa storia di molti che vivono in questa parte del mondo ormai spuria che chiamiamo Occidente. La storia dei nostri genitori, dei nostri nonni e delle intere generazioni che ci hanno preceduto. La loro voce, se la ascoltiamo, parla ancora chiaro, parlerebbe forse degli stessi luoghi e delle stesse cose che abbiamo sotto gli occhi adesso. Se soltanto fossimo capaci di fermarci, ed ascoltare.

La condivisione di queste scoperte e di queste storie nel corso degli anni, mi ha lentamente convinto che anche un tracciato così personale può diventare fecondo e condiviso. La silenziosa conversazione di anime avviene sempre, anche quando non facciamo nulla per volerlo coscientemente. E vale molto: realizza la nostra essenza su questa terra, senza la quale siamo semplicemente ‘anime sperse’, o ‘perse’, come si dice con efficace sintesi nel linguaggio comune. In ultima analisi, scrive Carl Gustav Jung, noi contiamo qualcosa solo in virtù dell’essenza che incarniamo, e se non la realizziamo, la vita è sprecata.

Fabrizio Falconi

Questa introduzione è tratta dal volume "Dieci Luoghi dell'anima,"  Cantagalli editore, 2009, Siena.


09/08/11

RI-COMINCIARE. Da dove ? (12 cose da cui ripartire) – 8. BENE E MALE.




Non resterò confuso, non mi farò trascinare dalla corrente mai.

Sarà questo uno dei punti fondamentali. Il flusso della corrente non permette di fermarsi e dentro la corrente, non al di fuori di essa, è molto facile smarrire se stessi. 

Non resterò eternamente confuso, non resterò a chiedermi chi sono. Non farò quello che fanno gli altri. 

Trascinato dal flusso della corrente sarà infatti inevitabile perdere ogni riferimento, pensare di non poter più distinguere ciò che è bene da ciò che è male. 

Ma nella essenza del mio essere umano io ritroverò sempre le ragioni della distinzione che permette di orientarsi. L’essenza del mio essere umano è il mio centro.

Ed è lo stesso centro che orientava il cammino dell’Uomo sui ghiacciai di Similaun, 5000 anni fa. E’ lo stesso centro a cui attinge una madre a cui nasce un figlio. Lo stesso centro a cui fa appello un vecchio nell’ora della morte.

Ad ogni latitudine, in ogni epoca.

Il grano e la gramigna non sono una invenzione, semplicemente esistono, e questo è il grande mistero della esistenza: la differenziazione. Che qualcuno chiama libero arbitrio.

So che ha a che fare con la conoscenza di me, con l’allontanamento o la vicinanza che saprò mantenere, dalla capacità che avrò di ascoltare il mio centro‎.

Come scrive Carl Gustav Jung, ci sforziamo di raggiungere il buono e il bello, ma al tempo stesso afferriamo anche il malvagio e il brutto, poiché nel pleroma essi formano un tutt'uno col buono e col bello. Se invece restiamo fedeli alla nostra essenza, cioè alla differenziazione, allora ci differenziamo dal buono e dal bello, e perciò anche dal malvagio e dal brutto, e non cadiamo nel pleroma, ossia nel nulla e nel dissolvimento.


Fabrizio Falconi

02/02/10

La forza del 'piccolo' contro lo strapotere del mondo.


Molto spesso sento esprimere dai cristiani veri che mi capita di incontrare, una specie di grande scoramento nei confronti dello stato del mondo, insieme ad un senso di impotenza. "Se il mondo va in un certo modo, cioè in senso contrario alla morale evangelica," è questo, in soldoni, il ragionamento, "come potrò io fare, nella mia piccolezza, nel mio piccolo posto nel mondo, fare qualcosa di utile, qualcosa che possa servire veramente ?"

Quando sento questa lamentela - che da un certo punto di vista è ampiamente comprensibile - mi ricordo della lezione che ho appreso grazie a Carl Gustav Jung, che nel suo testo Aion - una vera miniera per la spiritualità cristiana - parla del simbolo rappresentato da un piccolo pesce che nell'antichità era denominato Echeneis.

Echeneis, scrive Jung, è il nome latino di un pesce molto particolare. Di esso racconta Plinio nella sua Historia Naturalis. E oggi il nome di questo pesce è Remora.

“ La remora “ scrive Jung, “ piccola per statura e grande per la potenza costringe le superbe fregate del mare a fermarsi: avventura che come ci racconta Plinio in modo interessante e ameno tocco' 'ai nostri tempi’ alla quinqueremi dell’imperatore Caligola. Mentre questi ritornava dall’Astura ad Anzio, il pesciolino, lungo mezzo piede, si attaccò succhiando al timone della nave, provocandone l'arresto. Tornato a Roma, dopo questo viaggio, Caligola venne assassinato dai suoi soldati. L’ Echeneis “ continua Jung, “ agì dunque come praesagium, come piscis auspicalis.

Un tiro analogo esso lo giocò a Marc’Antonio, prima della battaglia navale contro Augusto, in cui dovette soccombere. Plinio non finisce mai di stupirsi del potere dell’ Echeneis. La sua meraviglia impressionò evidentemente gli alchimisti al punto di indurli a identificare il ‘pesce rotondo del nostro mare’ con il nome di Remora. La Remora divenne così il simbolo dell’estremamente piccolo nella vastità dell’inconscio. Che ha un significato tanto fatale: esso è infatti il Sé, l’Atman, quello di cui si dice che è IL PIU’ PICCOLO DEL PICCOLO, PIU’ GRANDE DEL GRANDE. “

La storiella riferita da Jung è assai significativa anche per noi, oggi. Anche se il mare ci sembra immenso, e le forze che lo abitano ancora più immense; anche se la grande nave dell'Imperatore Caligola ci sembra un emblema insuperabile di potere, anche se le condizioni sono proibitive, la forza di un piccolo pesce (la Remora) riesce a ottenere risultati incredibili, con la forza morale di un presagio, o con la forte resistenza contraria alla corrente.

Dovremmo forse ricordarcene più spesso, noi cristiani, quando ci arrendiamo troppo facilmente alla potenza del mondo.


18/09/08

La Risposta a Giobbe - di Carl Gustav Jung.





Sto leggendo in questi giorni un meraviglioso libro, di quel grande genio dell'umanità che è stato Carl Gustav Jung. Il quale in un famosissimo saggio, intitolato "Risposta a Giobbe", pubblicato nell'ultima fase della sua vita, nel 1952, si pose come obbiettivo quello di rispondere alla domanda cruciale della nostra esistenza: ovvero la presenza del male, nelle nostre vite, che da un punto di vista veterotestamentario, è rappresentato in tutta la sua drammatica pienezza nel Libro di Giobbe.
Chiunque sa che quel Libro della Bibbia sottopone un problema fondamentale: perchè il Giusto viene punito - ingiustamente - da Dio ? Perchè Dio si accanisce contro di lui, cedendo alle lusinghe di Satana che pone dei dubbi a Dio sulla fedeltà di Giobbe (il quale invece non ha nessuna colpa, tutt'altro) ? Perchè l'onniscente Dio - sembrerebbe per un puro divertimento sadico - si diverte a tormentare il povero Giobbe, l'uomo giusto e incolpevole, fedele a Dio: soltanto per constatare se egli riuscirà a rimanergli fedele anche nelle sofferenze più atroci inviategli ingiustamente ? Ma che gioco è questo ? Dio ragiona così ?

A tutte queste drammatiche domande, Jung dà una serie di risposte geniali, fornendo una interpretazione psico-analitica delle dinamiche che si instaurano tra Dio-Yahwèh e l'Uomo, la sua creatura.

Secondo Jung, Giobbe è il 'punto di rottura' nell'equilibrio tra Dio - creatore e Uomo-creato. E' quella crasi che rende 'necessario' il cambiamento in Dio stesso, e che porta all'incarnazione.

" Tutto il mondo è di Dio, e Dio è in tutto il mondo, " scrive Jung, " sin dalle prime origini. Ma perchè allora tutta questa grande impresa dell'incarnazione ? ci si domanda stupiti. Dio è sì, de facto, in tutto, ma nonostante ciò dev'essere mancato qualche cosa perchè sia stato necessario inscenare, con tante precauzioni e con tanta cura, una , per così dire, seconda entrata nella Creazione. .... Ma quando si pensa che il male è stato originalmente insinuato da Satana e che questi continua ancora incessantemente ad instillarlo con le sue male arti in tutto il creato, sembrerebbe molto più semplice che Yahwèh avesse richiamato energicamente all'ordine, e una volta per tutte, questo practical joker, eliminando il suo influsso dannoso ed estirpando così il male alla radice. Non ci sarebbe stato allora alcun bisogno di organizzare una particolare incarnazione.... "
Ma.... il testo di Jung è una affascinante (e assai persuasiva risposta) a queste e a molte altre obiezioni.