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14/10/22

Beatles: "Love me Do" ha compiuto 60 anni !

 


Tanti auguri "Love Me Do". L'iconico brano dei Beatles, che segno' il debutto discografico dei quattro ragazzi inglese, ha appena compiuto 60 anni.

Fu infatti composto da Paul McCartney e John Lennon qualche anno prima e pubblicato nel 1962 (sul lato B del 45 giri P.S. I Love You). 

Nel mese di ottobre - esattamente il 5 - uscì quindi il primo 45 giri ufficiale. 

Quella armonica a bocca blues, suonata da Lennon, che divenne indimenticabile (e che si ispirava all'artista americano di rhythm and blues Bruce Channel in Hey! Baby). 

Il brano, che fu poi incluso nell'album di esordio dei Beatles Please Please Me del 1963, ebbe una gestazione complicata in fase di registrazione.

Furono infatti tre i batteristi che si alternarono in differenti occasioni. 

La prima registrazione è del 6 giugno 1962 agli Abbey Road Studios di Londra con Pete Best alla batteria; a meta' agosto, Best venne sostituito da Ringo Starr e il 4 settembre venne eseguita una nuova registrazione sempre agli Abbey Road Studios. 

Non soddisfatti, una settimana dopo, l'11 settembre, la band torno' in studio per una nuova sessione con il batterista Andy White e con Ringo al tamburello

La prima versione del 45 giri è comunque quella con Ringo Starr alla batteria e la stessa è stata inclusa anni dopo nella versione americana di Rarities e in Past Masters, volume uno. 

La versione con Andy White è quella presente nel primo album inglese dei Beatles, Please Please Me, nell'EP The Beatles' Hits (e in tutti gli album seguenti in cui e' presente la canzone) nonché nelle ristampe del singolo avvenute nel 1976 e nel 1982.

Una versione blues piu' lenta di Love Me Do, presente in alcuni bootleg, e' stata suonata dai Beatles nel 1969, durante la session di Get Back per l'album Let It Be. 

Tra le storie che si narrano su Love Me do, quella che vuole che Lennon quell'armonica l'aveva rubata in un negozio di Arnhem nel 1960 e l'altra secondo cui il manager Brian Epstein tentò di far diventare Love me Do una hit nel Regno Unito comprando egli stesso diecimila copie del disco. 

09/10/22

L'ultimo giorno di vita di John Lennon e le sue ultime incredibili parole


Come trascorse l'ultima giornata di vita di John Lennon, uno dei più grandi musicisti della storia, assassinato da Mark David Chapman, lo squilibrato che gli sparò davanti al portone della sua casa di New York la sera dell'8 dicembre del 1980 ? 

Anche quel tragico 8 dicembre John, che ebbe una vita sempre movimentatissima, non si fermò un attimo. Come raccontò in seguito sua moglie Yoko Ono, quella fu una bellissima giornata a New York, il cielo era terso e l’aria era frizzante: la coppia aveva una marea di impegni in programma, tra i quali uno shooting fotografico, un’intervista e un’altra session di lavoro alla loro canzone Walking On Thin Ice presso gli studi Record Plant.

Dopo aver fatto colazione al Café La Fortuna insieme a Yoko, John Lennon andò al Viz-à-Viz per farsi dare una sistemata ai capelli: quando uscì fuori dal salone, l’artista aveva un nuovo taglio in stile retrò, che ricordava molto quello che aveva all’inizio della sua carriera. Subito dopo tornò nel suo appartamento, dove la fotografa Annie Leibovitz stava allestendo il set per lo shooting fotografico che avevano già iniziato la settimana precedente. Il produttore David Geffen aveva fatto in modo che John e Yoko ottenessero la prossima copertina di Rolling Stone, ma l’editore Jann Wenner cercò di realizzare una cover dedicata esclusivamente all’ex dei Beatles. In ogni caso, la fotografa che si occupò del servizio fotografico in seguito raccontò che non avrebbe mai dimenticato quella giornata: “John venne ad aprirmi indossando una giacca di pelle nera. Aveva i capelli pettinati all’indietro. Rimasi molto colpita perché aveva il suo vecchio look alla Beatles”.

Quella mattina Yoko Ono non posò per le foto insieme al marito: aveva deciso di farsi da parte per lasciare la copertina a lui, ma la fotografa era rimasta molto colpita dalla cover dell’album Double Fantasy dove i due coniugi erano stati ritratti mentre si scambiavano un tenero bacio e per questo desiderava fotografarli insieme. “Negli anni ’80 – spiegò – sembrava che il romanticismo fosse morto. Ma ricordai quanto fosse semplice e bellissimo quel loro bacio e mi lasciai ispirare. Inoltre, non era difficile immaginare John e Yoko senza vestiti perché stavano sempre così”. Alla fine John e Annie decisero di realizzare una foto con lui completamente nudo mentre abbracciava la moglie che invece era vestita, in posizione fetale. La fotografa così li immortalò in questa posa sul pavimento color crema del loro salotto.

La fotografa inizialmente fece una prova con una Polaroid e John ne fu entusiasta: “È proprio così, è esattamente questa la nostra relazione!”, disse il musicista. Annie quel giorno scattò un intero rullino, sia a John e Yoko insieme, sia a lui da solo, in varie stanze della sua casa. Una volta terminato il servizio fotografico, John scese al piano di sotto dove, nell’ufficio di Yoko Ono, lo attendava il team di RKO Radio per un’intervista con Dave Sholin. A lui raccontò la sua tipica giornata: “Mi alzo all’incirca alle 6, vado in cucina, bevo un caffè, tossisco un po’ e poi mi fumo una sigaretta, mentre guardo il programma Sesame Street con mio figlio Sean. Mi assicuro che guardi la PBS e non i cartoni con la pubblicità. Non mi interessano i cartoni animati, ma non voglio che lui guardi gli spot pubblicitari”.

Dave Sholin rimase affascinato da John e Yoko: “Il contatto visivo tra di loro era incredibile – disse in seguito di quell’incontro – non c’era bisogno di parlare. Loro si guardavano entrando intensamente in connessione”. Durante l’intervista, John parlò anche del suo quarantesimo compleanno, festeggiato da poco: “Spero di morire prima di Yoko – disse – perché se lei morisse io non saprei come sopravvivere. Non riuscirei ad andare avanti

A Sholin parlò poi della sua musica, spiegando di pensare alla sua carriera come un percorso continuo: “Ho sempre considerato il mio lavoro come un'opera unica – disse – sia con i Beatles, con David Bowie, con Elton John o con Yoko Ono. E penso anche che il mio lavoro non sarà finito fino a quando non sarò morto e sepolto, cosa che spero accada tra molto, molto tempo”. Queste parole oggi fanno un certo effetto, considerando che John Lennon morì poco dopo averle pronunciate. Ci sono stati solo due artisti con i quali ho lavorato per più di una serata - proseguì – sto parlando di Paul McCartney e Yoko Ono. Penso sia davvero un’ottima scelta. Come talent scout, penso di aver fatto davvero un ottimo lavoro”.

Dopo l’intervista, John e Yoko uscirono e la strada sotto la loro casa era stranamente deserta: “Dove sono i miei fan?”, chiese infatti il musicista che, nel frattempo, era stato raggiunto dal fotografo e suo grande amico Paul Goresh che doveva fargli vedere alcuni scatti che aveva realizzato di recente. A quel punto si avvicinò un fan e gli chiese un autografo sulla copertina di una copia di Double Fantasy: questo momento fu immortalato da Goresh. Nessuno poteva immaginare che quel fan con gli occhiali e il cappotto stropicciato solo cinque ore più tardi avrebbe ucciso Lennon, sconvolgendo il mondo.

Ignaro del suo destino, l’ex dei Beatles salì in macchina e andò con sua moglie agli studi di registrazione Record Plant, dove il produttore Jack Douglas li stava aspettando per lavorare a Walking On Thin Ice, un brano composto da Yoko Ono al quale John collaborò, sia suonando l’assolo di chitarra che partecipando alla produzione. Alla fine del lavoro, il musicista era pienamente soddisfatto e molto entusiasta del risultato: “D’ora in avanti faremo solo cose come questa – disse alla moglie – è grandioso! Questa è la direzione che dobbiamo prendere! È meglio di qualsiasi pezzo di Double Fantasy, pubblichiamolo prima di Natale!”. In realtà i produttori gli suggerirono di pubblicarlo dopo le feste e di fare le cose per bene, considerando anche che Double Fantasy stava continuando a scalare le classifiche britanniche, cosa alla quale John Lennon teneva particolarmente. In quei giorni era molto felice anche perché finalmente Yoko Ono stava iniziando ad attirare l’interesse della stampa e della critica e di questo era molto orgoglioso.

Dopo aver completato il lavoro, la coppia e il produttore si diedero appuntamento al mattino seguente per gli ultimi ritocchi. John e Yoko erano esausti perché in quelle ultime settimane avevano lavorato senza sosta, così decisero di prendere qualcosa da mangiare sulla via del ritorno; poiché era tardi, però, alla fine preferirono tornare subito a casa per augurare la buonanotte al figlio Sean che era con la babysitter. Alla cena ci avrebbero pensato dopo: salirono così nella limousine che li riportò a casa e scesero davanti alla loro residenza, il Dakota. Yoko scese per prima e si avviò verso il portone, mentre John la seguiva, portando con sé delle cassette, tra le quali anche l’ultima registrazione di Walking On Thin Ice.

Erano le 10:45 di una serena notte newyorkese quando la quiete fu interrotta dallo sparo che uccise Lennon. A premere il grilletto fu proprio quel fan che poche ore prima gli aveva chiesto un autografo. Pochi minuti dopo il canale ABC diede la terribile notizia, interrompendo il big match di football tra i New England Patriots e i Miami Dolphins. John Lennon morì prima di arrivare in ospedale e ben presto la strada dove abitava si riempì di fan sconcertati.

Alcuni giorni dopo, il 14 dicembre, su richiesta di Yoko Ono alle 2 del pomeriggio fu organizzata una veglia di preghiera: la donna invitò tutti a partecipare e in tutto il mondo le radio osservarono dieci minuti di silenzio in onore del grande artista. A Liverpool si radunarono circa 30mila fan, mentre 50mila persone si riunirono a Central Park per ricordare quell’uomo che aveva definito New York come la sua casa. Quel giorno tutti i progetti di John Lennon andarono in frantumi e la storia della musica cambiò per sempre.


Fonte: VirginRadio.it 

19/08/22

Quella volta che George Harrison fu aggredito e colpito da 40 coltellate, mentre si trovava a casa


Ascoltava la musica con le cuffie per cacciare le voci che gli rimbombavano nel cervello

Un ex tossicodipendente da eroina e da metadone. Con una passione: la musica. E un'ossessione: che i Beatles fossero demoni. E prima di loro che lo fossero gli Oasis.

Così Lynda Abram descriveva la sofferenza di suo figlio Michael, l'uomo che quasi uccise George Harrison piantandogli un coltello a un centimetro dal cuore

Un miracolo che il chitarrista dei Beatles fosse sopravvissuto. 

Michael Abram 33 anni, viveva vicino a Liverpool. Quella notte entrò nella casa di Harrison a Henley on Thames, a 70 chilometri da Londra e lo accoltellò. 

La moglie dell'ex Beatle Olivia riuscì a colpirlo con una lampada e i due sono riuscirono a immobilizzarlo fino all'arrivo della polizia. 

Harrison fu ricoverato all'ospedale di Harefield, a ovest di Londra, specializzato in medicina toracica. In un primo tempo era stato portato, con la moglie, al Royal Berkshire Hospital di Reading.

Le sue condizioni comunque non erano gravi. 

"Ho visto mio figlio l'ultima volta ieri - raccontò la signora Abram ai cronisti di un giornale locale - e mi sembrava molto calmo, ma negli scorsi sei mesi è stato malissimo. Ho a lungo cercato di aiutarlo ma è stato come sbattere la testa contro un muro". 

La donna aggiunse che Michael aveva alle spalle una lunga storia di tossicodipendenza, e dal mese di maggio aveva "smesso di usare eroina e anche il metadone", si era rivolto a consulenti psichiatrici che - a suo dire - "non l'hanno aiutato". 

Per la signora Abram "se il servizio sanitario avesse dato retta a Michael, questo (l'attacco agli Harrison) non sarebbe successo". 

"Era solito urlare molto - ha proseguito la 52/enne Lynda - ma non è mai stato violento o aggressivo. Era ossessionato da tanti tipi musica. Diceva di ascoltarla con le cuffie per cacciare le voci dal suo cervello. Settimane fa era fissato con gli Oasis, ora coi Beatles che considerava dei demoni". 

 Secondo la polizia tutto faceva pensare che l'aggressione fosse preparata, e che non si trattò di un tentativo di furto andato male. 

Impressione in qualche modo confermata dalla madre. 



Uno squilibrato, insomma, proprio come quello che l'8 dicembre del 1980, a New York, uccise John Lennon. 

Abram fu subito ricoverato in ospedale per una lesione cranica, con la porta piantonata dai poliziotti che temono possa tentare il suicidio. 

L'episodio fu  subito commentato da Paul McCartney che si disse sconvolto per l'accaduto, rivolgendo o gli auguri all'ex compagno. "Grazie a Dio - ha detto - George e Olivia stanno bene e mando loro tutto il mio affetto". 

Ma già allora restò nell'ombra la maledizione del quartetto di Liverpool e le analogie con la morte di John Lennon. Mark David Chapman, l'assassino del leader dei Betles, che si era appostato in strada, in attesa che lui e Yoko Ono, rientrassero nel loro appartamento, nel "Dakota Building" che si affaccia su Central Park a Manhattan. 

"Hey Mr Lennon" gli disse quella mattina di dicembre del 1980. John si voltò, giusto il tempo di vedere il volto del suo assassino, e cinque colpi di pistola misero fine alla sua vita. Aveva 40 anni. Condannato a 20 anni, Chapman, uno squilibrato ossessionato dal "Giovane Holden" di Salinger ha confessato di aver ucciso John Lennon per "piantare l'ultimo chiodo nella bara degli anni Sessanta".

10/07/22

La lettera - intima - che Paul Mc Cartney scrisse a John Lennon e lesse nel 1994 per l'ingresso di John nella Rock'n Roll of Fame - Testo e video



Buona domenica!
Pubblico, a beneficio dei lettori di questo blog, il testo e il video (in fondo all'articolo) della bellissima lettera postuma scritta da Paul McCartney a John Lennon in occasione della cerimonia di introduzione nella Hall of Fame del 19 gennaio 1994, quando Lennon fu inserito nella leggendaria lista come artista solista.


Caro John,


Mi ricordo quando ci siamo incontrati per la prima volta, a Woolton, alla festa del paese. Era una bella giornata estiva, avevo camminato fin lì e ti ho visto sul palco. E tu stavi cantando "Come Go With Me", dai Vichinghi Dell, ma non sapevi le parole e così le inventavi. "Vieni con me al penitenziario." Non era nel testo.

Mi ricordo quando scrivevamo le nostre prime canzoni insieme. Andavamo a casa mia, a casa di mio padre, e fumavamo il Ty-Phoo the con la pipa di mio padre che conservava in un cassetto. Non ha fatto molto per noi, ma ci ha portato sulla strada.

Volevamo essere famosi.

Ricordo le visite alla casa di tua mamma. Julia era una donna molto alla mano, una donna molto bella. Aveva i capelli lunghi e rossi e suonava l'ukulele. Non avevo mai visto una donna che sapeva farlo. E mi ricordo di aver dovuto spiegarti gli accordi per la chitarra, perché avevi imparato a suonare gli accordi per l'ukulele.

E poi al tuo 21esimo compleanno hai ricevuto 100 sterline da uno dei tuoi parenti ricchi di Edimburgo, e quindi abbiamo deciso di andare in Spagna. Così abbiamo fatto l'autostop da Liverpool, fino a Parigi, e abbiamo deciso di fermarci lì, per una settimana. E alla fine ci siamo fatti fare il nostro taglio di capelli, da un tizio di nome Jurgen, che ha finito per essere il "taglio di capelli alla Beatle".

Ricordo quando ti presentai il mio amico George, il mio compagno di scuola, che tu facesti entrare nella band dopo che lui ebbe suonato "Raunchy" sull' autobus. Rimanesti colpito. E incontrammo Ringo che lavova tutta la stagione al campo Butlin - era un professionista esperto - ma la barba doveva sparire, e se la tagliò.

Più tardi abbiamo ottenuto di suonare ad un concerto al Cavern Club di Liverpool che era ufficialmente un club blues. Noi non sapevamo veramente tutti i numeri blues. Apprezzavamo molto il blues, ma non sapevamo i numeri del blues, così ci siamo presentati con un "Signore e signori, questo è un grande numero di Big Bill Broonzy chiamato" Wake Up Suzie Little " E il pubblico continuava a dire "Questo non è il blues, questo non è il blues. Questa canzone è pop." Ma abbiamo continuato a suonarla.

E poi siamo finiti in tour. Era un tizio chiamato Larry Parnes che ci ha ingaggiati per il nostro primo tour. Ricordo che cambiammo tutti i nostri nomi per quell'occasione. Cambiai il mio in Paul Ramon, George Harrison diventò Carl Harrison e, anche se la gente pensa che in realtà non cambiasti veramente il tuo nome, mi sembra di ricordare che diventasti Long John Silver per tutta la durata del tour.

Viaggiavamo su un furgoncino durante il tour, e una notte il parabrezza si ruppe. Eravamo in autostrada e stavamo tornando a Liverpool. Si congelava e quindi abbiamo dovuto metterci uno sopra l'altro nella parte posteriore del furgone creando un sorta di panino-Beatle. Abbiamo avuto modo di conoscerci. Ci siamo conosciuti così.

Siamo arrivati ​​ad Amburgo e abbiamo incontrato personaggi del calibro di Little Richard, Gene Vincent ... Mi ricordo di Little Richard quando ci invitò al suo hotel. Stava guardando l'anello di Ringo e disse: "Amo questo anello. Ho un anello simile. Potrei darti un anello simile." Così siamo andati tutti in albergo con lui. (Non abbiamo mai avuto un anello.)

Siamo tornati con Gene Vincent nella sua camera d'albergo una volta. Era andato tutto bene finchè non si avvicinò ad un cassetto del comodino e ne tirò fuori una pistola. Dicemmo: "Ehm, dobbiamo proprio andare, Gene, dobbiamo andare ..." Uscimmo di corsa!

E poi arrivarono gli Stati Uniti - New York City - dove ci siamo incontrati con Phil Spector, le Ronettes, Supremes, i nostri eroi, le nostre eroine. E poi a Los Angeles, incontrammo Elvis Presley per una grande serata. Abbiamo visto il ragazzo sul suo territorio nazionale.  Ragazzi! Era un eroe.

E poi, Ed Sullivan. Volevamo essere famosi, e lo eravamo davvero diventati. Voglio dire, immaginate di incontrare Mitzi Gaynor a Miami!

Poi, la registrazione ad Abbey Road. Ricordo ancora mentre suonavamo "Love Me Do." Tu ufficialmente cantavi "Love me do", ma perché suonavi l'armonica. Poi George Martin disse all'improvviso nel mezzo della sessione: " Può Paul cantare il verso " Love me do? " , il pezzo cruciale.

Mi ricordo mentre cantavo "Kansas City" - beh, non riuscivo a farlo, perché è difficile da cantare quella roba. Sai, urlare nella parte superiore della testa (?). Sei sceso dalla sala di controllo e mi ha portato da una parte e mi hai detto: "Ce la puoi fare, devi solo urlare, si può fare." Così, grazie. Grazie per questo. Sono riuscito a farlo.

Mi ricordo mentre scrivavamo "A Day in the Life" insieme, e l'occhiata d'intesa che ci siamo lanciati quando abbiamo scritto il verso "I'd love to torn you on". Sapevamo quello che stavamo facendo, sai. Uno sguardo furtivo.

Dopo di che c'era questa ragazza di nome Yoko. Yoko Ono. Lei si presentò a casa mia un giorno. Era il compleanno di John Cage e lei disse che voleva entrare in possesso di alcuni manoscritti di diversi autori per consegnarglieli, e ne voleva uno mio e tuo. Così ho detto: "Beh per me va bene, ma dovrai andare da John ".

E lei lo ha fatto ...

Dopo di che avevo impostato un paio di macchine di registrazione Brennell, che eravamo soliti usare, e tu sei rimasto sveglio tutta la notte e hai registrato "Two Virgins". Ma lo hai fatto da solo - non aveva niente a che fare con me.

E poi, poi c'erano le telefonate con te. La gioia per 
me, dopo tutta la merda di business che avevamo attraversato, era che stavamo tornando insieme e comunicavamo ancora una volta.
E la gioia quando mi dicesti che stavi a letto ora. E che stavi giocando con il tuo piccolo bambino, Sean. E 'stato meraviglioso per me, perché mi ha dato qualcosa a cui aggrapparmi.

Così ora, anni dopo, eccoci qui. Tutte queste persone. Qui si sono riuniti per ringraziarti per tutto quello che hai significato per tutti noi.

Questa lettera viene dal cuore, dal tuo amico Paul.

John Lennon, ce l'hai fatta. Stasera sei entrato nella Rock Hall 'n' Roll of Fame.

Dio ti benedica.

Paul 



Originale: 

"Dear John,

I remember when we first met, at Woolton, at the village fete. It was a beautiful summer day and I walked in there and saw you on stage. And you were singing “Come Go With Me,” by the Dell Vikings, But you didn’t know the words so you made them up. “Come go with me to the penitentiary.” It’s not in the lyrics.

I remember writing our first songs together. We used to go to my house, my Dad’s home, and we used to smoke Ty-Phoo tea with the pipe my dad kept in a drawer. It didn’t do much for us but it got us on the road.

We wanted to be famous.

I remember the visits to your mum’s house. Julia was a very handsome woman, very beautiful woman. She had long, red hair and she played a ukulele. I’d never seen a woman that could do that. And I remember to having to tell you the guitar chords because you used to play the ukulele chords.

And then on your 21st birthday you got 100 pounds off one of your rich relatives up in Edinburgh, so we decided we’d go to Spain. So we hitch-hiked out of Liverpool, got as far as Paris, and decided to stop there, for a week. And eventually got our haircut, by a fellow named Jurgen, and that ended up being the “Beatle haircut.”

I remember introducing you to my mate George, my schoolmate, and getting him into the band by playing “Raunchy” on the top deck of a bus. You were impressed. And we met Ringo who’d been working the whole season at Butlin’s camp - he was a seasoned professional - but the beard had to go, and it did.

Later on we got a gig at the Cavern Club in Liverpool which was officially a blues club. We didn’t really know any blues numbers. We loved the blues but we didn’t know any blues numbers, so we had announcements like “Ladies and gentlemen, this is a great Big Bill Broonzy number called “Wake Up Little Suzie.” And they kept passing up little notes - “This is not the blues, this is not the blues. This is pop.” But we kept going.

And then we ended up touring. It was a bloke called Larry Parnes who gave us our first tour. I remember we all changed names for that tour. I changed mine to Paul Ramon, George became Carl Harrison and, although people think you didn’t really change your name, I seem to remember you were Long John Silver for the duration of that tour. (Bang goes another myth.)

We’d been on a van touring later and we’d have the kind of night where the windsceen would break. We would be on the motorway going back up to Liverpool. It was freezing so we had to lie on top of each other in the back of the van creating a Beatle sandwich. We got to know each other. These were the ways we got to know each other.

We got to Hamburg and met the likes of Little Richard, Gene Vincent…I remember Little Richard inviting us back to his hotel. He was looking at Ringo’s ring and said, “I love that ring.” He said, “I’ve got a ring like that. I could give you a ring like that.” So we all went back to the hotel with him. (We never got a ring.)

We went back with Gene Vincent to his hotel room once. It was all going fine until he reached in his bedside drawer and pulled out a gun. We’ said “Er, we’ve got to go, Gene, we’ve got to go…” We got out quick!

And then came the USA — New York City — where we met up with Phil Spector, the Ronettes, Supremes, our heroes, our heroines. And then later in L.A., we met up with Elvis Presley for one great evening. We saw the boy on his home territory. He was the first person I ever saw with a remote control on a TV. Boy! He was a hero, man.

And then later, Ed Sullivan. We’d wanted to be famous, now we were getting really famous. I mean imagine meeting Mitzi Gaynor in Miami!

Later, after that, recording at Abbey Road. I still remember doing “Love Me Do.” You officially had the vocal “love me do” but because you played the harmonica, George Martin suddenly said in the middle is the session, “Will Paul sing the line “love me do?”, the crucial line. I can still hear it to this day - you would go “Whaaa whaa,” and I’d go “loove me doo-oo.” Nerves, man.

I remember doing the vocal to “Kansas City” — well I couldn’t quite get it, because it’s hard to do that stuff. You know, screaming out the top of your head. You came down from the control room and took me to one side and said “You can do it, you’ve just got to scream, you can do it.” So, thank you. Thank you for that. I did it.

I remember writing “A Day in the Life” with you, and the little look we gave each other when we wrote the line “I’d love to turn you on.” We kinda knew what we were doing, you know. A sneaky little look.

After that there was this girl called Yoko. Yoko Ono. She showed up at my house one day. It was John Cage’s birthday and she said she wanted to get hold of manuscripts of various composers to give to him, and she wanted one from me and you. So I said,” Well it’s ok by me. but you’ll have to go to John.”

And she did…

After that I set up a couple of Brennell recording machines we used to have and you stayed up all night and recorded “Two Virgins.” But you took the cover yourselves — nothing to do with me.

And then, after that there were the phone calls to you. The joy for me after all the business shit that we’d gone through was that we were actually getting back together and communicating once again. And the joy as you told me about how you were baking bread now. And how you were playing with your little baby, Sean. That was great for me because it gave me something to hold on to.

So now, years on, here we are. All these people. Here we are, assembled, to thank you for everything that you mean to all of us.

This letter comes with love, from your friend Paul.
John Lennon, you’ve made it. Tonight you are in the Rock ‘n’ Roll Hall of Fame.

God bless you.

Paul


09/07/22

L'incredibile vicenda delle foto perdute dei Beatles in India, in un documentario da non perdere


 "I Beatles in India" è un documentario realizzato nel 2021, vincitore di molti premi, realizzato in stile quasi naif, eppure assai godibile, visibile su Amazon Prime Video a costo di noleggio di 1,99 euro.

Il documentario è particolarmente interessante perché racconta sostanzialmente la vicenda di un canadese, Paul Saltzman, che nel 1968 aveva 23 anni e che per circostanze veramente incredibili capitò nell'ashram di Maharishi Mahesh Yogi, esattamente nella settimana in cui soggiornarono lì i Beatles. Trascorrendo con loro una settimana intera e scattando una quantità di foto di smisurato valore che, altrettando incredibilmente, Paul tenne per 30 anni chiuse nel suo garage, dimenticandone quasi l'esistenza.
Come si sa, nel febbraio del 1968, spronati da George Harrison, i Beatles arrivarono a Rishikesh, nel nord dell'India, per apprendere l'arte della meditazione trascendentale dal filosofo indiano Maharishi Mahesh Yogi, incontrato per la prima volta l'estate precedente. Per quel viaggio, in cui la musica ebbe un ruolo cruciale, ai Fab Four si unirono amici come Mia Farrow, Donovan e Mike Love dei Beach Boys.
Saltzman che all'epoca era in India per lavorare come fonico di ripresa in una piccola produzione che girava un film sull'India, andò a Rishikesh sulla spinta di una delusione d'amore e con la motivazione di imparare la Meditazione Trascendentale, che Maharishi stava facendo conoscere in occidente.
Paul non aveva previsto però, e non poteva sapere, che in quei luoghi estremi lungo la riva del Gange nei boschi popolati di scimmie e di uccelli esotici avrebbe condiviso pranzi, cene, passeggiate, chiacchierate e sedute di meditazione con John, Paul, George e Ringo accompagnati dalle rispettive mogli e compagne.
Il film vede anche la partecipazione straordinaria dello storico dei Beatles Mark Lewisohn, che ripercorre col regista i momenti salienti di quel viaggio, del compositore nominato all'Oscar Laurence Rosenthal, di Pattie Boyd (modella e fotografa che fu moglie di Harrison e di Eric Clapton) e di sua sorella e Jenny, oltre che di David Lynch, che è anche tra i produttori esecutivi del film.
Fu un momento formidabile anche per la carriera del quartetto di Liverpool. Racconta infatti Paul Saltzman: "Nel 1968, i Beatles si recarono in India per trovare qualcosa che la fama e la fortuna non potevano dare loro. Cercavano la pace interiore. Fu un momento di enorme creatività e di cambiamento. In 7 brevi settimane trascorse nell'ashram scrissero 48 canzoni. Senza sapere che si trovassero lì, io ero arrivato a Rishikesh per imparare la meditazione, nel disperato tentativo di guarire il mio cuore spezzato. Siamo stati insieme per una settimana. La meditazione mi ha cambiato la vita, così come l'incontro con loro. È stata un'esperienza profondamente privata tanto che, tornato a casa, ho riposto in una scatola le 54 foto che avevo scattato. E me ne sono dimenticato per 32 anni".
Altamente consigliabile, specie agli appassionati di musica, degli annoi '60 e dei Fab Four.

Fabrizio Falconi - 2022

17/06/22

* Domani il leggendario Paul McCartney compie 80 anni ! Storia della sua canzone forse più intima e più famosa*

 

Paul McCartney fotografato dalla moglie Linda

Domani Paul McCartney di sicuro il musicista vivente più famoso al mondo, compie la bellezza di 80 anni. Nato il 18 giugno 1942, sotto il segno dei Gemelli, a Liverpool, McCartney, in coppia con il collega John Lennon ha scritto qualcosa come 170 canzoni fondamentali nella storia della musica. A queste sono da aggiungere poi, ovviamente, quelle della sua lunga carriera solista. 

Tra quelle 170 forse la canzone più intima e famosa, quella che meglio di ogni altro disegna il mito di Paul, inserite nell'ultimo album dei Beatles, omonimo, è Let it Be, esattamente la sesta traccia di quel capolavoro, canto del cigno del gruppo. 

Come è noto, Paul McCartney rivelò che l'ispirazione per la canzone gli venne da un sogno, nel quale aveva parlato con la madre Mary, morta di cancro nel 1956 quando lui aveva solo 14 anni. 

Paul, infatti, al momento dell'incontro fatale con John Lennon era orfano di madre, come lo stesso John, che aveva perso la sua all'età di 16 anni.

Nel sogno, secondo il racconto del musicista, la madre consigliava a Paul, preoccupato per le tensioni nel gruppo, di lasciare correre, cioè to let it be, nel senso che "tutto si sarebbe aggiustato".

John Lennon accolse la canzone con malcelato sarcasmo, poiché la considerava troppo "pseudo-religiosa". Secondo alcuni, l'antipatia di Lennon per il brano sarebbe confermata proprio dalla collocazione della canzone sull'album, posta appena dopo l'irridente frase di Lennon: «And now we'd like to do "Hark The Angels Come"!» ("Ed ora vorremmo eseguire Udite! Gli angeli cantano!"), e subito prima dell'esecuzione di Maggie Mae, dedicata ad una prostituta di Liverpool.

Il singolo raggiunse la prima posizione in classifica in mezzo mondo. 

Fu l'ultimo singolo dei Beatles pubblicato prima dello scioglimento della band. Infatti sia l'album Let It Be che il singolo The Long and Winding Road uscirono quando il gruppo ormai ufficialmente non era più in attività. 


Nel 2004 il brano ha raggiunto il ventesimo posto nella classifica delle 500 canzoni migliori di tutti i tempi pubblicata dalla rivista Rolling Stone.

La versione finale venne registrata il 31 gennaio 1969, come parte del progetto Get Back (l'album che successivamente diventerà Let It Be). McCartney suonava un pianoforte a coda Blüthner, Lennon il basso, Billy Preston l'organo, George Harrison la chitarra elettrica e Ringo Starr la batteria.

In questa seduta furono registrate due versioni della canzone. In entrambe le versioni il pianoforte suonato da McCartney presenta un accordo dissonante a 2:58.

Recentemente McCartney nella sua autobiografia (Paul McCartney - The lyrics. Parole e ricordi dal 1956 a oggi - A cura di Paul Muldoon, Traduzione di Franco Zanetti e Luca Perasi, Rizzoli e © 2021) è tornato con un più ampio racconto, sulla genesi di Let it be. Ecco il passo relativo: 

 "Sting una volta mi ha detto che cantare Let it be al Live Aid non è stata una buona scelta da parte mia. Pensava che fosse implicito che era necessario agire, e "non cercate di cambiare, le cose vanno già bene così" non era un messaggio adatto in quell'occasione, in quell'enorme chiamata alle armi che il Live Aid rappresentava. Ma Let It be non è una canzone sull'autosoddisfazione, o sulla connivenza. Parla dell'avere un senso del quadro d'insieme, del rassegnarsi alla visione globale. 

La canzone è nata in un momento di angoscia. Era un periodo difficile, perché stavamo andando verso la separazione dei Beatles. E un periodo di cambiamento, in parte anche perché John e Yoko si erano messi assieme e questo aveva condizionato le dinamiche del gruppo. Yoko si metteva in mezzo, nel vero senso della parola, alle sessioni di registrazione, il che era gravoso. Ma era anche qualcosa con cui dovevamo fare i conti. Sino a che non vi fosse stato un problema davvero serio - sino a che uno di noi non avesse detto: "Non posso cantare se lei è qui" - dovevamo lasciare che fosse così. Non eravamo polemici, ce la siamo messa via e siamo andati avanti. Eravamo ragazzi del Nord, quell'atteggiamento era parte della nostra cultura. Sorridi e sopporta. Una cosa interessante di Let It be che mi hanno fatto ricordare di recente è che, all'epoca in cui studiavo letteratura inglese al Liverpool Institute High School for Boys con il mio insegnante preferito, Alan Durband, ho letto l'Amleto. A quel tempo dovevi imparare brani a memoria perché quando li portavi all'esame dovevi essere in grado di citarli parola per parola. Ci sono un paio di frasi, verso la fine che recitano: "O, I could tell you - But let it be. - Horatio, I am dead".  Mi sa che quei versi mi si sono conficcati nella memoria, senza che ne fossi consapevole. Quando stavo scrivendo Let it be stavo facendo troppo di tutto, ero sfinito, e ne stavo pagando il prezzo. La band, io... stavamo tutti passando "times of trouble", brutti momenti, come dice la canzone, e non sembrava esserci modo di uscire da quel casino. Un giorno mi sono addormentato stanchissimo e ho sognato che mia mamma (che era morta più di dieci anni prima) era, letteralmente, venuta da me. Quando sogni di vedere qualcuno che hai perso, anche se a volte è solo per una manciata di secondi, sembra proprio che sia lì con te, ed è come se ci fosse sempre stato. Penso che chiunque abbia perso una persona cara lo capisca, specialmente nel periodo immediatamente successivo alla loro morte.

Ancora oggi sogno John e George e parlo con loro. E in quel sogno, vedere il bel viso premuroso di mia mamma e trovarmi con lei in un luogo tranquillo mi ha dato molto conforto. Mi sono subito sentito a mio agio, amato e protetto. Mia mamma era una persona molto rassicurante, e come molto spesso fanno le donne, era lei che mandava avanti la famiglia. Ci teneva su il morale. Nel sogno sembrava aver capito che ero preoccupato per quello che stava succedendo nella mia vita e per quello che sarebbe successo, e mi ha detto: "Andrà tutto bene. Così sia".   Mi sono svegliato pensando che fosse una grande idea per una canzone. Ho cominciato pensando alle circostanze in cui mi trovavo - alle grane sul lavoro. All'epoca in cui abbiamo registrato Let It be stavo spingendo affinché la band ritornasse a esibirsi in piccoli club - per tornare alle origini e rinnovare il legame che ci univa, chiudere il decennio come lo avevamo iniziato, suonando solo per il piacere di farlo. Non lo abbiamo fatto, come Beatles, ma quell'idea è stata alla base della direzione presa dall'album Let It be. Non volevamo trucchetti di studio. Volevamo un album onesto, senza sovraincisioni. Non è andata a finire proprio così, ma quella era l'intenzione. La cosa triste è che i Beatles non hanno mai suonato questa canzone in concerto. Dunque l'esecuzione al Live Aid è stata, per molte persone, la prima volta che hanno sentito il pezzo suonato su un palco.

Comunque sia, Let It be è entrata ormai da tempo nella scaletta dei miei concerti. È sempre stata una canzone collettiva, sull'accettazione degli altri, e credo che il suo momento funzioni proprio bene quando sei davanti a una folla. Vedi molta gente che abbraccia i propri partner o gli amici o i propri cari e che canta in coro. Le prime volte, quando la suonavo, si vedevano anche tantissimi accendini tenuti sollevati. Adesso ai concerti non si può più fumare, e le luci vengono dai cellulari. Riesci sempre a capire quando una canzone non è molto popolare, perché la gente mette via il telefono. Ma quando faccio questa, lo tirano fuori.  Anni fa eravamo in Giappone e abbiamo suonato al Budokan di Tokyo. Avevamo appena fatto tre serate alla Tokyo Dome, un grande stadio da baseball da cinquantacinquemila posti. Per compensare abbiamo chiuso il tour con una serata al Budokan, che in confronto offre una certa intimità. Non erano passati proprio cinquant'anni da quando i Beatles ci avevano suonato, ma è stato uno spettacolo speciale, in un posto che mi suscita molti ricordi. Ai miei addetti al tour piace farmi delle sorprese, e in quell'occasione hanno distribuito a tutto il pubblico dei braccialetti. Non sapevo cosa stesse per accadere, ma durante Let it be tutta la sala si è illuminata, con migliaia di braccia che si muovevano. In momenti come questi, a volte è difficile continuare a cantare. 

Alcuni hanno detto che Let it be ha una leggera connotazione religiosa, e sembra un po' una canzone gospel, in particolare per via del pianoforte e dell'organo. Probabilmente il termine Mother Mary viene in prima battuta inteso come un riferimento a Maria Vergine, la Madre di Dio. Come forse ricorderete, mia madre Mary era cattolica, mio papà invece era protestante, e io e mio fratello siamo stati battezzati. Per quanto riguarda la religione, quindi, sono ovviamente influenzato dal cristianesimo, ma ci sono tanti validi insegnamenti in tutte le religioni. Non sono particolarmente religioso nel senso convenzionale del termine, ma credo nell'idea che ci sia una specie di forza superiore che ci aiuta. Questa canzone allora diventa una preghiera, o una piccola preghiera. Da qualche parte, nel fondo di essa, c'è un desiderio. E la stessa parola "amen" significa "e così sia" - o "let it be"".

fonti: Wikipedia - LaRepubblica

08/06/22

*Quando Charles Manson il guru killer di "Bel-Air" era convinto che le canzoni dei Beatles gli parlassero e il caso di "Sexy Sadie".*

 


Non solo "Helter Skelter", il titolo della canzone dei Beatles che fu trovato scritto con il sangue delle vittime, da Manson e dai suoi carnefici dopo uno dei loro massacri, in particolare sul frigorifero nella casa dei coniugi Leno & Rosemary LaBianca nell'agosto del 1969, il giorno dopo il massacro compiuto nella villa di Roman Polanski a Bel-Air, Hollywood in cui furono uccise Sharon Tate, la compagna di Polanski, in cinta al nono mese, e altre 4 persone che erano ospiti della casa al 10050 di Cielo Drive.
L'ossessione folle di Manson, musicista fallito, per le canzoni dei Beatles era cominciata già qualche tempo prima.
In particolare alla canzone "Sexy Sadie", tratta dal nono e omonimo album dei Beatles The Beatles, noto anche sotto la denominazione di White Album (album bianco) che era stata composta quasi esclusivamente dal solo Lennon.
Questa canzone aveva una origine molto particolare:
Il primo abbozzo del brano si fa risalire all'aprile 1968, nel giorno in cui George e John si trovavano, durante il famoso soggiorno in India, sulla via verso Delhi dopo avere abbandonato Rishikesh, dove il gruppo aveva seguito un corso di meditazione trascendentale tenuto dal guru indiano Maharishi Mahesh Yogi.
La scritta "Healter Skelter" (storpiata rispetto all'originale
sul frigorifero della casa di Leno e Rosemary LaBianca

La guida spirituale, presentata l'anno precedente ai Beatles dalla moglie di George Harrison Pattie Boyd in un periodo particolarmente delicato del loro percorso esistenziale, aveva suscitato dapprima curiosità e fiducia nei membri del gruppo, specialmente in Harrison e Lennon. Quest'ultimo sosteneva fermamente che nel guru risiedeva la risposta a tutti i suoi problemi, che magari gli sarebbe stata elargita con una semplice e risolutiva frase, foriera di una verità talmente profonda e paradossale da cambiare radicalmente in lui il modo di concepire difficoltà e avversità. Tuttavia questa frase tardava a venire, fintantoché il gruppo cominciò a nutrire seri dubbi sui metodi e sulla filosofia di vita del Maharishi.

Inoltre, il gruppo trovava alquanto inusuale come un sedicente santone potesse disporre di domestici, commercialisti e una dépendance di assoluto rispetto, oltre alla tenuta che vantava letti a baldacchino e centro benessere, alla ridondante presenza di belle donne e perfino alla piattaforma di decollo e atterraggio di un elicottero privato.
Così, uno dopo l'altro, cominciarono a nutrire un crescente scetticismo nei confronti del Mahesh Yogi. Il primo a collidere con la personalità del filosofo/santone fu senz'altro Lennon, che arrivò addirittura a comporre una canzone finalizzata a denunciare la presunta truffa della quale erano stati oggetto. La traccia assunse il titolo temporaneo di Maharishi, what have you done?.
Successivamente, anche per evitare querele, il titolo fu mutato in Sexy Sadie. Malgrado ciò, inequivocabili risultano le allusioni alla trascorsa esperienza insieme al guru indiano.
Per esempio, nel verso «Sexy Sadie, what have you done? / You made a fool of everyone» ("Cos'hai fatto? / Ti sei presa gioco di tutti"), Lennon fa trasparire il proprio astio verso l'effimera esperienza di felicità passata nella fastosa tenuta del maestro di meditazione trascendentale. Ma sono anche altri gli attacchi nei confronti dell'ambigua figura del Maharishi considerato un truffatore megalomane corroso dalla bramosia verso il denaro.
Ma cosa c'entra Charles Manson con tutto questo?
Nel suo delirio psicopatico, Charles Manson verso la fine del 1968 Manson si convinse che la canzone fosse dedicata a una sua seguace, Susan Atkins, da lui stesso ribattezzata "Sadie Mae Glutz".
La presenza nell'album di un brano intitolato Sexy Sadie, laddove Manson aveva dato a Susan il nome "Sadie" molto tempo prima della pubblicazione del disco, fortificò in lui la convinzione che i Beatles "gli parlassero", con messaggi nascosti nei solchi del 33 giri (principalmente nelle canzoni Helter Skelter, Honey Pie, Piggies, Blackbird, Revolution 9), e gli indicassero la via da seguire nella guerra razziale globale che di lì a poco si sarebbe scatenata, ispirando i suoi deliri omicidi.
Una follia distruttiva che comportò a Manson la condanna all'ergastolo comminata nel 1972, che scontò fino alla morte avvenuta nell'ospedale di Bakersfield, nel novembre del 2017.

Fabrizio Falconi - 2022

07/06/22

* L'incredibile "esoterismo" dei Beatles: la storia di Eleanor Rigby, che fu inventata da Paul Mc Cartney, ma esisteva davvero.*

La lapide di Eleanor Rigby nel cimitero di St Peter’s, Liverpool

 

Gli appassionati di esoterismo sanno che non esiste forse terreno più fertile in materia, delle vicende, delle canzoni, delle musiche, della epopea del quartetto di Liverpool, i Beatles.

Personalmente ogni volta che scopro una nuova "coincidenza", mi stupisco di più, anche se storie e aneddoti sono ormai infiniti.

L'ultimo della serie è la celebre canzone "Eleanor Rigby", una delle più belle, intense, drammatiche, dei Beatles, seconda traccia dell'album "Revolver", pubblicato dai Beatles il 5 agosto del 1966.

Interrogato in proposito di questa donna, al centro della storia della canzone, una persona sola, che va in chiesa e condivide la sua solitudine con quella del "father" Mc Kenzie (il prete del villaggio),
McCartney, che aveva scritto il testo, dichiarò che l'idea di chiamare il suo personaggio "Eleanor" fu probabilmente dovuta a Eleanor Bron, l'attrice che ha recitato con i Beatles nel loro film del 1965 Help!

Per mischiare le carte, Mc Cartney inventò un cognome diverso: "Rigby", prendendolo dal nome di un negozio di Bristol, Rigby & Evens Ltd.

McCartney notò il negozio mentre faceva visita alla sua ragazza dell'epoca, l'attrice Jane Asher , durante la sua corsa al Bristol Old Vic's  produzione di The Happiest Days of Your Life nel gennaio 1966.

Ha ricordato Mc Cartney in una intervista rilasciata nel 1984: "Mi piaceva solo il nome. Stavo cercando un nome che suonasse naturale."

Qualche anno più tardi, in un articolo dell'ottobre 2021 sul New Yorker, scrisse che la sua ispirazione per "Eleanor Rigby" era venuta da un'anziana signora che viveva da sola e che Paul aveva conosciuto molto bene. Andava a fare la spesa per lei e si sedeva nella sua cucina ad ascoltare storie e la sua radio a transistor . McCartney ha detto: "il solo sentire le sue storie ha arricchito la mia anima e influenzato le canzoni che avrei scritto in seguito". In quella occasione confermò anche che il nome della donna era Daisy Hawkins, un nome e un cognome che non poteva funzionare nei testi.

Di recente però, "cacciatori di tracce beatlesiane" che come si sa, sono sparsi in ogni angolo del pianeta, hanno trovato una coincidenza impressionante.

Nel piccolo cimitero della chiesa di St. Peter, a Liverpool, infatti, esiste la TOMBA DI una FAMIGLIA Rigby ed Eleanor viene citata tra coloro che vi sono sepolti (purtroppo senza le date di nascita e di morte).

La circostanza ancora più sorprendente è che la chiesa si trova in una zona molto precisa di Woolton (Liverpool), esattamente dove avvenne IL PRIMO INCONTRO tra Paul e John il 6 luglio 1957 durante una festa parrocchiale!

John si stava esibendo con il suo gruppo "The Quarrymen" nei locali della parrocchia e Mc Cartney "casualmente" si trovò lì. I due si presentarono per la prima volta alla fine di quel concerto. 

E' molto probabile insomma, che senza quell'incontro "casuale" a pochi metri di distanza dalla tomba di questa Eleanor Rigby, i Beatles non sarebbero mai neppure esistiti.

Fabrizio Falconi -2022 

The Beatles