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12/10/17

"Di qui passò..." La storia di Roma attraverso le sue preziose epigrafi.



Esce per i tipi di Iacobelli Editore, un volume molto interessante per gli appassionati di Roma e della storia della città. 

«Al piano terra di questo edificio il 18 gennaio 1945 Roberto Rossellini cominciava le riprese di Roma città aperta il film che segnò l’inizio del neorealismo», «In questo palazzo Renato Guttuso visse e dipinse», sono queste soltanto due delle tante epigrafi che riempiono i muri di Roma; 

centinaia di storie che raccontano la città attraverso il passaggio di scrittori, filosofi, scultori, architetti, pittori, incisori, orafi, scienziati, teologi, attori, registi, musicisti, poeti, politici, religiosi, santi, eroi delle più svariate nazionalità insieme a quelle di sconosciuti cittadini che per un attimo hanno scritto la Storia. 

In questo volume, un modo singolare di raccontare lo splendore di una città attraverso oltre 300 epigrafi.

Fabrizio de Prophetis nato a Marino nel 1938, vive a Roma dal 1943. Tra le sue pubblicazioni: Il tram in Italia in Europa e nel mondo, Officina edizioni; Di testa mia, Ed.Tip. Detti;
La storia attraverso strade, trasporti (municipio XVII), Ed. Tip. Detti; Parliamone (epigrafi di Castelli Teramo), Ed. L’Eco di San Gabriele.

Fabrizio de Prophetis Di qui passò…

Itinerari attraverso le epigrafi di Roma

Collana Guide, pagine 320, euro 16,00

Iacobelli Editore, Roma 2017




29/05/11

Hic iacet - Le parole della soglia - 2


In epoca romana le iscrizioni erano privilegio delle classi patrizie, certo. I poveri, gli schiavi, morivano ‘senza nome’ e ‘senza parole ‘. Anche in questo vi era una pretesa di determinazione di classe tra chi lo spirito lo aveva, e poteva trasmetterlo, potendo continuare a vivere nella comunità dei vivi, attraverso le parole, e chi aveva negata questa possibilità, essendo ritenuto di classe – e di spirito – inferiore.

Queste iscrizioni, quelle numerosissime un tempo che si leggevano per esempio lungo la via Appia, continuano a riportarci ancora oggi, quando noi passanti di duemila anni dopo ci imbattiamo, il dolore, il rimpianto, lo stile di vita, lo scherzo persino nella morte, qualcosa di ineffabile, e allo stesso tempo di molto concreto, che riguarda quel luogo della morte.

Gli esempi sono tanti, e bellissimi.

Ne citiamo qualcuno:

• L’iscrizione a un tale Sesto Perpenna Fermo:

ho vissuto come ho voluto: per quale ragione sia morto, lo ignoro.
( vixi quaedammodum voluit; quare mortuus sum, nescio )

28/05/11

Hic iacet - Le parole della soglia - 1



LE PAROLE DELLA SOGLIA

Vorrei parlare delle parole che girano intorno alla morte.
Intendo dire delle parole che vengono pronunciate in circostanze di morte, e che vengono scritte, ripetute, trasmesse in circostanze di morte.

Una volta veniva attribuita grande importanza alle parole pronunciate in punto di morte, nel deliquio della morte – e queste erano spesso interpretate come buono o cattivo segno per l’anima del morituro nel suo passaggio all’altra vita – ma anche alle parole che i sopravvissuti pronunciavano per la morte di una persona.
La parola Epitaffio già dall’etimologia ci spiega il suo senso: ‘sopra’ e ‘tomba’: parole pronunciate sopra una tomba.
L’epitaffio è l’equivalente greco di quella che i romani chiamavano oratio funebris , e solo in epoche relativamente recenti è stato riferito alla scritta, cioè alla iscrizione posta sopra le lapidi.

Originariamente l’epitaffio era il discorso che veniva pronunciato ‘a caldo’ , in rigor mortis , sul corpo appena toccato dalla morte.

Era quindi, per forza di cose, un discorso grave, ispirato, pronunciato da chi conosceva bene il morto, da chi poteva tesserne le lodi e onorarne il ricordo. Tutto ciò non solo per una scarna esigenza celebrativa. Il discorso in memoriam aveva un compito importante, quello di scandire le immagini della persona che non c’è più, di imprimerle nella memoria di chi resta, di chi gli sopravvive.

In mancanza di una immagine reale da poter trasmettere, l’orazione funebre era la ‘fotografia’ di colui che scompariva per sempre, il suo ricordo per le generazioni future, tramandato oralmente. E le parole divenivano dunque ricordo, si facevano carne ancora viva.

L’epitaffio è anche divenuto con il tempo una ‘formula’. Una formula che in qualche modo si pretendeva – e si pretende – possa racchiudere l’anima, lo spirito della persona che non c’è più.

Questa ‘formula’ è divenuta la stessa iscrizione posta sulla tomba, sulla lapide e molto spesso l’epitaffio era proprio una sintesi dell’orazione funebre pronunciata dopo la morte.

L’iscrizione funebre è divenuta subito però qualcosa di fondamentale, non di ‘ornamentale’ rispetto al luogo della morte: simbolo, segnale della presenza di uno spirito ‘ che parla ‘ e che continua a parlare a chi cammina, e a chi, camminando dimostra di essere vivo, e nel suo camminare ‘passa’ di fronte al luogo della morte.

In epoca romana le iscrizioni funebri hanno raggiunto vertici inarrivabili di creatività e questa tradizione, sebbene ridimensionata è giunta fino ai giorni nostri, una caratteristica che differenzia i nostri cimiteri di oggi rispetto a quelli ad esempio anglosassoni che si limitano generalmente a riportare solo il nome e le date di nascita e di morte.

Fabrizio Falconi  © riproduzione riservata

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