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01/09/22

I 100 anni di Vittorio Gassman: la commovente lettera che gli ha scritto il figlio Alessandro

 



Nel giorno in cui il grande Vittorio Gassman avrebbe compiuto 100 anni e la Mostra del Cinema in corso a Venezia gli tributa i doverosi omaggi, riporto qui la commovente lettera aperta scritta da Alessandro Gassman a suo padre, Vittorio, qualche anno fa e pubblicata su IO Donna - Corriere della Sera .

E' molto bella e forte, priva di retorica, e traccia un ritratto veritiero e partecipato di uno dei più grandi attori italiani di sempre. 

Tua madre, piccola donna, giovane vedova, ebrea e con due figli minori a carico, fu straordinaria durante il fascismo a portare avanti una famiglia da sola. Dicevi sempre che il funerale di tuo padre, nonno Heinrich, un gigante tedesco di quasi due metri, fu il primo momento della tua vita nel quale ti sentisti al centro dell’attenzione. E scopristi che starci non ti dispiaceva, anzi. 

A quattordici anni perdere un padre è dura ma, con una madre come Luisa accanto, sicuramente avrete avuto un sostegno incredibile e anche per questo sei diventato quello che tutti conoscono. Con il susseguirsi degli anni, dei figli, delle mogli, dei premi, dei trionfi, forse ti sei accorto che quel bambino che si sentì importante durante il funerale del papà, in realtà non avrebbe dovuto starci lì al centro, ma che magari una collocazione più “laterale” ti avrebbe regalato una vita forse meno esplosiva e divertente ma più felice, più a te consona

Certo avremmo tutti perso tonnellate di risate ed emozioni, molte donne non si sarebbero innamorate, il termine “mattatore” avrebbe assunto altri significati, molti registi non avrebbero trovato il loro straordinario protagonista… Ma tu, forse, avresti vissuto

 Non hai mai una sola volta viaggiato per diletto, ma solo per lavoro. Mai ti sei fatto un regalo, tranne qualche macchina sportiva. Che, peraltro, guidavi male. Ricordo viaggi da Roma alle Alpi, schiacciato nel sedile posteriore pieghevole della tua Porsche verde pisello, con la quale raggiungevi velocità estreme per poi inchiodare immotivatamente; il frastuono assordante del motore dietro la mia testa; quell’odore di pelle che mi dava il voltastomaco. Molte pipì silenti sul ciglio della strada, molte sigarette scroccate, centinaia di pacche inaspettate dietro le spalle, che ti spostavano e che erano sempre seguite da una risata infantile e coinvolgente, e che ora inspiegabilmente mi mancano.

Cosa ti sia perduto in questi venti anni da quando sei andato “altrove”, è difficile da raccontare. Difficile perché molto è accaduto, molto è cambiato il Paese e profondamente lo sono gli italiani, tanto che se esistesse oggi il tuo Bruno Cortona del Sorpasso probabilmente sarebbe considerato dai più uno sfigato. In questo momento storico poi – dove le cose dovranno cambiare per davvero, con una epidemia che ha stravolto e stravolgerà la società, gente impreparata, rammollita da sessanta anni di ozio e perdita di riferimenti culturali – manca la voce della tua generazione, la voce di chi una “guerra” l’ha vissuta e le è sopravvissuto. 

Siete in molti lì, sei in buona compagnia: Ugo, Luciano, Dino, Ettore, Mario, Adolfo, Paolo, Ennio, Suso, Franco (Tognazzi, Salce, Risi, Scola, Monicelli, Celi, Flaiano, Cecchi D’Amico, Zeffirelli, ndr). Sempre se esiste un lì… Se nella frase che ripetevi (penso fosse del tuo amico grande sceneggiatore, Sergio Amidei) «Solo gli stronzi muoiono!» ci fosse verità, lì, dove ti trovi, sarebbe molto meno frequentato

Dell’oggi probabilmente avresti apprezzato l’accelerazione della vita, tu che eri come me iperaccelerato: ti innervosivi, come me, per lungaggini o inceppi di qualunque sorta. Avresti probabilmente fatto un utilizzo puramente letterario dei social, avresti mandato a quel paese tutti coloro – e sono tanti – che parlano sempre, che si occupano della distruzione sistematica della nostra sublime lingua, della perdita dei congiuntivi, della semantica, del fatto che nessuno più sappia cosa sia l’anacoluto. Non possono parlare meglio, perché i pensieri sono piccoli, veloci, furbeschi, corrotti, interessati. 

Avresti tifato tuo nipote Leo a Sanremo (ha vinto il Festival nella categoria “Nuove proposte”, ndr), ti sarebbe piaciuto per la sua voce, il suo coraggio e la sua umiltà. Avresti tifato per Geko (il calciatore della Roma Edin Džeko, ndr). Forse avresti anche apprezzato il mio lavoro. Avresti apprezzato alcuni nuovi registi e attori, detestato il populismo, perché vi avresti riconosciuto avvisaglie di un passato per te spaventoso. Mi avresti visto invecchiare, somigliarti di più, osservare la mia lunga schiena piegarsi leggermente in avanti per la classica lordosi di famiglia che ci accomuna, ma avrei continuato a farti ridere come nessun altro è mai riuscito. Ecco, quello che mi manca di te, soprattutto, è uno spettatore al quale fare da “buffone”. Invecchiando e avendo responsabilità, non lo faccio più spesso, nessuno ride quanto ridevi tu, nessuno adora essere preso in giro da me quanto piaceva a te, eppure penso che invece, quella rimanga la mia dote migliore. Ti abbraccio senza mascherina, e ti bacio anche sulle labbra, cosa che ti avrebbe fatto schifo. Ma con te posso farlo, come faccio da venti anni e come – rassegnati – farò per sempre. Ti voglio bene. 
A.

02/06/14

'Se è amore sconvolge la vita', di Umberto Galimberti.



Quando incontriamo l'amore non racchiudiamolo nei contatti fisici, non tratteniamolo nelle nostre difese, e neppure affoghiamolo nelle turbolenze dei nostri sentimenti. 

L'amore, comunque si presenti, apre un mondo: il mondo della vita ben diverso dalla semplice sopravvivenza. Ma per questo non dobbiamo leggere l'amore a partire dal nostro desiderio, che è troppo angusto per esserne all'altezza.

Non possiamo attenderlo nelle modalità che ci siamo costruiti a partire dalla nostra educazione, dai nostri principi, dal concetto che abbiamo di noi, dalla letteratura che abbiamo frequentato, dall'esperienza che abbiamo maturato. 

L'amore ci chiede innocenza. Quella del bambino che si apre al mondo. Perché il dono che ci fa amore, non è la persona che lo suscita, ma il mondo che, attraverso quella persona, si dischiude ai nostri occhi. Un mondo mai visto perché le nostre difese, in quell'occasione, sono cadute.  E, con le difese, anche i nostri modi, lussuriosi o pudichi, di concepire l'amore.

Vertigine del pensiero che si trova tra pensieri mai pensati, tonalità affettive per le cose di tutti i giorni che, per consuetudine, prima ci erano indifferenti, luminosità dello sguardo che si è aperto in modo del tutto nuovo sul mondo, parole nuove rispetto a quelle abituali che prima dicevamo e sentivamo. 

La nostra anima, come effetto di ogni incontro d'amore, ci cede il suo segreto e ci fa conoscere quel mondo sconosciuto che noi siamo e, fino ad allora, ignoravamo. 

Questo è l'amore, e non l'altro che ci ama o non ci ama come vorremmo che lui ci amasse.  

Perché quando le nostre attese pregiudicano l'amore, già abbiamo perso l'innocenza, e con essa la chiave che ci porta alla scoperta di tutte le nostre parti segrete che, con l'avanzare degli anni, rischiano di morire senza essere mai nate.

Ma per accedere ai doni dell'amore dobbiamo in qualche modo mettere da parte il nostro io e la nostra abituale visione del mondo, perché l'altra parte di noi stessi possa emergere, sorprenderci e sconvolgerci.  Amore infatti non è una cosa tranquilla, delicata, gentile, comprensiva, rispettosa, e tanto meno suggello di fede eterna, che è un desiderio troppo rassicurante per il lavoro che amore compie quando, bruscamente, ci sveglia dalla consuetudine monotona della nostra esistenza, dall'immagine ben strutturata della nostra identità, dai nostri desideri che cercavano appagamento quando invece amore è sconvolgimento.

Solo se comprendiamo queste cose ci portiamo all'altezza dell'amore che una cosa sola vuole: che la nostra vita non prosegua più sul binario stanco sul quale le nostre difese, e allo stesso modo, le nostre attese lo avevano incanalato, sotto il regime del nostro io che si difendeva dall'altra parte di noi stessi che pure invocava di vivere.

in testa: Antonio Canova, Tre Grazie (particolare). 



12/11/13

"Era morta mia madre - La mia Hiroshima personale." Una straordinaria intervista a Edgar Morin.




Domanda: oggi che lei ha 93 anni… Risposta: «Ah no, sono 92!». 

Edgar Morin siede quieto in giardino e ride solo con gli occhi, che sono di un azzurro infantile così incantevole da sgominare subito ogni tentazione d’imbalsamarlo come monumento vivente, di congelarlo nella deferenza dovuta a uno dei massimi pensatori del secolo. Nel suo caso non c’entra tanto una vita lunghissima, ma la straordinaria densità che l’ha segnata in ogni punto, come la sezione d’uno stagionato tronco d’albero a cerchi concentrici, dove quelli successivi dilatano i precedenti. L’infanzia nella famiglia di ebrei sefarditi («ma volevo fare il pompiere») e la Resistenza con Mitterrand («ammiratissimo per la temerarietà dai suoi fedeli, come un padrino… »). 

L’amicizia con Marguerite Duras in perenne competizione con Simone de Beauvoir («entrambe pensavano di essere l’una migliore dell’altra») e l’espulsione dal Partito comunista francese («un’esperienza necessaria per capire cosa possono diventare gli uomini»). L’incontro con Herbert Marcuse («incredibile, viveva in America, odiando quasi tutto dell’America: non aveva tivù, non andava al cinema») e le quattro mogli, l’ultima sposata due anni fa, senza mai diluire la costante fascinazione verso le donne: «Tranne ora… Sono stato il contrario di un seduttore: uno sedotto in permanenza. Magari da un viso intravisto per caso, come la faccia luminosa della luna. E il tempo va così veloce che non ce n’è mai abbastanza per vedere quella oscura».

Perciò, forse, per il teorico del “pensiero della Complessità” che con i sei volumi del suo Metodo ha rivoluzionato le scienze mettendo insieme biologia, cibernetica, sociologia, nulla quanto la propria vita è convincente per dimostrarne la tesi: tutto va visto cercando relazioni anziché dividendo le conoscenze. 

«Non c’è mai stata separazione tra me e le mie idee. Gioia, tristezza, amore sono le cose fondamentali della vita. Oggi gli economisti pensano che si possa ridurre tutto a numeri. Ma i calcoli sono una parte piccolissima degli umani: non possono misurare né capire la passione, il dolore, il piacere. In definitiva, non possono capire nulla». 

Anche nel suo delizioso memoir La mia Parigi, i miei ricordi (appena uscito, edito da Raffaello Cortina), tutto si mescola cercando nelle pietre della capitale gli umori di una vita. Eppure, dice Morin, nonostante un’avventura che si estende per quasi un secolo, tutto può essere racchiuso in un momento decisivo che ne spiega il segreto. Come il pezzo mancante per decifrare un alfabeto sconosciuto, e non importa la quantità di tempo impiegato a cercare: quando le lettere sono al loro posto ogni parola diventa trasparente. «Ho 10 anni quel 26 giugno 1931 quando esco da scuola e vedo mio zio davanti a un taxi. Ha un mezzo sorriso:i tuoi sono partiti per una stazione termale, per un po’ vieni a stare da noi. M’invade un’onda di allegria, in macchina per Boulevard de la Chapelle! Due giorni dopo sto giocando con mio cugino Freddy in un giardino vicino al cimitero Père-Lachaise. Sono accoccolato, perciò con lo sguardo che corre dal basso verso l’alto, vedo un paio di scarpe nere, pantaloni neri, una giacca nera e infine la faccia: l’uomo a lutto è mio padre. Mi sta guardando fisso e dice: non stare sull’erba, ti sporchi. E mentre lo dice, capisco tutto, capisco che mia madre è morta».

di Raffaela Carretta - 07 novembre 2013 per Io Donna - Il corriere della Sera.