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21/05/21

Quando Battiato parlava della morte e diceva: "Non si muore, ci si trasforma"

 



"Non si muore, ci si trasforma": è il passaggio di una intervista a Franco Battiato (nella occasione dell'uscita del suo album Apriti Sesamo)realizzata dal mensile XL di Repubblica, nel quale l'artista parla della morte, di come si sta preparando a quello che definisce un passaggio, una trasformazione. 

Vale davvero la pena di riascoltare e rivedere questi 2 minuti e mezzo, con la grande anima di Franco Battiato che lascia un grande, grande vuoto. 


link del video: 

Esclusiva XL. Franco Battiato. L'idea della morte - Il testamento 

25/12/17

"I cristiani sono i primi ad aver dimenticato il Natale". L'intervista di Massimo Cacciari a Huffington Post.


Huffington Post Italia online ci fa un bel regalo di Natale, offrendoci una intervista a Massimo Cacciari sui temi del Natale cristiano e su ciò che di esso è rimasto nel nostro tempo. 
La parola del Vangelo l'ha ascoltata fuori dal tempio: "Le Chiese sono diventate delle grandi scuole di ateismo. Nella gran parte di esse, la forza paradossale del verbo di Cristo viene trasformata in un discorso catechistico e ripetitivo, un piccolo feticcio consolatorio e rassicurante, un idoletto. È l'opposto di ciò che insegnava Gesù domandando ai suoi discepoli: 'Chi credete che io sia?'". Massimo Cacciari era ancora uno studente al secondo anno di liceo quando, tra lo Zarathustra di Nietzsche e le prime letture di Hegel, aprì le pagine del Nuovo Testamento: "Fu entusiasmante sentire la straordinarietà di quel testo, la bellezza di una storia che induce ad andare alla ricerca, senza certezze, rischiando. Al novanta per cento, i preti sono incapaci di rendere la potenza di quel racconto. Le loro omelie, spesso, sono delle lezioni di anti religione".
Negli anni sessanta e settanta, mentre erano di moda i capelloni, Marx, i pantaloni a zampa d'elefante, Marcuse, l'eros e la civiltà, Kerouac, la Cina e Janis Joplin, Cacciari leggeva i testi della teologia cristiana: "Nelle riviste della sinistra non organiche al partito comunista – "Quaderni Rossi", "Contropiano" – discutevamo della Santa Romana Chiesa insieme a Giorgio Agamben, Mario Tronti, Giacomo Marramao. Avevamo idee diverse, ma condividevamo le stesse letture: tutte abbastanza eretiche". Il Natale degli alberi in pivvuccì, degli acquisti online e i centri commerciali aperti tutto il giorno; il Natale della neve luccicante incollata sulle vetrine, delle barbe bianche, delle renne e delle slitte, non lo scandalizza: "Basta sapere che la nascita di Cristo non ha niente a che vedere con quello che vediamo intorno a noi. Il Natale è diventato un festa per bambini e adulti un po' scemi. Non c'è da levare alti lai contro il consumismo. C'è solo da riflettere, meditando con sobrietà e disincanto". Nel suo libro, "Generare Dio" (Mulino), mostra – da laico – che nel mistero dell'incarnazione di Dio c'è un personaggio che abbiamo avuto sempre sotto gli occhi, eppure non siamo stati ancora in grado di vedere nella sua interezza: Maria.
Perché, professore?
Maria è stata pressoché ignorata anche dai filosofi che hanno interpretato l'Europa e la Cristianità, come Hegel e Schelling. Il discorso ha privilegiato il rapporto del padre con il figlio. Maria è stata ridotta a una figura di banale umiltà, un grembo remissivo e ubbidiente che si è fatto fecondare dallo spirito santo senza alcun turbamento.
Invece?
Quando l'Arcangelo Gabriele le annuncia che concepirà e partorirà un figlio e che egli sarà chiamato Figlio dell'Altissimo, Maria ha paura. Si ritrae, dubita, è assalita dall'angoscia, medita. Il suo sì non è affatto scontato. Nel momento in cui lo pronuncia, è un sì libero e potente, fondato sull'ascolto della parola. Perché Maria giunge a volere la volontà divina.
Nessuno se n'era accorto prima?
Nel pensiero, solo pochi autori – penso a Balthasar – hanno riflettuto sulla figura di Maria. È nella pittura – nella grande pittura occidentale – che Maria si innalza al ruolo di protagonista assoluta. Siamo di fronte a uno di quei casi in cui l'espressione figurativa è andata molto più in profondità del linguaggio.
Cosa riesce a mostrare?
Che se si toglie alla nascita di Cristo la scelta di questa donna che accoglie nel suo ventre il figlio di Dio e il suo Logos, l'incarnazione diventa una commedia. Maria è libera. Anzi, di più: il suo libero donarsi all'ascolto è in realtà un'iper libertà.
Perché iper?
Quando – nel giardino dell'Eden – Adamo mangia il frutto dell'albero della conoscenza obbedisce al proprio desiderio. La sua libertà è la libertà di soddisfare i propri impulsi. Maria, invece, riflette, s'interroga, soffre. Poi, fa la volontà dell'altro. La sua libertà è quella di far dono di sé. È come suo figlio: fa la volontà del padre. E qual è la libertà maggiore: quella che ti incatena a te stesso; oppure quella che ti libera dall'amor proprio?
Ma la libertà può essere slegata da ciò che si desidera?
Ma perché non si dovrebbe desiderare di donare se stessi agli altri? Perché non può essere questo l'oggetto del desiderio, anziché quello di soddisfare le proprie pulsioni?
Possiamo riuscirci?
Gesù, Maria, Francesco ci hanno dato degli esempi della libertà intesa come dono. È oltre umano seguirli? Può darsi. E può anche darsi che proprio qui s'incontrino la radicalità del messaggio cristiano e il super uomo di cui parlava l'anti cristiano Nietzsche: nell'impossibile.
Ma se è impossibile, perché provarci?
Perché l'impossibile non è una fantasia, un gioco inutile e vano. L'impossibile è l'estrema misura del possibile. E, se non orienti la tua vita in quella direzione, rimarrai prigioniero del tuo tempo. È questo il messaggio di Gesù: per essere libero, abbi come misura la mia impossibilità.
Se non possiamo essere come lui, perché Cristo si è fatto uomo?
Perché è necessario avere come misura qualcosa che ci oltrepassa per riuscire a spingerci altrove. Cristo non predicava nei templi: predicava fuori, nelle strade. I suoi discepoli dicevano: "È fuori". Nel senso: "È fuori di testa, è pazzo". Eppure, Gesù ha segnato un prima e un dopo nella storia dell'uomo, ha creato il mondo culturale e antropologico in cui viviamo. C'è qualcosa di più realistico di questo? Senza quell'impossibilità niente ci spingerebbe a uscire da noi, a ri-orientare diversamente le nostre vite.
Perché dovremmo farlo?
Per liberare il nostro tempo dalle sue miserie. Più la nostra epoca ci rinserra dentro di essa, più servono grandi idee, pensieri limite, parole ultime. Sono le uniche cose che ci possono sradicare dal tempo in cui ci viviamo.
Come lo definirebbe?
Osceno, nel senso letterale del termine: un tempo in cui tutto deve essere posto sulla scena: i nostri pensieri, le nostre fotografie, i nostro segreti. Niente deve stare in una zona scura. Invece, è proprio dal buio che proviene la luce che illumina e rivela. Pensi alla pittura d'Europa, la terra del tramonto: cosa raffigurerebbe senza il gioco dell'ombra?
È tutto davvero così esposto?
Al contrario. Quella della trasparenza è solo un'ideologia. Mai come oggi le potenze che governano il mondo sono state così nascoste. Al di là dell'apparenza, la nostra è l'epoca dell'occulto, dei poteri anonimi, di ciò che non si vede. Mentre, nel caso di Maria, la luce divina si copre d'ombra per manifestarsi nella realtà, nel nostro tempo l'oscuro si nasconde dietro la luminosità. Lucifero è negli inferi, però finge di essere portatore di chiarore. La nostra epoca è attraversata dallo spirito dell'anti-Cristo. Ci sono stati momenti in cui esso si è manifestato nella sua forma pura. Oggi, invece, circola mascherato.
Anche la politica avrebbe qualcosa da imparare da Maria?
Maria è una figura della libertà, non è il santino che raccontano i preti. La sua humilitas è meditazione e ascolto. Se leggessero ancora, i politici potrebbero imparare anche da lei. Se non altro, per essere più consapevoli della storia in cui si collocano. Il dramma, però, è che c'è stata una completa divaricazione tra il sapere e il potere.
Per quel che riguarda le figure religiose, i cristiani non potrebbero aiutarli?
I cristiani sono i primi ad aver dimenticato il Natale, smettendo di predicare la paradossalità del verbo.
Anche il Papa?
Il discorso è più complesso. Francesco si inscrive nella tradizione ignaziana, dove l'etica della fede si coniuga alla volontà di potenza e l'assoluta dirittura morale ed etica si combina a una grande capacità di catturare il mondo nelle proprie reti.
Perché neanche le femministe hanno riflettuto su Maria?
Perché anche loro – benché protagoniste dell'ultima vera rivoluzione degli ultimi decenni – sono rimaste vittime della lettura maschilista dell'incarnazione. Hanno guardato Maria come un figura servile, totalmente oscurata dal rapporto tra padre e figlio, non riuscendo a scorgere quello che c'è oltre.

08/12/17

"Questo non è un film su Casanova. E' un film su di me!" Donald Sutherland rivela i segreti del "Casanova" di Fellini.



In una bellissima intervista rilasciata a Paola Piacenza per Io Donna del Corriere della Sera del 2 Dicembre 2017, il grande Donald Sutherland svela alcuni retroscena molto interessanti del suo lavoro in Italia con due grandi registi come Bernardo Bertolucci e Federico Fellini.  Riporto qui a beneficio dei lettori del Blog la parte riguardante. 

Dice di aver detto no a film perché violenti, eppure non esiste personaggio più violento di quello che lei interpretò in Novecento. 

Aaaaaahhh !!! Sì sì, (in italiano). Allora, un giorno io vado da Bernardo e gli dico "Ho qui una pubblicazione underground che un amico che lavora in una casa editrice di San Francisco mi ha dato.  E' un articolo sulla psicologia di massa del fascismo. Questo voglio fare nel film: un fascista che sia un burocrate."    E Bertolucci: "No, no, deve essere un mostro".   Così per due settimane noi abbiamo girato due versioni di ogni scena, la sua e la mia. 

Mi lasci indovinare...
Bernardo ha tenuto la sua. Bernardo ha... (fa un gesto con le mani come di un uccello che si libra nell'aria, ndr). Quando poi mi ha invitato a vedere il film finito, gli ho detto: "Mi hai spezzato il cuore". 

Lei ha un corposo capitolo italiano nella sua carriera. Mi racconta come lavorò con Fellini in Casanova ?
Mi spiace, non posso. Non ne ho idea. Posso solo dirle che le prime 5 settimane sono state le peggiori della mia vita e che nei 12 mesi successivi mi sono posto tutte le domande che un attore e un uomo dovrebbe farsi. 
La mia relazione con Federico era molto problematica e lo è stata a lungo, poi improvvisamente intorno alla quinta settimana di riprese come per magia tutto ha cominciato a funzionare.  Lui sedeva sulle mie ginocchia, mi chiedeva cose impossibili e io le facevo, come stregato. 
Mia moglie mi odia quando lo dico, ma la nostra era quasi una relazione sessuale per il genere di intensità che sprigionava.
Ricordo che era venuto a trovarmi a Parma, sul set di Bernardo, ed eravamo andati via con la Mercedes che la produzione mi aveva dato. Sul sedile posteriore avevo accumulato libri su Casanova.  "Che cos'è questa roba ?" Apre il finestrino e li getta. "Che cosa fai, Federico ?" urlo io. E lui: "Questo non è un film su Casanova. E' un film su di me!"

tratto da: Sono morto tante di quelle volte... intervista di Paola Piacenza a Donald Sutherland, Io Donna, Corriere della Sera, 2 dicembre 2017, p.104. 


18/01/16

"Roma rassegnata e meticcia" - intervista a Fabrizio Falconi.



Intervista realizzata da Gabriele Ottaviani per Convenzionali.


Convenzionali ha recensito Roma segreta e misteriosa di Fabrizio Falconi: ora, abbiamo il piacere di intervistarne l’autore.

Perché scrivere un libro su Roma e sui suoi aspetti più insoliti, esoterici, magici?

Perché, come disse una volta Sigmund Freud, Roma assomiglia a un’entità psichica, dove il passato è ovunque e convive con il presente e con il futuro. E proprio come una entità psichica, Roma può essere indagata ad libitum, scoprendo sempre nuovi aspetti, nuove profondità e nuove luci e nuove ombre. Poi Roma, proprio per questa lunghissima abitazione umana, lunga tre millenni, nasconde, custodisce storie e misteri più di ogni altra città al mondo.

Che città è Roma oggi?

Una città un po’ rassegnata, e completamente meticcia ormai. I Romani sono, per la prima volta nella sua storia, minoranza. Prevalgono i forestieri, la gente che vive qui ormai proviene da ogni parte d’Italia e del mondo. È ormai una città meticcia, e anche dal fascino decadente, un po’ come Istanbul.

Ci sono altri segreti e misteri oltre a quelli che ha raccontato nel suo libro?

Certo, a Roma, come dicevano i nostri nonni, basta sollevare una pietra – o un sampietrino – ed esce fuori una storia. I misteri di Roma affondano le radici nel mito stesso di Roma, e poi proseguono fino ai giorni nostri. Io qui propongo soltanto una selezione, una mia scelta.

Cosa pensano secondo lei di Roma i romani, gli italiani non capitolini e i cittadini stranieri?

I Romani, nel senso di quelli che ci abitano, non la trattano molto bene. La usano come una pantofola vecchia, ci sono abituati e la maltrattano, non la curano. Gli italiani non capitolini ne sono affascinati e in parte ne invidiano anche un po’ il suo ruolo centrale; purtroppo a causa dei palazzi del potere Roma viene ancora oggi molto bistrattata. I cittadini stranieri ne sono invece quasi tutti affascinati, innamorati. Ogni qualvolta un amico straniero viene in visita qui, a trovarmi, dopo un po’ di giorni che è rimasto qui se ne va via con le lacrime agli occhi.

Quale romanzo e quale film per lei hanno raccontato meglio la Città Eterna?

Non ho dubbi: “Roma” di Federico Fellini. Lì c’è davvero tutto lo spirito di Roma, della Roma antica e della Roma di oggi. È un capolavoro, fra l’altro creato da un non romano, che però adottato da questa città, ne comprese meglio di chiunque altro lo spirito.

Che ruolo hanno i simboli, le leggende, i luoghi comuni, i pregiudizi nella percezione di Roma?

Fondamentale. A partire dal mito fondativo, di Romolo e Remo, tutta la storia di Roma è intrisa di miti, leggende, tradizioni, usanze che affondano le radici nei riti pagani e nelle religioni, prima fra tutte il cristianesimo che ha allacciato la sua storia millenaria con quella di Roma.

Come è cambiata Roma nel corso della storia?

La pelle di Roma, come quella di un camaleonte, è cambiata molte volte nel corso della storia. Per questo non si può parlare solo di Roma in astratto: ci sono tante Roma, quella dei miti primordiali, quella della Roma imperiale, quella medievale, quella classica e papalina, quella risorgimentale, quella fascista e quella della liberazione. Ognuna, ha una storia interessante.

Roma è un centro più religioso, culturale o politico?

Oggi è sicuramente più rilevante dal punto di vista religioso. Politicamente, Roma è sempre la capitale, ma la vera capitale economica dell’Italia è ormai Milano. Culturalmente, Roma è invece parecchio indietro, rispetto alle grandi capitali europee. Ma il gap può essere colmato facilmente se ci fosse la volontà politica di farlo: nessuna città al mondo dispone di un patrimonio storico-artistico-architettonico come quello di Roma.

Cosa rappresenta Roma in Italia e nel mondo?

È sempre, come ho detto un punto di riferimento. Il centro della Cristianità in Occidente. E da un certo punto di vista la città caput mundi, quella che ha segnato la storia dell’Occidente, ponendo importanti cardini che ancora oggi reggono questa parte del pianeta.

In cosa Roma e l’Italia si somigliano e in cosa differiscono?

Si assomigliano nei limiti e nell’autolesionismo. Differiscono forse nello spirito con cui si vive: Roma è una città caotica, nella quale comunque sopravvive incredibilmente lo spirito dei padri, in certi aspetti come la sornioneria, l’ironia, lo scetticismo.

Una grande metropoli e una città di provincia: così Flaiano, più o meno. È d’accordo?

Assolutamente sì. Flaiano era un genio.

Che ruolo ha avuto la speculazione negli anni a Roma? Si può parlare della capitale con gli stessi termini che Rosi dedicò a Napoli nel suo Le mani sulla città?

Sì, il volto di Roma è stato violentato negli ultimi 50-60 anni dalla speculazione edilizia. E oggi dalla criminalità organizzata. Roma è diventata, come scrive Francesco De Gregori in una sua famosa canzone, una “vacca in mezzo ai maiali”, nel senso che per molti è soltanto una risorsa da spremere, da sfruttare fino alla morte.

Da cosa nasce il suo interesse per l’esoterismo, la magia, l’occulto?

La parola esoterico anticamente non aveva implicazioni con il satanico o l’occulto, come oggi va di moda. Io mi riconosco in quel significato, che non vuol dire altro che l’antica sapienza è stata per molto tempo occultata ai più, considerati non capaci di comprenderla, e criptata in codici, formule e simboli riservati solo agli iniziati. Così quel sapere si è conservato, e qualche volta è rimasto perfino ignoto alle generazioni successive.

Cosa ama leggere?

Leggo di tutto, sono onnivoro. Ho una curiosità irrefrenabile, e mi sembra sempre tantissimo quello che non so e che vorrei conoscere. Ma questo è in fondo, essere vivi. Si smette di esserlo quando si perde la curiosità di conoscere. La conoscenza è tutto.

Quale libro avrebbe desiderato scrivere? E quale scriverà nel futuro?

Mi sarebbe piaciuto essere forse uno di quei cronachisti che visitarono Roma nell’anno Mille e che scrissero i Mirabilia Urbis, le meraviglie di quella città, piena di rovine, che affascinava così tanto i pellegrini che venivano a visitarla a piedi da mezzo mondo… Per il futuro, sto scrivendo un nuovo libro, si intitolerà Le rovine e l’ombra. Si parlerà sempre di rovine, e anche di Roma, ma da un punto di vista molto più personale, alternando la riflessione psicologica e filosofica, con il racconto di storie legate alle rovine. Sono convinto che l’ombra che protegge le rovine – sia quelle vere, delle città, sia quelle personali, psicologiche – sia molto preziosa perché contiene grandi potenzialità e grandi riserve di vita.

Qual è la cosa più importante da fare quando si racconta una storia, qualunque essa sia?

Considerarne la verosimiglianza, approfondirne i dettagli e gli aspetti e raccontarla con la passione, come quando si cerca di interessare un bambino ad ascoltare una favola. In fondo, il nostro bisogno di storie non finisce mai, in tutta la vita, indipendentemente dalla età che abitiamo.

Intervista realizzata da Gabriele Ottaviani per Convenzionali.

16/10/13

Intervista al premio Nobel 2013 Alice Munro - di Irene Bignardi.





Dopo La vista da Castle Rock aveva giu­rato che non avrebbe scritto più. E il suo edi­tore ita­liano, per con­so­larci di non poter più con­tare sull’atteso perio­dico appun­ta­mento con i bel­lis­simi rac­conti di Alice Munro, la signora della short story, una delle grandi scrit­trici di que­sti due secoli, ha pen­sato bene di pub­bli­care una intensa, fre­schis­sima rac­colta del 1991, Le lune di Giove (Einaudi, pagg. 300, euro 19,00, tra­du­zione sem­pre impec­ca­bile di Susanna Basso).ù
Rac­conti acuti, dolo­rosi, su gente vera e nor­male, su fram­menti di vita impec­ca­bil­mente ricreati. Ma, dice ora mali­ziosa e rilas­sata la bella signora con i capelli bian­chi, «che non avrei più scritto era una grossa bugia». E per­ché ha men­tito, signora? «Pen­savo che fosse una buona idea. Pen­savo che la gente mi potesse essere grata per que­sto». E Alice Munro, cana­dese, anni set­tan­ta­sette por­tati con gra­zia estrema («ma se mi penso mi penso a qua­ranta, quando sei ancora capace di eser­ci­tare un’attra­zione ses­suale e hai tempo davanti a te»), autrice di un cor­pus rela­ti­va­mente pic­colo e molto accla­mato di opere, sor­ride, beve vino bianco e ricorda. 

«Sono nata nel 1931, durante la depres­sione. Non so come sia stata in Europa, ma nel Nord America è stata disa­strosa. Non era­vamo dispe­ra­ta­mente poveri. Era­vamo men­tal­mente poveri. Col­ti­va­vamo il nostro cibo, le nostre ver­dure. E nostro padre alle­vava volpi argen­tate. Allora erano molto alla moda. Se lei guarda le foto­gra­fie di Elea­nor Roo­se­velt aveva sem­pre una stola di volpe attorno al collo. Mio padre aveva sognato di diven­tare ricco con que­sta atti­vità, ma non ha avuto mai abba­stanza soldi per inve­stire, e non ci è riu­scito. Poi, durante la guerra, quel tipo di pel­licce è pas­sato di moda. Ed è stato costretto ad andare a lavo­rare in una fab­brica, in una fon­de­ria. Mia madre si è amma­lata molto gra­ve­mente di Par­kin­son ed è vis­suta per quasi vent’anni in que­sta condi­zione dispe­rata. E io, io ero la figlia più grande. E imma­gino che se fossi stata una brava figlia una volta finito il liceo sarei rima­sta a casa, con mia madre e mio fra­tello e mia sorella più pic­coli. Invece ho vinto una borsa di stu­dio e me ne sono andata. All’ uni­ver­sità. Per la verità non avevo abba­stanza denaro. Avevo soldi per tre anni e non per quat­tro. Dovevo tro­vare qual­che forma di lavoro. Ho avuto dei premi, ma non basta­vano. Così ho deciso che la cosa migliore da fare di fare era spo­sarmi». 

Scherza? Spo­sarsi per soprav­vi­vere? 
«No, ero anche inna­mo­rata. Sa, ai ragazzi della mia città non pia­cevo affatto, per­ché ero così strana, una che leg­geva sem­pre. Ma è suc­cesso che all’ uni­ver­sità ho incon­trato un ragazzo capace di accet­tare il mio modo di essere. Molti ragazzi ai miei tempi non pote­vano sop­por­tare che le loro donne si impe­gnas­sero seria­mente in un lavoro. Lui invece, Jim Munro, ne era feli­cis­simo, era deliziato da me, era molto bello, molto carino. Ho preso il suo nome e me lo sono tenuto per­ché è meglio del mio. Abbiamo avuto una bam­bina Sheila, poi una seconda bam­bina Cathe­rine, che è morta subito, poi una terza, Jean­nie, poi Andrea, che è nata nove anni dopo. Vive­vamo a Van­couver, nei sob­bor­ghi. C’ erano all’ epoca in Canada delle pic­cole rivi­ste e una radio che pro­muoveva la let­te­ra­tura nazio­nale. Ho comin­ciato a ven­dere qual­che rac­conto, ad essere cono­sciuta nei giri che si occu­pa­vano di let­te­ra­tura…»

La leg­genda di Alice Munro vuole che per le short sto­ries si sia ispi­rata alla Sire­netta di Ander­sen e per i romanzi a Cime tem­pe­stose. 
«Non ose­rei mai di scri­vere sul modello di Cime tem­pe­stose, è un libro unico. Ma è vero che La sire­netta ha avuto un influsso molto pro­fondo su di me. Si è con­dan­nata per amore, ha dato la sua anima per amore. E’ la donna ideale. Ed è vero, a me piace la tra­ge­dia. In genere si pensa che una scrit­trice donna debba scri­vere come Jane Austen. E Jane Austen è bra­vis­sima. Ma per qual­cuna della mia classe sociale non è inte­res­sante come le Bronte. Io non sono mai stata inte­res­sata alla società ben edu­cata. Volevo che la gente avesse dei destini tra­gici e grandi emo­zioni. Quando i bam­bini erano pic­coli ho letto come una dispe­rata, tutto, ma non sono mai stata influen­zata dai clas­sici del ven­te­simo secolo come Proust, Mann, la let­te­ra­tura nobile, sa, per­ché non capivo quel tipo di società. No, gli autori che mi hanno spinta a scri­vere sono Flan­nery O’ Con­nor, Car­son McCul­lers, Eudora Welthy, scrit­trici che rac­con­tano le pic­cole città, la povera gente. Il mio ter­ri­to­rio. Per­ché non solo ho avuto la for­tuna di nascere povera, ma di vivere in un paese che tratta i poveri con dignità»

Ci sono state anche altre influenze. 
«Quando avevo sedici anni, ho avuto un lavoro come came­riera, presso una fami­glia, durante le vacanze su un lago. Era­vamo in un posto molto iso­lato. Il padrone di casa mi ha dato da leg­gere le Sette sto­rie goti­che di Karen Bli­xen. E le ho amate mol­tis­simo, anche se poi più tardi ho pen­sato che non mi pia­ceva il suo punto di vista - quello di un’ ari­sto­cra­tica, e non solo, una che pen­sava che all’ ari­sto­cra­zia vanno riser­vati trat­ta­menti spe­ciali. Quando leggo una scrit­trice così penso sem­pre che nei suoi rac­conti io sarei la ragazza che sta in cucina. Ma è anche gra­zie a lei se ho sco­perto la bel­lezza della forma rac­conto - senza tut­ta­via mai cer­care di imi­tare quella prosa. E’ così facile il rischio di fare la paro­dia del bello stile»

Ma lei fa dello stile: la lin­gua che usa è ricca, pre­cisa, a volte per­sino pre­ziosa nella scelta les­si­cale. «E’ un fatto cana­dese. La lin­gua è rima­sta pro­tetta in una cap­sula che non è tanto cam­biata»

Dif­fi­cile, per una donna, scri­vere nel suo paese? 
«Non dif­fi­cile, quasi impos­si­bile. Ero una gio­vane moglie e madre. Gli uomini non mi pren­de­vano sul serio. Be’, vera­mente, alcuni sì. Per esem­pio Robert Wea­ver, l’uomo a cui devo quasi tutto, e che ora non c’è più. Diri­geva una rivi­sta, e non ha mai smesso di inco­rag­giarmi. Ma quando andavo agli incon­tri con gli altri scrit­tori, era un club maschile. E poi c’erano le loro mogli che non mi sop­por­ta­vano»

Per­ché era troppo bella? 
«Non mi sono mai con­si­de­rata bella. No. Per­ché ero donna e facevo il mestiere dei loro mariti. Le donne, allora, erano o mogli o orna­menti. Nes­suno mi pren­deva sul serio come scrit­trice. Ero lontana da tutto. Vivevo ai mar­gini. Scri­vevo sulle cose sba­gliate, non scri­vevo di guerra, di poli­tica - ed era ancora l’ epoca Heming­way»

Ed è uno stu­pendo con­trap­passo che lei oggi sia il nome più grande della let­te­ra­tura cana­dese. «Sì. Una stu­penda ven­detta». Per­ché si è eser­ci­tata soprat­tutto la forma della short story? 
«Per via del mio lavoro da casa­linga. Non ho mai avuto un anno in cui lavo­rare alla stessa cosa. Il mio lavoro era sem­pre inter­rotto. Non potevo nem­meno lon­ta­na­mente pen­sare a un romanzo»

Cin­que rac­conti di Le lune di Giove sono in prima per­sona. Siamo auto­riz­zati a pen­sare che sono molto per­so­nali? 
«Molto. Le lune di Giove è stato il quarto o quinto libro che ho scritto, ed era molto auto­bio­gra­fico: cose che ho vis­suto, per­ché non puoi scri­vere d’ amore senza aver avuto una certa quan­tità di espe­rienze d’ amore. O di sof­fe­renza»

O, come in L’inci­dente, dell’ azione del caso, del suo potere di scon­vol­gere e ridi­se­gnare le vite. «Non ho mai avuto un’ espe­rienza del genere, ma era impor­tante scri­vere quella sto­ria. E se in pas­sato ho capi­ta­liz­zato sulla mia vita, ora mi guardo mag­gior­mente in giro. Per esem­pio, sto lavo­rando adesso su una vec­chia signora che ho visto andare a farsi tin­gere i capelli di viola e di blu, ma che non ha nean­che un filo di trucco. Mi sono chie­sta: che cosa sta cer­cando, che cosa vuol pro­vare? E la mia fan­ta­sia si mette in moto. E poi parlo molto con la gente. Ascolto le sto­rie della comu­nità in cui vivo. Da qual­che anno sono tor­nata a vivere con il mio secondo marito in una pic­cola città, a trenta miglia da quella in cui sono cre­sciuta. Non scrivo diret­ta­mente sulla vita dei miei co­cittadini, ma mi incu­rio­si­sce come la orga­niz­zano - e la vita è sem­pre molto dif­fi­cile, è dif­fi­cile attra­ver­sarla ed essere felici»

Accet­te­rebbe la defi­ni­zione di pie­tas per il suo modo di guar­dare ai per­so­naggi dei suoi rac­conti? 
«O di com­pren­sione. O di capa­cità di per­do­nare i torti degli altri. Sì, se è pie­tas sapermi iden­ti­fi­care nella con­di­zione degli altri, nei loro com­por­ta­menti. Non scrivo così per­ché io sia par­ti­co­lar­mente buona. Ma per­ché posso imma­gi­nare che io stessa, in certe con­di­zioni, potrei com­por­tarmi in maniera diso­no­re­vole». 

Lei è molto amata e letta, ma i suoi rac­conti non sono certo con­so­la­tori o tran­quil­liz­zanti, sca­vano, fanno sof­frire. 
«Credo che la gente legga le mie sto­rie per le stesse ragioni per cui io le scrivo. Per­ché non cerco lo happy ending, per­ché scrivo per un momento di choc, di stu­pore, di rive­la­zione - ciò che rende la vita appas­sio­nante per me. E se rie­sco a susci­tare negli altri que­sto effetto, è mera­vi­glioso. Lo so, parlo di cose dif­fi­cili, di sof­fe­renza, di come si soprav­vive alla sof­fe­renza». Di Le lune di Giove, il rac­conto che dà il titolo alla rac­colta e che ha al cen­tro la figura di suo padre, col­pi­sce il suo rap­porto con la vec­chiaia. «Non ho mai avuto paura della vec­chiaia, ma ora, a set­tan­ta­sette anni, sento che il tempo si sta chiu­dendo. E ho un po’ paura delle cose che pos­sono suc­ce­dere. Di quello che ho visto suc­ce­dere agli altri. Non c’ è che una cosa da fare. Stare più attenta che in pas­sato a come uso il tempo che mi è con­cesso. Voglio usarlo al meglio. Magari - sor­ride - per scri­vere». 

Intervista di Irene Bignardi,  Repubblica 5 marzo 2005

27/01/13

Jung parla della morte





Traggo questa meritoria traduzione di questa intervista - fatta da C.G.Jung poco tempo prima di morire - da 
Il Blog di Andrea Gentile. E' una riflessione molto interessante sulla morte, che chi vuole può ascoltare direttamente sul sito soprastante e chi preferisce, può leggere qui sotto.

Intervistatore: Ricordo che una volta dicesti che la morte, a livello psicologico, è importante tanto quanto la nascita……. ma la morte è una fine?

Jung: Se la morte è una fine non si sa con certezza, perchè sappiamo che ci sono queste particolari facoltà psichiche che non sono interamente confinate in uno spazio e in un tempo; possiamo avere sogni o visioni….  e tu esisti e probabilmente sei sempre esistito. Questi fatti dimostrano che la psiche in parte non è dipendente da questi confini, e quindi se la psiche non è sotto l’obbligo di vivere solamente in uno spazio ed in un tempo (e di certo non lo è), allora è ammesso che praticamente c’è una continuazione della vita e quindi una sorta di esistenza oltre il tempo e lo spazio.

Tu credi che la morte sia una fine?

Jung: Bene, io non posso dire credo…. credere è una cosa difficle per me, io non credo, devo avere delle ipotesi, ma se lo so, non ho bisogno di crederci... quando ci sono sufficienti motivi per una certa ipotesi, io devo accettarla, potrei dire che dobbiamo riconoscere quantomeno la possibilità della sua esistenza.

Int. : (Qui c'è una domanda sulla morte come fine certa e su che visione dovrebbero avere gli anziani rispetto alla morte)

Jung: Io ho trattato molti pazienti anziani ed è molto interessante vedere come l’inconscio agisce sulla concezione della morte come apparentemente definitiva… Io penso che è meglio per le persone anziane guardare avanti al giorno successivo, come se ci fossero secoli ancora da vivere e solo così vivrà correttamente,….. se al contrario sarà spaventato e guarderà indietro si pietrificherà, si irrigidirà e morirà prima del suo tempo. Ma se guarderà avanti guardando fiducioso nella grande avventura della vita che ha davanti, allora vivrà…. e questo è il vero significato al quale tende l’inconscio. Dato che è abbastanza ovvio che moriremo tutti e questo è il triste finale di tutto….. [ anche qui c'è un passaggio che non ho ben compreso dato il suo inglese]…. Io non so perchè abbiamo bisogno di un’anima, ma preferiamo avere anche un’anima, perché in questo modo ti senti meglio, e così quando pensi in una certa maniera ti potrai considerevolmente sentire meglio….. e penso che se pensi attraverso le linee della natura, pensi correttamente!

02/10/12

Intervista ad Andrei Makine - Il romanzo nell'epoca della comunicazione.


  

Di Andrei Makine, è da poco uscito presso l’editore Einaudi,  Il libro dei brevi amori eterni.

* Murielle Lucie Clé­ment. – Andreï Makine, la sua idea di let­te­ra­tura è mutata, da quando è ini­ziata la sua car­riera, una ven­tina d’anni fa?

Andreï Makine. – In linea gene­rale no, ma si tratta anche di capire cosa lei intenda con “idea di letteratura”.

M. L. Clé­ment. – La sua idea per­so­nale e gene­rale di letteratura.

A. Makine. – Il posto che la let­te­ra­tura occupa in que­sto mondo, il posto che la let­te­ra­tura occupa rispetto alle espres­sioni arti­sti­che non let­te­ra­rie, rispetto alla filo­so­fia? Il campo va ben deli­mi­tato. La let­te­ra­tura era, per me, una spe­cie di sacer­do­zio. Si entra nella let­te­ra­tura come si entra in ordine reli­gioso. Ma senza alcuna con­no­ta­zione asce­tica o reli­giosa. Un impe­gno totale. Un altro modo di vivere. Proust diceva:” Leg­gere è assen­tarsi dalla vita”. Un libro è un altro modo di vivere. E’ pos­si­bile acce­dere in modo com­pleto a que­sto modo di vivere? Non credo, per­ché siamo dei sem­plici esseri mor­tali e dun­que siamo inte­res­sati a nume­rose altre atti­vità. Tanto più che, gra­zie a Ver­laine, la let­te­ra­tura è diven­tata quasi una bat­tuta: “E tutto il resto è letteratura!”
La visione che ne hanno i russi è abba­stanza ori­gi­nale. Non hanno creato grandi sistemi filo­so­fici, e hanno rime­diato a que­sto con la crea­zione let­te­ra­ria. Essere scrit­tore, in Rus­sia, signi­fica essere anche un pen­sa­tore e un filo­sofo. Que­sto con­fine, che tro­viamo in Fran­cia e in Ger­ma­nia, tra let­te­ra­tura e i grandi sistemi filo­so­fici come quello di Car­te­sio, di Hegel o di Kant, là non esi­ste. I russi, dun­que, sono dei sin­cre­ti­sti, e ciò può essere utile. Gli ha per­messo di evi­tare lo svi­luppo ple­to­rico di una let­te­ra­tura leg­gera, che è sem­pre stata indi­cata come bel­le­tri­stika. Una parola, “belle let­tere”, che in fran­cese suona nobile, ma in russo è un peg­gio­ra­tivo e ingloba tutto ciò che è avan­spet­ta­colo, roman­zetto da leg­gere in treno, tutti i generi minori, i roman­zetti facili. E che sono sem­pre stati disprez­zati, in Rus­sia. Quale sarebbe, allora, il ruolo della let­te­ra­tura, come defi­nirla? Una spe­cie di sote­rio­lo­gia. La let­te­ra­tura è soprat­tutto que­sto. Dopo i miei primi lavori, il mio modo di vedere la let­te­ra­tura si è diver­si­fi­cato, se non altro pro­prio gra­zie all’influenza che, soprat­tutto, hanno eser­ci­tato le cose che ho scritto. Ci sono campi, come il tea­tro, che un tempo mi sem­bra­vano inac­ces­si­bili. Non avrei mai pen­sato di scri­vere un pezzo di tea­tro, e invece l’ho scritto. Ho scritto dei saggi, anche se non mi con­si­de­ravo un sag­gi­sta. E, infine, non avrei mai pen­sato di scri­vere un testo, che l’attualità mi ha spinto invece a scri­vere, come Cette France qu’on oublie d’aimer.

M. L. Clé­ment. – Ci può rac­con­tare come è diven­tato scrittore?

A. Makine. – Biso­gne­rebbe scri­vere un libro intero per rac­con­tare la nascita di una voca­zione. Rian­diamo per un istante al signi­fi­cato eti­mo­lo­gico di que­sta parola, la vox, la voce che ti parla. Non nel senso che si sen­tano delle voci e che ne si venga illu­mi­nati. La chia­mata viene lan­ciato da realtà incon­fu­ta­bili, a cui si pensa senza pen­sarci, pur pen­san­doci: l’eroe, la morte, la bre­vità della vita, la fuga­cità del nostro essere, la sof­fe­renza, la morte dei nostri cari, il Male, il Bene, insomma, tutti i grandi inter­ro­ga­tivi che si pone l’umanità e che esi­gono una rispo­sta da parte nostra. E biso­gne­rebbe tro­vare un modo appro­priato per rac­con­tare tutto que­sto in modo non sco­la­stico, né oscuro, né alam­bic­cato. Tro­vare un lin­guag­gio sem­plice per dire la morte, l’eroe, la sof­fe­renza, il Bene, il Male ecc. E così, senza star lì ad archi­tet­tare la cosa, si ritorna a que­sto, ai grandi sistemi filo­so­fici, per par­lare in modo esatto.

M. L. Clé­ment. – Non ha vera­mente rispo­sto alla mia domanda. Come sono comin­ciate le cose? Com’è che è diven­tato scrittore?

A. Makine. – Sì ma, vede, io sono stato tal­mente tante cose. Lei avrebbe potuto chie­dermi, com’è stato com’è che a dodici anni è diven­tato un fac­chino in un mer­cato kol­ko­ziano, o un pastore e poi un sol­dato e così via. A un certo punto ho pen­sato di voler diven­tare uno spor­tivo di pro­fes­sione. Siamo tutte que­ste facce. Nabo­kov era un pro­fes­sore uni­ver­si­ta­rio. Que­sta era la sostanza del suo essere, della sua voca­zione? Forse un modo per sbar­care il luna­rio, come sono stati per me i mille mestieri che ho fatto.

M. L. Clé­ment. – Glielo chiedo per­ché, prima, lei è stato uno stu­dente uni­ver­si­ta­rio e ha scritto una tesi di dot­to­rato e degli arti­coli di cri­tica let­te­ra­ria. Forse avrei dovuto porre la domanda in modo diverso e chie­derle come lei è diven­tato un romanziere.

A. Makine. – L’analisi let­te­ra­ria è un aspetto sus­si­dia­rio rispetto alla crea­zione let­te­ra­ria. Imma­gi­niamo un cam­pione di For­mula 1 che, per esem­pio, s’interessi anche di mec­ca­nica. Que­sto gli dà qual­cosa. Cono­sce meglio il motore, come fun­ziona, i suoi limiti, ma non rim­piazza il suo talento di pilota. Un giorno, forse, quando avrà perso il suo ingag­gio, potrà sal­tare dall’altra parte e diven­tare un mec­ca­nico. Suc­cede lo stesso con la voca­zione letteraria.

M. L. Clé­ment. – Come scrive un romanzo, che è poi quello che lei fa, soprat­tutto. Ecco, vor­rei sapere come nasce un romanzo di Andreï Makine. Parte per prima cosa dall’idea di un per­so­nag­gio? O c’è una sto­ria che le parla, al principio… ?

Intervista realizzata da Marie Lucie Clément per Le Nouvel Observateur.

28/12/11

25 anni dalla morte di Andrej Tarkovskij - "Avvenire" pubblica intervista inedita.



Ricorrono domani i 25 anni dalla scomparsa, che avvenne a Parigi, di Andrej Tarkovskij, uno dei più grandi registi della storia del cinema, e grande anima.   In questa occasione il quotidiano Avvenire pubblica oggi una intervista inedita che ripercorre il pensiero e l'opera di questo grande artista. 

(mi permetto di segnalare soltanto una imprecisione - o quella che si percepisce come tale - nella introduzione all'intervista laddove si afferma che in quella conferenza stampa del 1984 Tarkovskij avrebbe preso la decisione di "tagliare il cordone ombelicale con l'adorata madre Russia", ecc...
Per la precisione, Tarkovskij quel cordone l'aveva tagliato già molto tempo prima, già dal 1979 quando aveva raggiunto Roma per contattare i dirigenti RAI per la realizzazione del progettato film italo-russo scritto con Tonino Guerra, e poi, dopo un breve intermezzo moscovita, con il definitivo distacco dell’aprile 1980, quando Tarkovskij sfruttò l’invito del premio David di Donatello - Lo Specchio aveva ottenuto il massimo riconoscimento dalla giuria - per raggiungere nuovamente l’Italia.  Da allora, non fece mai più ritorno in Russia, ma soprattutto fu impedito dalle autorità sovietiche a lungo alla moglie Larisa prima, e al figlio piccolo Andrej poi, di raggiungerlo liberamente. Una separazione lunga e dolorosa che minò il cuore (e il corpo) del grande regista.")
Fabrizio Falconi

Andrej Tarkovskij: "Il mio stalker é Don Chisciotte." 

Faceva molto caldo, quel giorno del luglio 1984, a Milano. Ancor più nel salone del Circolo della Stampa, stipato di giornalisti, fotogra­fi, cameramen, intellettuali disorgani­ci. L’afa era insopportabile, ma un bri­vido corse nella schiena di tutti quan­do apparve quell’omino nervoso, dal­la fisionomia vagamente tartara; occhi vivacissimi, baffi ispidi, una foresta di rughe sul volto. Andrej Tarkovskij quel giorno era teso come una corda di vio­lino. Pensavo al suo primo cortome­traggio, noto solo ai cinefili più acca­niti: Il rullo compressore e il violino . Se ora il violino era lui, il rullo compres­sore era il regime sovietico che voleva spezzarne le sue corde, impedirgli di suonare. Tanto che quel giorno di lu­glio il geniale regista di Andrej Rubliov e di Solaris, de Lo specchio e di Nostal­ghia, aveva deciso di annunciare che avrebbe tagliato il cordone ombelica­le con l’adorata Madre Russia, avreb­be scelto l’Occidente. «Ragioni ve ne sono tante», spiegò alla stampa di tut­to il mondo che gli chiedeva le ragioni del suo 'basta' urlato in faccia al Crem­lino. «Ma me ne vado soprattutto per­ché le autorità del mio paese ormai mi considerano una non-persona: per il Cremlino non esisto». E a chi insiste­va per sapere a quale paese avrebbe chiesto asilo politico, ribatteva con sar­casmo: «Domanda strana: è come se vedendomi distrutto per la morte di u­na persona cara mi chiedessero dove voglio seppellirla. Che importanza ha?» Il dolore dell’esilio era davvero troppo. Chissà se fu quello a fare ammalare Tarkovskij: due anni dopo, il regista si spegneva a Parigi, a soli 54 anni. Era il 29 dicembre 1986, esattamente 25 an­ni fa. In Svezia, aveva ancora fatto in tempo a girare il profetico Il sacrificio .
Un film che, quel caldo giorno di lu­glio, era già ben chiaro nella sua testa. Come ci aveva spiegato, appena poche ore dopo la storica conferenza stampa, in un lungo colloquio a metà fra la con­fessione e il testamento. Parole, le sue, che un quarto di secolo dopo stupi­scono per la loro attualità. Le propo­niamo qui per la prima volta al lettore italiano. Roberto Copello