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04/02/16

"The Revenant" di Alejandro González Iñárritu (recensione).



Ambientato in North Dakota nel 1823, The Revenant (in Italia è stato aggiunta la traduzione 'Il redivivo') è destinato a fare incetta di premi Oscar.

Alejandro González Iñárritu, dopo il trionfo dell'anno scorso con Birdman, ha trovato nel copione di Michael Punke, un soggetto primario, di quelli che piacciono tanto a Hollywood: un uomo lasciato da solo a combattere contro tutto e contro tutti, contro le contrarietà terribili della natura e contro la malvagità degli uomini. 

Leo di Caprio interpreta il trapper Hugh Glass a cui ne succedono di tutti i colori. Partito insieme ad una compagnia di uomini per una raccolta di pelli preziose nei gelidi territori del Nord, sopravvive prima  ad un attacco degli indiani Arikara, che sterminano gran parte dei membri della spedizione, e poi all'assalto di un enorme Grizzly che durante la fuga lo attacca e lo riduce in fin di vita.   Soccorso sul momento dai suoi e caricato su una barella, ben presto si rende necessario abbandonanre l'infermo al suo destino. 

Ma uno degli uomini lasciato ad accurdirlo fino alla fine è il terribile Fitzgerald, che non solo vorrebbe lasciarlo morire, seppellendolo vivo, ma uccide l'unico figlio adolescente, mezzosangue, di Glass, sotto i suoi occhi.

Lasciato da solo a morire, l'uomo riesce a sopravvivere.  Si automedica, si trascina prima sulle mani, poi torna a camminare utilizzando un pesante ramo come bastone, mentre l'inverno scatena tutta la sua furia. 

Il resto del film è il lento ritorno a casa di Glass, dopo l'incontro con un indiano solitario che gli salva la vita e quello con una guarnigione francese a cui riesce a rubare un cavallo. 

Mosso soltanto dal desiderio di vendicare il figlio, Glass fa ritorno al forte dove sono i suoi, solo per mettersi nuovamente in viaggio alla ricerca del criminale, che ha ucciso suo figlio. 

Il film è sontuosamente realizzato, ma è deludente. 

Sulla fattispecie della storia dell'uomo solo contro tutto e tutti, Inarritu non riesce mai a far decollare il film, e nessuna evoluzione emotiva dei personaggi si concretizza in quasi tre ore di racconto. Sembra più che altro un esercizio di stile messo a disposizione per Di Caprio, che occupa militarmente ogni inquadratura in primi e primissimi piani, per consentirgli di vincere finalmente l'agognata statuina. 

Tralasciando l'assoluta inverosimiglianza dei dettagli della storia raccontata, vengono in mente esempi recenti come Cast away di Robert Zemeckis (2000), dall'esito favolistico-narrativo ben più riuscito, o il simile Corvo rosso non avrai il mio scalpo (Jeremiah Johnson) di Sidney Pollack (1972) che aveva ben altro respiro epico. 

Insomma, Inarritu annacqua un po' il suo stile - che resta comunque vigoroso, potente - con ampie concessioni alla sinfonia degli elementi, strizzando l'occhio a Terrence Malick, ma senza la stessa poesia. 

E in effetti sembra proprio l'elemento poetico, quello più assente in questo film, troppo uguale a se stesso dalla prima all'ultima inquadratura. 

Fabrizio Falconi 





27/03/15

Di cosa parliamo quando parliamo d'amore ? Curiosità e disponibilità interiore.





Di cosa parliamo, quando parliamo d'amore ? si chiedeva Raymond Carver in una memorabile serie di racconti (unificati sotto questo titolo) che hanno ispirato Robert Altman per America Oggi e di recente Alejandro Inarritu per il pluripremiato Birdman

Tutti sanno che parlare della sostanza dell'amore è come parlare del sesso degli angeli. Un esercizio tutto sommato inutile, perché tutti sanno di cosa si parla quando si parla d'amore e allo stesso tempo nessuno è in grado di dare una definizione della sostanza di questo sentimento umano. 

Ci sono molte persone che vivono ignorando il problema, altre che si struggono una intera vita nel tentativo di afferrare il senso dell'amore che provano, o che inseguono. 

Persone che vivono come se l'amore non esistesse, altre che fanno dell'amore il senso dell'orientamento di tutta la loro vita, per le quali l'amore - amare ed essere amati - viene prima di ogni altra cosa. 

Non so dove ho letto, recentemente, che l'amare (quindi non l'amore) ha a che fare con la curiosità. Credo che sia profondamente vero. La mia esperienza di vita mi porta a constatare che molto spesso persone poco curiose sono poco inclini ad amare, e non sanno fondamentalmente farlo. 

La curiosità è ciò che spinge fuori dal nostro territorio, dai bastioni consolidati del nostro ego, la molla in definitiva che ci porta verso qualcun'altro. 

Al contrario, la disponibilità interiore è il requisito necessario per essere amati.  Si può anche essere curiosi, e capaci di amare, ma se non si è disponibili interiormente (se non si è disposti a cedere porzioni di territorio interiore) difficilmente si riuscirà ad accettare di essere amati, una operazione solo apparentemente facile e invece altrettanto complessa come quella dell'amare.


Fabrizio Falconi (C) riproduzione riservata 2015.

25/02/15

Quel che resta del giorno.




Intervistato subito dopo aver ricevuto il Premio Oscar 2015 per la regia per il film Birdman, il regista Alejandro Gonzalez Inarritu alla domanda:  "Cosa rappresenta questo Oscar nella sua carriera? " ha risposto: Io non ho una carriera, ho una vita. E cerco di viverla pienamente, felicemente, intensamente.

E' una risposta esemplare, su cui bisognerebbe meditare. 

Uno dei più grandi titoli di romanzi degli ultimi anni è Quel che resta del giorno (è il noto libro dello scrittore giapponese naturalizzato inglese Kazuo Ishiguro, adattato a sua volta a film da James Ivory nel 1993).

Già: cosa resta del giorno, al termine delle nostre infaticabili giornate ?

La vita piena, felice o intensa, come quella che descrive Inarritu come orizzonte, non è data, non è il prodotto delle cose che si aggiungono alla propria vita (la carriera, in questo caso, i riconoscimenti, i premi, le incombenze, le attività, gli impegni). 

Non funziona così, anche se quasi sempre per combattere l'horror vacui ci illudiamo che sia così. 

E' in quel che resta del giorno (dopo tutto quello che nel giorno facciamo, occupiamo quasi militarmente) che è il senso. 

In quel vuoto che lasciamo, in quello spazio che facciamo, scorre la nostra vita interiore e ogni cosa importante. 

Una bottiglia piena non può contenere nulla. 

Solo un recipiente vuoto può ospitare.. quel che resta del giorno. 


Fabrizio Falconi -  (C) riproduzione riservata - 2015.