Visualizzazione post con etichetta il senso di una fine. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta il senso di una fine. Mostra tutti i post

25/08/23

"Il senso di una fine", il meraviglioso romanzo di Julian Barnes diventa un film, con Charlotte Rampling - su Amazon Prime Video


E' sempre molto difficile portare sullo schermo un romanzo importante. Ancora di più se si tratta di un romanzo "perfetto", uno dei migliori scritti nell'ultimo ventennio: "Il senso di una fine", di Julian Barnes (Einaudi, 2011), vincitore del Man Booker Prize 2011.

Come si fa a trasferire sullo schermo la magia della prosa di Barnes, che in sole 160 pagine costruisce una tragedia in due atti (o parti) sul mistero degli affetti umani, con uno straordinario colpo di scena che si rivela solo nelle ultime 3 pagine?
In Inghilterra ci ha provato la rete nazionale (BBC), che a differenza di quel che accade da noi, non manda in onda solo quiz dementi e show di imitatori, ma propone e produce anche alta qualità cinematografica, seriale, documentaristica.
Il film è uscito nel 2017, anche se in Italia nessuno lo ha visto (naturalmente i titolisti italiani hanno pensato bene di stravolgere il titolo originario, sia del romanzo che del film - che è "The Sense of an Ending" , letterariamente "Il senso di un finire", o "Il senso di una fine", come è stato tradotto da Einaudi - in "L'altra metà della storia").
Il cast è di primo livello, con Charlotte Rampling nei panni della misteriosa Veronica (da anziana) e Jim Broadbent in quelli di Tony Webster, che con Veronica ha avuto una incompiuta storia d'amore, ai tempi del college. Nel cast anche Michelle Dockery (la Lady Marian di Downton Abbey) e Joe Alwyn (visto recentemente in Conversazione tra amici, la serie tratta dal romanzo di Sally Rooney), nei panni di Adrian, l'amico di college di Tony, misteriosamente suicidatosi da giovane.
Per misurarsi con un romanzo così intenso e denso, il film non se la cava male (la regia è dell'indiano Ritesh Batra), ma lasciano a desiderare i tempi morti, i dialoghi irrisolti, il finale da "happy ending" che non è affatto quello del romanzo.
La Rampling praticamente appare in tutto in 4 scene, anche se bastano per manifestare il suo inquietante talento; le musiche di Max Richter sono molto belle; la Londra del film è come sempre, piovosa e malinconica (come si addice al mood della storia).
Barnes non è intervenuto nella sceneggiatura, che è del solo Nick Payne, il quale ha dilatato (troppo) l'attesa che si respira nel romanzo, stemperandone anche (purtroppo) l'inquietudine.
Complessivamente, tenendo conto delle suddette difficoltà, un film che supera la prova. Il romanzo, però, è - come sempre - un'altra cosa.

05/09/14

'Livelli di vita' di Julian Barnes - (Recensione).




Dopo Il senso di una fine, molti lettori italiani si erano avvicinati al libro seguente di Julian Barnes, pubblicato nel 2013. 

I pareri che ho sentito e ho letto erano quasi tutti nella stessa direzione: trattandosi di un libro originale, strutturato in tre parti molto distinte - la prima dedicata ai pionieri del volo aerostatico del secolo scorso, la seconda all'amore (non duraturo) tra l'avventuriero inglese Fred Burnaby e l'attrice Sarah Bernhardt, e l'ultima che invece si concentra sul lutto dell'autore (Julian Barnes ha perso la moglie Pat Kavanagh nel 2008) -  ho constatato che quasi tutti avevano liquidato come leggere e tutto sommato irrilevanti le prime due parti del libro, elogiando invece la terza.  

Mi sento, come spesso accade, fuori dal coro. 

La prima parte - quella nella quella si descrive l'utopia umana dell'elevazione, della dimensione verticale, per noi terrestri, condannati al piano orizzontale - e la seconda, quella del bizzarro e sotto molti aspetti struggente amore del buffo colonnello Burnaby per la divina Bernhardt, sono le due parti che mi sono piaciute di più.

La terza, quella dove si descrive il dolore straziante per il lutto della moglie (l'agente Pat Kavanagh, conosciuta nel 1978 e diventata la moglie di Barnes per trent'anni, dal 1979 alla morte nel 2008), non mi ha convinto. 

Barnes - come umanamente si può condannarlo per questo ? - non riesce a trasformare in materia letteraria il dolore devastante della perdita di una persona con cui si è condivisa buona parte della vita. 
Il suo grido di dolore rimane sempre auto-riferito, l'elaborazione del lutto è assente: si resta infatti prigionieri delle due fasi del lutto, quella della non accettazione e quella della ribellione. 

Barnes descrive con esattezza ciò che prova ogni animo umano nei primi tempi di una perdita.  Il sentimento di invidia cieca per chi non è toccato, per chi è immune, l'indifferenza o il silenzio o l'imbarazzo delle persone amiche, l'inconsolabilità delle formule di rito, i ricordi che spariscono e riappaiono quando sono più dolorosi, la sensazione di vuoto, gli istinti suicidi.

Ma, un altro libro di un altro grande scrittore inglese, C.S.Lewis - Diario di un dolore, un libretto di poche decine di pagine, pubblicato in Italia da Adelphi - è molto più intensamente lucido (e anche più spietato) nell'attraversamento del lutto per la persona amata.

Barnes, in questa parte, cede all'autoindulgenza, al vittimismo, all'ebbrezza della dispersione nichilista, affermativa e totalitaria.   Non c'è mai nessuno sforzo di guardare oltre,  di capire cosa lascia veramente un lutto, dopo il trauma spaventoso dell'inizio, cosa davvero interroga in noi anche se Barnes racconta non solo i primi mesi ma i primi quattro anni senza Pat. 

L'unica sentenza di Barnes è che l'universo fa il suo mestiere. Molto in linea con il pensiero contemporaneo, ma poco poetico. Posto che è soltanto la poesia che riesce - di solito - a farci fare un salto in avanti, di consapevolezza.

L'aridità di questa terza parte è invece rovesciata dalle due - brevi - parti di Livelli di vita, che sono davvero poetiche. 

Qui, anche se Barnes alla fine tenta un volo carpiato che metta insieme le tre cose, è la poesia a superare l'insormontabile. 

Le vite ridicole, coraggiose, scialate e indomite di questi uomini e di queste donne di fine '800, raccontano di una terra - gli uomini la chiamano Utopia - dove i sogni e le pretese umane sono quel che sono: misteri indecifrabili. Ed è solo lo staccarsi da terra a conferire uno sguardo e un senso - Wittgenstein diceva che il senso, se c'è, si trova solo fuori del mondo - alle banali peripezie di esseri bipedi dotati di passione e di vita. 

In queste due parti si sogna. Si sogna a bordo dei fatiscenti aerostati, si sogna nel doloroso rifiuto di Sarah, essere femminile imprendibile e nelle notti insonni del povero Burnaby che s'era illuso, si sogna la vita per quel che è, per quel che doveva essere e per quel che potrebbe e forse sarà, in una dimensione che non è la nostra.

Fabrizio Falconi. 



  Nella foto Pat Kavanagh e Julian Barnes nel 1978, l'anno prima di sposarsi.

05/07/12

Julian Barnes: "Il senso di una fine" - Recensione.





Ho letto il miglior romanzo degli ultimi cinque anni. 

E' Il senso di una fine di Julian Barnes, vincitore del Man Booker Prize 2012, appena pubblicato in Italia da Einaudi.

Non capita spesso di scoprire un così raro gioiello di sintesi e perfezione non solo formale. Il senso di una fine è uno di quei romanzi che provoca nel lettore una sorta di spiacevole languore mentre lo si sfoglia: dispiace veder passare le pagine, sapere che ci si sta avvicinando alla fine.

La fine è poi la vera protagonista di questo libro.  La fine nel senso di morte e di distacco. La fine di ogni esistenza che costringe inevitabilmente a fare ordine negli accadimenti della nostra vita a trovare un posto alle cose più ingombranti e anche a quelle apparentemente meno importanti. Ciascun frammento contribuisce a chiederci e a restituirci - se soltanto sappiamo interrogarci nel modo giusto e a comprendere (altro tema fondamentale del libro) - il senso dell'essere qui. 

Barnes costruisce una storia molto semplice.  E il romanzo è quasi brutalmente spezzato in due. 

E' nella seconda parte che Tony Webster , un uomo musilianamente senza qualità,  deve affrontare l'incombenza di una lettera con cui un avvocato gli annuncia il lascito di cinquecento sterline e di un diario proveniente dal passato. 

Tony scoprire perché è stato scelto proprio lui, e quale segreto rabbiosamente custodito quel diario potrebbe rivelare. 

La chiave per la risoluzione del mistero è nella prima parte del libro, nella giovinezza di Tony, nella sua educazione sentimentale e sessuale - nel pieno della liberazione degli anni '60 (che c'era però "non per tutti e non dappertutto" come non si stanca di sottolineare il protagonista), nelle vicende che lo hanno accostato al  geniale amico dei tempi del liceo, Adrian Finn: come ha potuto la ragazza di allora, Veronica Ford, preferirgli l'amico raffinato e brillante, Adrian? Ci sono solo Camus e Wittgenstein dietro l'estrema decisione di Adrian? Da che cosa ha voluto metterlo in guardia tanti anni prima la madre della ragazza? Perché a distanza di quarant'anni Veronica ritorna nella sua vita con un bagaglio di silenzi e il rifiuto di dargli ciò che è suo? 

Gli indizi conducono, dopo lunghe e ostinate reticenze a un prodigioso colpo di scena finale - sviluppato in appena mezza pagina - che lascia il lettore senza fiato, e con la necessità immediata di ri-leggere, alla luce di quanto ha scoperto insieme al protagonista, la storia precedente, reinterpretandone il senso. 

Il senso della fine è un romanzo che de-scrive il tempo, l'impossibilità di definirlo - nella nostra esistenza - come qualcosa di concluso, l'obbligo di considerarlo come puro elemento dinamico che continuamente ci allontana e ci avvicina a quella che noi abbiamo bisogno di considerare come verità

Barnes è riuscito nella impresa di costruire in sole 140 pagine una storia che svuota ogni pretesa di riconoscimento e di identità su cui si basa ogni fittizia costruzione della personalità umana.  Il dilemma interiore di Tony (ci) insegna che la consapevolezza di ciascuno cresce soltanto nell'attraversamento delle proprie zone oscure dimenticate o rimosse e nella attenzione - vera e concreta - alla vita degli altri nei quali, attraverso i quali - unicamente - passa la nostra identità. 

Fabrizio Falconi -2012