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05/10/22

Libri: Arriva in Italia "Hitler, la manipolazione, il consenso, il potere"



"Hitler aveva una capacita' quasi medianica di comprendere le piu' profonde aspirazioni del popolo tedesco". A quasi ottant'anni dalla sua morte nel bunker della Cancelleria a Berlino ha ancora senso interrogarci sulla sua eredita' e sulla modernita' della sua leadership? 

La risposta e': ora piu' che mai

Basta leggere il volume Il leader, su Adolf Hitler: la manipolazione, il consenso, il potere scritto dallo storico Davide Jabes. 

Un libro scorrevole, divulgativo, con alla base la volonta' di non volere essere tanto una nuova ricerca sull'attivita' del dittatore tedesco, quanto una riflessione sulla sua 'presenza'. 

Sulla insondabile ma ricorrente seduzione esercitata dal despota sulle masse che lo acclamano.

Una necessaria lettura da fare superando "il naturale disgusto" verso la persona e la ricerca del nemico da annientare, a partire dagli ebrei, suggerisce l'autore, per iniziare "seriamente a preoccuparci di come avrebbe impostato l'esistenza dei suoi 'amici', ovvero di quel mondo che lo idolatrava o quanto meno gli ubbidiva". 

"In Italia, non molti anni fa, durante un quiz televisivo nessuno dei concorrenti seppe rispondere a una semplice domanda: quando era andato al potere Adolf Hitler", ricorda Jabes nella prefazione al libro. 

Il Fuhrer "diede risposta a masse di diseredati, di persone schiacciate da un presente terribile promettendo loro un futuro radioso, il tutto risultando credibile e onesto (questa forse la sua performance 'artistica' migliore). Perche' non considerare la sua pericolosa eredita' non degna della massima attenzione, quando oggi una moltitudine assai maggiore aspetta di essere sollevata dallo stato di costante miseria economica e sociale in cui versa?". 

Il volume analizza la giovinezza di Hitler, il condizionamento disturbante avuto dalla sua famiglia di origine nonche' la giovinezza trascorsa a Vienna, dove sviluppa quel rifiuto della societa' multiculturale, multilinguistica per abbracciare a Monaco sintesi piu' semplificatrici e rispondenti al suo bisogno di cercare il nemico a tutti i costi. 

Le trova nella destra bavarese e nell'antisemitismo che l'alimenta, nella sua disordinata e caotica costruzione di un modello illustrato con enfasi in un crescendo retorico ma quasi musicale

Per questo Jabes sottolinea l'importanza della passione di Hitler per Wagner e le sue frequentazioni dei teatri. Sono descrizioni e ricostruzioni molto suggestive, capaci di trasportarci nel vissuto di un uomo di cui vorremmo non parlare piu', mentre l'autore con professionale distacco ci mostra uno per uno quali sono i possibili agganci con l'attualita'. Sta a noi scegliere di interrogarci sul tema o chiudere il libro e ancora una volta far finta di niente, sperando che tutto si risolva da se'.

DAVIDE JABES
IL LEADER. ADOLF HITLER: LA MANIPOLAZIONE, IL CONSENSO, IL POTERE 
Solferino
pagine 251
18 euro 

21/01/22

Quando Gregory Peck interpretò (con sue grandi perplessità) il ruolo del criminale nazista Josef Mengele, "l'angelo della morte"

 

Nel 1976 uscì un romanzo, "I ragazzi venuti dal Brasile", dello scrittore americano (ebreo) Ira Levin che ebbe un successo strepitoso, raccontando l'immaginaria seconda vita del criminale nazista Josef Mengele, autore di atroci pratiche nei lager nazisti e sfuggito alla cattura dopo la fine della seconda guerra mondiale. Levin, appunto, lo immagina fuggito in Brasile sotto falsa identità e dedito, nella sua fazenda immersa nella foresta, alla realizzazione di un folle esperimento per creare dei cloni attraverso il sangue e i tessuti di Hitler, prelevati dallo stesso Mengele. 

Nell'agosto 1976, visto il grande successo del romanzo, fu annunciato che il gruppo di produttori formato da Robert Fryer, Martin Richards, Mary Lee Johnson e James Cresson, aveva opzionato i diritti cinematografici. Il film, inizialmente offerto al regista Robert Mulligan fu poi assegnato a Franklin Schaffner, incaricato di dirigerlo. Nel maggio 1977 fu annunciata la notizia che il grande Laurence Olivier avrebbe recitato nel film.

A Olivier però, già malato (stava accettando tutti i lavori cinematografici ben retribuiti che poteva, ottenere per provvedere a sua moglie e ai suoi figli dopo la sua morte) che aveva appena interpretato la parte di un sadico medico nazista nel bellissimo The Marathon Man (Il maratoneta) di John Schlesinger (1976), non andava a genio l'idea di calarsi nuovamente nella parte di un criminale nazista come Mengele.

A questo punto, i produttori chiesero a Gregory Peck, che si era unito al film a luglio, di interpretarlo. Peck, che al cinema aveva quasi sempre interpretato ruoli virtuosi, era assai riluttante per questioni personali, ma alla fine accettò di interpretare Mengele solo perché in questo modo avrebbe avuto l'opportunità di lavorare con Sir Laurence Olivier, che stimava da sempre. 

Anche Lilli Palmer, nel cast, accettò un piccolo ruolo solo per lavorare con Olivier.

Olivier ebbe così il ruolo dell'altro protagonista del film, l'immaginario Ezra Lieberman, che si ispirava direttamente al "cacciatore di nazisti" SimonWiesenthal  

Il film fu girato quasi interamente in Portogallo.

Ne scaturì un film di grande qualità, soprattutto per la stellare levatura dei suoi interpreti, con diverse scene che vedono il confronto tra Peck e Olivier, tra cui quella del violento litigio tra Lieberman e Mengele che, raccontano le cronache, richiese circa tre o quattro giorni di riprese a causa della salute cagionevole di Olivier in quel momento. 

Peck, più tardi, ricordò che lui e Olivier "erano sdraiati sul pavimento" ridendo dell'assurdità di dover filmare una scena di combattimento del genere alla loro età avanzata. Non solo due grandi attori, ma due vere pietre miliari nella storia del cinema. 

Il grande Laurence Olivier nei panni di Ezra Lieberman


01/03/17

La storia dei "Monument Man" italiani che salvarono i capolavori. Da domani il libro di Alessandro Marzo Magno.



L’Italia è un enorme museo a cielo aperto: nelle sue città, fra le sue colline, lungo le sue spettacolari coste sono nati alcuni dei più grandi capolavori artistici della nostra civiltà.

Ma sono tante le opere create in Italia che hanno vissuto destini travagliati: rubate in guerra, a volte restituite a volte no, spesso perdute. Non c'è da stupirsi quindi che i più temuti personaggi della storia, da Napoleone fino a Hitler, abbiano preso di mira lo stivale d’Europa e i suoi tesori. Ma in loro difesa si sono battuti eroi, spesso sconosciuti, che hanno rischiato la vita per riportare in patria parte del bottino, e di cui oggi Alessandro Marzo Magno ricostruisce le gesta: Antonio Canova in missione a Parigi per conto del papa, l’ambiguo Rodolfo Siviero, agente segreto dall’oscuro passato, che ha dedicato tutta la vita al recupero delle opera trafugate dai nazisti.

E poi ancora le Monuments Women italiane: Palma Bucarelli a Roma, Noemi Gabrielli a Torino e Genova, Fernanda Wittgens a Milano. 

Quasi come in un thriller, grazie alla capacità dell’autore di farci leggere il passato come una straordinaria avventura del presente, rivivono le storie coraggiose di quelle donne e di quegli uomini che hanno recuperato e messo in salvo la bellezza del nostro paese.



Alessandro Marzo Magno, veneziano, laureato in storia, vive e lavora tra Milano e Trieste. È stato per quasi dieci anni caposervizio esteri del settimanale «Diario». Ha scritto, tra l’altro, Il leone di Lissa. Viaggio in Dalmazia (2003), La carrozza di Venezia. Storia della gondola (2008), Piave. Cronache di un fiume sacro (2010), Atene 1687. Venezia, i turchi e la distruzione del Partenone (2011). Con Garzanti ha pubblicato L’alba dei libri(sette edizioni, tradotto in inglese, giapponese, coreano e spagnolo), L’invenzione dei soldi(sei edizioni, tradotto in coreano e in turco), Il genio del gusto (seconda edizione 2015, tradotto in coreano) e Con stile (2016). 



Storie di uomini e donne
che hanno restituito all’Italia i suoi tesori trafugati 


 
Dal 2 marzo in tutte le librerie 

MISSIONE GRANDE BELLEZZA
Gli eroi e le eroine che salvarono i capolavori italiani saccheggiati da Napoleone e da Hitler
di 
ALESSANDRO MARZO MAGNO

Saggi Garzanti - pp. 250 - € 20,00 

09/08/16

Hitler a Roma: un docufilm presentato a Venezia incentrato sulla figura di Bianchi Bandinelli.

nella foto Mussolini, Hitler e Ranuccio Bianchi Bandinelli in visita al Museo Nazionale Romano


Un docu-film sullo storico dell'arte Ranuccio Bianchi Bandinelli, costretto a far da guida a Hitler e Mussolini nel primo viaggio in Italia del Fuhrer, entra a far parte nel programma della 73/a Mostra del Cinema diVenezia, il programma dal 31 agosto al 10 settembre. 

La Biennaledi Venezia presenta, in collaborazione con le Giornate degli Autori - Venice Days, il film documentario di Enrico Caria 'L'uomo che non cambio' la storia', liberamente ispirato al diario di Bandinelli "Il viaggio del Fuhrer in Italia", e realizzato grazie alle immagini d'archivio dell'Istituto Luce - Cinecitta'. 

 "Bianchi Bandinelli e' figura notissima fra gli storici dell'arte e gli archeologi italiani - spiega il direttore della Mostra, Alberto Barbera - Meno noto il fatto che, costretto a far da guida a Hitler e Mussolini in occasione del primo viaggio in Italia del Fuhrer, si fosse interrogato sull'opportunita' di organizzare un attentato per togliere di mezzo gli ingombranti dittatori. Caria ricostruisce con ironia e precisione documentale l'incredibile vicenda, che suscita ancora oggi interrogativi di grande attualita'". 

 Enrico Caria e' un regista, scrittore e giornalista italiano. E' anche vignettista e giornalista per varie testate; e' sceneggiatore per la radio, la televisione e il cinema. 

Bianchi Bandinelli (1900-1975) ha notevolmente contribuito al rinnovamento degli studi di archeologia e arte antica in Italia, in contatto con la cultura europea del suo tempo

Nel 1938 fu incaricato dal Ministero della cultura popolare di svolgere la funzione di guida in occasione della visita a Roma e Firenze di Hitler. 

Accetto' in seguito di tenere conferenze in Germania e di svolgere un'analoga funzione per la visita a Roma di Hermann Goering. 

L'anno successivo rifiuto' la direzione della Scuola Archeologia italiana di Atene, dalla quale era stato appena rimosso il direttore ebreo Alessandro Della Seta, e nel 1942 rifiuto' un incarico del Ministero per l'insegnamento a Berlino. Manifesto' quindi una decisa opposizione al fascismo, con la partecipazione al movimento clandestino liberal-socialista. Nel dopoguerra ha insegnato all'universita' di Roma fino al 1964. 

26/07/14

Goebbels, Goering e .. Jung.


Il celebre aforisma: Quando sento qualcuno parlare di cultura, metto mano alla pistola (terribilmente attuale anche nel mondo analfabetizzato di oggi) è da sempre erroneamente attribuito (e anche oggi, nel mare magnum inconsapevole della rete) a Goebbels (il quale, però, come riferiscono le cronache storiche era fin troppo sofisticato per pensare e pronunciare una cosa simile). 

La frase, come si sa, fu invece pronunciata da Hermann Goering (un gerarca molto più rozzo e concreto del cerchio magico che contornò Adolf Hitler durante gli undici anni della sua dittatura), e originariamente recitava: Quando sento qualcuno parlare di cultura, la mano mi corre al revolver

Pare in effetti che Göring amasse ripetere questa frase, la quale tuttavia origina da una battuta di un dramma molto in voga in quegli anni e ispirato alla figura di Albert Leo Schlageter (una specie di "martire nazista"), nel cui testo un personaggio si rivolge all'omonimo protagonista esclamando Quando sento parlare di cultura [...] tolgo la sicura alla mia Browning! ( in lingua originale: Wenn ich Kultur Höre ... entsichere ich meinen Browning (Atto 1, scena 1).

Tornando a Goebbels, quella in testa è - a quanto mi risulta l'unica foto esistente che ritrae il Ministro della Propaganda nazista mentre sorride.

Fa parte di una celebre serie realizzata dal fotografo tedesco, naturalizzato americano (ebreo) Alfred Eisenstaedt e pubblicata da Life che ritrae Joseph Goebbels durante la sua partecipazione al Convegno della Società delle Nazioni a Ginevra nel settembre del 1933, e alla quale appartiene anche l'altra celebre foto recentemente colorizzata, nella quale Goebbels guarda minaccioso nell'obiettivo.  





Questa foto è giustamente famosa nel mondo e citata per la sua capacità di cogliere l'attimo dello scatto che rivela la ferocia del Ministro della Propaganda nascosta sotto l'apparenza delle buone maniere, allorquando Goebbels, poco prima dello scatto (o nel momento stesso) viene informato che colui che lo sta fotografando è un ebreo.   

E sempre a proposito di Goebbels, esiste un racconto (non confermato), proprio di questo periodo,  che viene riferito anche dallo studioso inglese Arthur I. Miller, nel suo libro L'equazione dell'Anima,  (Rizzoli, 2009), un saggio costruito intorno alle figure, alla corrispondenza e ai rapporti tra il fisico Wolfgang Pauli e Carl Gustav Jung.

Secondo questo racconto Joseph Goebbels, nel 1934, convocò  C.G.Jung (la vicenda non trovò mai una conferma ufficiale, ma fu riferita da uno scrittore amico di un paziente di lungo corso di Jung), a Berlino perché assistesse ad alcune cerimonie in cui erano presenti Hitler, il comandante dell'aviazione tedesca Hermann Goering e il capo delle temute SS Heinrich Himmler. Il compito affidato a Jung (all'epoca residente in Svizzera a Zurigo e già ritenuto un nume tutelare della psichiatria) era di stabilire se quegli uomini fossero pazzi e riferire le sue impressioni su quel manipolo di personaggi perché in tal caso "con una operazione segreta, sarebbero stati uccisi. e organizzato un colpo di Stato."  

Stando al racconto, Jung andò e ci mise molto poco per convincersi che in effetti erano tutti pazzi. Ma, temendo per la propria vita,  "si guardò bene dal riferirlo a Goebbels, perché non si fidava di lui e lo riteneva il più pazzo e il più pericoloso di tutti."

Chissà se l'episodio risponde al vero. In caso affermativo resterebbe la curiosità di sapere come si sarebbero svolti gli avvenimenti successivi nel caso di un responso esplicito di Jung.  Una delle tante sliding doors della storia, di cui non conosceremo mai gli  esiti alternativi. 

Fabrizio Falconi - © riproduzione riservata. 

20/05/14

Dieci grandi anime. 9 . Etty Hillesum (2./)



Dieci grandi anime. 9 . Etty Hillesum (2./) 


Ma – prosegue nella ricostruzione Klaas A.D. Smelik – la pubblicazione a parte di due lettere che Etty aveva scritto da Westerbork, lo incoraggiò a non demordere. Arrivò così l’incontro, nel 1979, con l'editore J.G. Gaarlandt.  Nel frattempo il padre di Klaas era morto.  L’editore  diede ordine di far trascrivere i diari – la calligrafia di Etty era pessima – e procedette alla pubblicazione di tutti, tranne due – quelli contrassegnati con il n.6 ed il n.7 che nel frattempo erano scomparsi.   Presentata nel 1981, l’antologia ebbe un successo immediato, enorme.  In poco tempo si consumarono diciotto ristampe e traduzioni in Inghilterra, Stati Uniti, Italia, Spagna, Brasile, Svezia, Norvegia, Danimarca, Finlandia, Israele e Giappone. 


Nel frattempo era anche ‘miracolosamente’ tornato alla luce il sesto quaderno – il settimo è a tutt’oggi introvabile – ed era stata istituita, il 17 ottobre 1983, la Fondazione Etty Hillesum che si è impegnata in questi anni in un prodigioso recupero dei testi originali, di quelli mancanti – con il ritrovamento di venti lettere indirizzata all’amico Osias Korman, detenuto anche lui a Westerbork (4) – nella pubblicazione di un’edizione integrale dell’opera, critico-scientifica,  accessibile a tutti,  e nella ricerca dei testimoni, di tutte quelle persone ancora in vita che ebbero occasione di conoscere Etty Hillesum.


Leggere di queste traversie che accompagnarono la pubblicazione delle lettere e dei diari –  durate 40 anni – prima che un editore si rendesse conto della eccezionalità assoluta degli scritti che gli erano capitata tra le mani, lascia solo in parte stupefatti:  le pagine di Etty Hillesum, infatti, anche se destinate a tutti, a ogni potenziale lettore, non sono mai facili.

Etty era quella che si definirebbe infatti, una anima inquieta. Sempre in bilico, sempre alla ricerca di un equilibrio tra stati di profonda e introspettiva sofferenza ed estasi improvvise, tra illuminazioni maturate al termine di impietosi percorsi di autoconoscenza e autoanalisi e cedimento o volontario abbandono  al dominio dei sensi.

Un po’ di questa inquietudine l’aveva forse ereditata dallo spirito russo della madre, Rebecca Bernstein, nata nella provincia del Potsjeb nel 1881, e finita in Olanda a seguito del pogrom del 1907.  

Ad Amsterdam cinque anni dopo, nel 1912 aveva sposato Louis (Levi) Hillesum, anche lui ebreo, insegnante liceale.  Dal matrimonio erano nati tre figli, la primogenita Etty, nel 1914,  e poi  i due maschi Jacob (Jaap) nato due anni dopo e Misha nato nel 1920.  Una intera famiglia che fu spazzata via dal nazismo.  

Insieme ad Etty, nel lager di Auschwitz trovarono infatti la morte i genitori e il più piccolo Misha. A Jacob toccò invece l’amaro destino di sopravvivere loro, scampando al viaggio verso il campo di concentramento, e di morire dopo la liberazione, nell’aprile del 1945, durante il viaggio di ritorno a casa.

Una inquietudine, quella di Etty, che risulta dichiarata in modo quasi programmatico in un passo di una sua lettera: Io credo che nella vita si possa ricavare qualcosa di positivo in tutte le circostanze, ma che si abbia il diritto di affermarlo solo se personalmente non si sfugge alle circostanze peggiori. (5)


Dichiarazione che costerà ad Etty una fedeltà totale al suo destino, fino al consapevole sacrificio finale.  Quella fedeltà che gli farà scrivere, in una delle ultime lettere dalla prigionia di Westerbork, quando ormai è imminente la partenza per Auschwitz: La vita qui non consuma troppo le mie forze più profonde. Fisicamente forse si è un po’ giù e spesso si è immensamente tristi, ma il nostro nucleo interiore diventa sempre più forte (6).  E ancora:  Una volta è un Hitler, un’altra è Ivan il Terribile; per quanto mi riguarda; in un caso è la rassegnazione, in un altro sono le guerre, o la peste e i terremoti e la carestia. Quel che conta in definitiva è come si sopporta, e risolve il dolore, e se si riesce a mantenere intatto un pezzetto della propria anima. (7)

Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. 

4.   Korman, ebreo di origine polacca, ha a sua volta una storia straordinaria:  fu infatti uno dei passeggeri della Saint Louis, la nave salpata dal porto di Amburgo  il 13 maggio del 1939 con destinazione L' Avana e con 936 ebrei tedeschi in fuga dalla Germania. Il rifiuto delle autorità cubane e poi di quelle statunitensi di accogliere i rifugiati costrinse il comandante a tornare in Europa. Osias Korman, quattro anni dopo finì a Westerbork. In una lettera a lui indirizzata  Etty scrive: L'unica cosa che si può fare è di lasciare scaturire in ogni direzione quel po’ di buono che si ha in sè. Tutto il resto viene dopo. Se Osias sopravvisse alla difficile esistenza nel campo di transito, fu anche grazie a Etty.
5.   Etty Hillesum, Lettere (1942-1943),  a cura di Chiara Passanti, prefazione di Jan G.Gaarlandt,  Adelphi, 1990, pag. 27.
6.    E. Hillesum, Lettere, Op.cit. p.88
7.    Etty Hillesum, Diario (1941-1943),  a cura di J.G. Gaarlandt, Adelphi, 1985  pag. 161. 

01/05/14

Hitler e il Nazionalsocialismo: una lettera di Thomas Mann a Albert Einstein.




Per diversi critici, l'atteggiamento del grande scrittore - a cui era stato attribuito il Premio Nobel nel 1929 - nei confronti di Hitler e soprattutto dell'antisemitismo furono tutt'altro che limpido. 

Thomas Mann, che non era ebreo, ma aveva sposato un'ebrea, ebbe però la coerenza di scegliere l'esilio quando i Nazisti presero il potere, nel 1933, dopo le contestazioni dei nazisti alla sua celebre conferenza su Wagner tenuta all'Università di Monaco.  Lo scrittore, che in quei giorni si trovava all'estero, decise di non fare più ritorno in Germania, fino alla fine dei suoi giorni. 

Stabilitosi dapprima in Svizzera, a Kusnacht e poi a Zurigo, andò a vivere negli Stati Uniti, a Pacific Palisades, nei pressi di Los Angeles. 

In America divenne intimo di grandi personalità, tra cui Albert Einstein, che aveva già conosciuto negli anni precedenti, e al quale scrisse questa lettera, datata 15 maggio 1933 poco dopo che (il 30 gennaio) Adolf Hitler era stato nominato Cancelliere del Reich. 

La lettera fu scritta nel Grand-Hotel di Bandol, nel dipartimento di Var, nella Francia del Sud. 

Ad Albert Einstein 
Bandol (Var), 15 maggio 1933, Grand Hotel

Stimatissimo professore, 
diversi cambiamenti di residenza hanno fatto sì che il mio grazie per la sua cara lettera si sia protratto fino ad oggi. 

E' stato il più onorevole messaggio che io abbia avuto non solo in questi tristi mesi, ma forse in tutta la mia vita: ma esso mi loda di una condotta che mi riuscì naturale e che pertanto non merita elogi.

Ben poco naturale, certo, è invece la situazione in cui, per quel mio contegno sono venuto a trovarmi; sono troppo un buon tedesco infatti, perché il pensiero di un esilio permanente non abbia per me un accento assai grave, e la rottura col mio paese, che è quasi inevitabile, mi opprime e mi angoscia parecchio:
segno appunto che non si adatta bene alla mia natura, più improntata ad una tradizione goethiana e rappresentativa che non fatta, di sua natura e vocazione, per il martirio.

Perché mi vedessi costretto a entrare in questa parte dovevano accadere, veramente, cose oltremodo false e cattive, e falsa e cattiva, infatti, secondo la mia più profonda convinzione è questa "Rivoluzione tedesca."  

Le mancano tutte quelle qualità che alle vere rivoluzioni, per cruente che fossero, hanno attirato la simpatia del mondo. Essa, per sua natura, non è una "sollevazione", checché vadano dicendo e strillando i suoi esponenti, ma odio e vendetta, gusto di uccidere e meschineria spirituale piccolo-borghese. 

Non ne può venire nulla di buono, non lo crederò mai e poi mai, né per la Germania né per il mondo, e l'aver messo in guardia, fino all'ultimo, contro le forze che hanno portato questo disastro morale e spirituale, costituirà certo un giorno un titolo d'onore, per noi, titolo d'onore che forse sarà la nostra rovina. 

Il suo devotissimo

Thomas Mann
   

07/12/11

L'arresto di Zagaria e la propensione del male per il sottosuolo.



Osservando le immagini dell'arresto di Michele Zagaria, oggi, penso ai corsi e ricorsi che accompagnano, da sempre le fasi di cattura dei grandi criminali della storia.

SEMPRE, da Hitler a Saddam, da Gheddafi al camorrista Zagaria, c'è di mezzo un bunker, un nascondiglio, un sottoterra.


Sempre, c'è bisogno di sottrarsi allo sguardo, e di rifugiarsi nella terra, nel basso, nell'infimo. Una specie di attrazione irresistibile per chi compie il male.

C'è poi un ulteriore motivo, che farebbe la felicità dei grandi analisti di simboli, che è quello della presenza costante, in questi bunker, in questi rifugi, in questi sotterranei, di richiami religiosi. Una bibbia acutamente sottolineata, come il caso di Riina, un rosario - come sembra avvenne nel bunker di Berlino - un libro di preghiere, come è avvenuto anche oggi all'apertura del nascondiglio di Zagaria.

E' davvero qualcosa su cui meditare.

E tornano in mente le parole - profetiche - di Simone Weil: Quando si compie il male, non lo si conosce, perché il male fugge la luce.

27/03/11

Il discorso del Re - La forza morale di un popolo.



E' un bellissimo film, Il Discorso del Re, di Tom Hooper, che ha fatto man bassa di premi nella notte degli Oscar. E' un bellissimo film non solo per il suo valore cinematografico, ma perché ricostruisce - senza compiacimenti o voli pindarici - la figura del re Giorgio VI di Inghilterra, padre di Elisabetta, che ebbe un ruolo così importante negli anni della IIa guerra mondiale, quando l'Inghilterra resistette alle bombe di Hitler, e insieme agli alleati americani e russi riuscì a sconfiggere il demone nazista che minacciava di impadronirsi del mondo.

Re Giorgio, nato Albert Frederick Arthur George Windsor viene descritto con le sue umane debolezze, le sue paure, i suoi scatti di rabbia. E' un re 'suo malgrado', che diventa re - a posteriori potremmo dire 'provvidenzialmente'... chissà altrimenti la storia come sarebbe andata - solo in seguito alle bizzarrìe del fratello primogenito, il famoso e chiacchierato Edoardo VIII - un numero cardinale che non porta molto bene ai regnanti inglesi - che rinunciò al trono per sposare Wallis Simpson.

Re Giorgio trova dentro se stesso - e soprattutto nel suo popolo - le qualità morali che gli permetteranno di diventare un simbolo nella lotta contro i tedeschi. Le troverà grazie anche al logopedista/guru Lionel Logue - realmente esistito - che lo aiuterà a sconfiggere la penalizzante balbuzie e a renderlo degno del suo ruolo di sovrano.

Un film che fa molto riflettere, su quali sono le cose realmente importanti della vita. E da cui si apprende la lezione che la semplicità, il fare il proprio dovere, è quel che si richiede alle nostre esistenze - a qualsiasi lignaggio si appartenga - per far sì che esse siano degne di essere vissute.

11/01/11

L'umorismo è il maggior nemico del diavolo - J.Hillman.


In questi giorni natalizi, rivedendo alcuni dei vecchi film dell'epoca del muto, del grande Chaplin, o di Laurel & Hardy, ho molto riflettuto su cosa è l'umorismo, su quanto sia difficile da praticare, e su come si tratti di una attitudine umana precipua e alta. 

La paura è la grande sovrana del mondo. E la paura è l'antitesi del sorriso.
Nel suo libro, 'Il Codice dell'Anima', James Hillman, nel capitolo dedicato ad Adolf Hitler, distingue tra l'umorismo (e quindi l'umorista) e "la figura del Briccone," di colui cioè che è specialista nel "dire arguzie, fare il buffone, danzare la giga, giocare burle", tutte tipiche contro-figurazioni che possono avere molto a che vedere con il male.

La linea di demarcazione è sottile, ma molto importante.

Hillman sottolinea l'origine della parola 'umorismo', cioè la sua etimologia, che deriva, ancora una volta dalla radice 'humus', da cui a loro volta derivano:
-homo, humanus,
e - humilis

E' forse per questo motivo che l'umorismo - non il comico, non il grottesco, non il ridere insensato - è quanto di più umano esista. Ecco il brano nella sua interezza.

Il diavolo può impersonare la figura del Briccone, dire arguzie, fare il buffone, danzare la giga, giocare burle, ma l'umiltà terragna dell'umorismo gli è totalmente estranea.


L'umorismo, come indica la parola stessa, inumidisce e ammorbidisce, conferendo alla vita un tocco ordinario; poiché incoraggia l'autoriflessione e prende le distanze dal senso di importanza personale, l'umorismo è fumo negli occhi per il delirio di grandezza. In quanto ci pone su un gradino più basso, è essenziale per crescere cioè discernere.

La risata che dà riconoscimento alla nostra assurdità di comparse nella commedia umana è altrettanto efficace per scacciare il diavolo, dell'aglio e della croce per scacciare i vampiri.

Lo aveva capito Chaplin, che nel suo film Il grande Dittatore non si limita a ridicolizzare Hitler, ma rivela l'assurdità, la trivialità e la tragicità dell'inflazione demonica.


James Hillman, Il codice dell'Anima, pag.276.