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14/12/21

Libro del Giorno: "Sedurre da dio" di Olga Cirillo

 


Non è soltanto una idea editoriale, come oggi purtroppo chiede tirannicamente il mercato editoriale editoriale: in questo libro c'è molto di più. 

Si tratta di un originale e interessantissimo saggio, scritto da Olga Cirillo, che vive e lavora a Napoli e si occupa principalmente di poesia elegiaca ed è stata cultrice della materia di Letteratura Latina all'Università Federico II, nel quale l'autrice esplora i miti classici, da Era e Afrodite e Apollo, a Giasone e Teseo, a Enea e Odisseo, a Pandora e Elena, fino a Narciso e Eros e Psiche. 

Un viaggio sorprendente attraverso il mito per scoprire quello che la psicologia analitica sa già molto bene, e cioè che le figurazioni antiche descrivono il campo delle emozioni umane - e di conseguenza delle relazioni - meglio di qualunque trattato specifico e con una chiarezza incredibilmente moderna.  Ciò è particolarmente interessante considerando la grande confusione che sembra regnare sopra le relazioni amorose umane, dove tutto sembra o sembrerebbe molto più complesso e complicato rispetto al passato. 

Non è così e il nostro è semplicemente un errore di prospettiva. Le dinamiche amorose infatti rispondono, per linee generali, ma anche nel particulare dei simbolismi, a quanto è descritto nel racconto mitologico dell'età antica.

Il viaggio attraverso la narrazione di alcuni tra i più noti miti erotici del mondo antico percorre i diversi volti della seduzione. Quando il desiderio interviene nella vita, provoca cambiamenti e conflitti, fino a che non si realizza. Nel racconto mitologico, a indurlo è sempre un’influenza divina, quella di Eros o di Afrodite, che contano su uno o più oggetti magici. In qualche caso, essi agiscono insieme, combinando le proprie strategie come complici perfetti, il che, tuttavia, non risparmia loro di soffrire delle stesse pene che riservano alle inconsapevoli vittime.

Nella interpretazione moderna, come insegnano Jung e Hillman, alle entità divine si possono sostituire, con pregnanza di senso, le figure archetipiche che sono alla base dei comportamenti e della storia umani. Figure che vivono dentro ciascuno di noi e che nomi come: "carattere", "destino", "predisposizione", "affinità", definiscono sinteticamente, in mancanza di meglio. Anche perché la natura umana - e l'eros rappresenta la natura umana alla sua massima potenzialità - si muove su basi ancestrali ancora del tutto inesplorate: chi si aspettasse di poter definire la dinamica amorosa in base a mere teorie psicologiche o psicanalitiche o peggio ancora, con motivazioni genetiche o neuronali, non ne capirebbe niente.  

Nell'amore c'è un quid potente che ci continua a sfuggire e che - per fortuna - sconvolge ogni nostro piano e ogni nostra previsione o controllo.

E' di questo quid che parlano - emozionandoci - questi miti, raccontandolo nel modo più sincero, più veritiero possibile.  E di questo quid è fatto quindi anche questo splendido libro.

Fabrizio Falconi 

Olga Cirillo
Sedurre da dio 

19/09/11

Dieci luoghi dell'anima - Introduzione.



Chiunque di noi ha sperimentato, almeno una volta, giungendo in un luogo sconosciuto, di avvertire dentro il cuore, senza apparente motivo, una inspiegabile sensazione di familiarità, conoscenza, pace. Non ho usato questi termini casualmente: familiarità, conoscenza, pace.

Sono i paradigmi che ciascuno non si stanca di ricercare nel cammino della propria vita. E sperimentabili tutti e tre insieme soltanto per brevi illuminazioni, istanti di pienezza che si cerca di afferrare e tenere stretti, prima che, sfumando, si allontanino. Quando analizziamo i motivi dell’incantesimo che un luogo ci ha suscitato accogliendoci, tiriamo in ballo i ricordi dell’infanzia, le similitudini, le aspettative, le caratteristiche tipiche, le proporzioni, le forme, i colori.

Ma non è soltanto questo, io credo, che ci ha portato a sentire quella conoscenza, quella familiarità, quella pace. Andrej Tarkovskij, il grande regista russo, avvertiva, nei suoi diari: L’unica funzione della nostra coscienza è quella di creare finzioni, mentre la conoscenza è data dal cuore, dall’anima. La coscienza, sottende Tarkovskij, ci costringe sempre al distinguo, alla differenziazione, al ragionamento, all’opportunità, al calcolo.

Tutti aspetti che difficilmente si coniugano con la familiarità, con la pace e con quella conoscenza vera, intima che - sembra dirci uno dei registi del Novecento considerato più vicini allo spirituale, al sacro - si manifesta, accade, soltanto quando si spengono o si attenuano i gangli della nostra onnipresente coscienza, e lasciamo parlare il nostro cuore, la nostra anima. Per Tarkovskij, i due termini sembrano sinonimi: ma sappiamo che sulla distinzione tra ‘cuore’ e ‘anima’ si è discettato da sempre, in filosofia, in teologia, in mistica. E così (pensiamo a Santa Caterina da Siena), il cuore è stato identificato come la parte più autentica della personalità umana, quella parte che corrisponde al ‘sentimento’, quella “da cui sorgono le lacrime”, ed ogni esperienza emotiva.

Nella definizione di ‘anima’ per come è stata approfondita in psicologia, dagli studi a partire da Jung, c’è qualcosa di più: James Hillman, ricostruendo la storia di questo concetto, che parte dal genius dei latini, per attraversare il daimon dei greci e l’angelo custode dei cristiani, approda ad una definizione ‘larga’ di anima che contiene quel che di ineffabile è contenuto in ogni individuo umano. Quel che non si spiega con il materiale biologico ereditato, geni e cromosoma. 

Quella parte di noi, che noi – non sapendo definire meglio – chiamiamo con i più diversi nomi: ‘carattere’, ‘destino’, ‘predisposizione’, ‘vocazione’, e tanti altri. Quel ‘quid’ che fa di noi un essere unico e irripetibile. Io e voi,- scrive Hillman ne Il Codice dell’Anima - e chiunque altro siamo venuti al mondo con una immagine che ci definisce. Una immagine che ci definisce. E che dunque, è già definita. E se la nostra immagine, cioè la nostra anima, ha un ‘codice’ già pre-costituito, questo ‘codice’ non fa che interpretare – durante tutta la vita fisica su questa terra - i segnali dell’esistenza: incontri, persone, emozioni, esperienze personali, tutto viene filtrato dal linguaggio della nostra anima, sempre alla ricerca di qualcosa che possa essere ‘riconosciuto’ e ‘ricollegato’ ad una essenza che sembra precedere ogni altra acquisizione cognitiva. Questa parte del nostro essere - l’anima - rappresenta anche in termini cristiani, quel ‘ponte’ con lo spirito, quella parte che attraverso un ‘riconoscimento’ che non è dei sensi, ci mette in contatto con lo spirito universale della creazione.

 Il Dio della Pace – scrive San Paolo - vi santifichi totalmente e tutto il vostro essere, spirito, anima e corpo, siano custoditi irreprensibili per la parusia del Signore nostro Gesù Cristo. (Tes, 5,23). Anima, quindi, come ‘ponte’ tra corpo – cioè vita fisica – e spirito – cioè vita eterna. Questi concetti apparentemente astratti ciascuno di noi li sperimenta quando, senza rendercene neanche conto, incontriamo qualcuno che – non sappiamo spiegare perché – colpisce la nostra vita in modo indelebile. 

 “L’ho vista, e appena l’ho vista ho capito che era la donna della mia vita.” “Appena l’ho conosciuto ho capito che era una persona speciale, e che mi potevo fidare del suo carisma.” Non sono i sensi a dirci queste cose. E’ la nostra anima, che ha ‘riconosciuto’ qualcosa. Le anime si riconoscono anche se non si parlano. E allo stesso modo, io credo, vi sono luoghi che possiedono capacità di parlare alle anime, proprio alla nostra anima e in quel momento, oltre l’evidente bellezza di un armonico paesaggio, o di una efficace gradazione di forme e colori. La capacità di questi luoghi di parlare alla nostra anima non dipende solo da caratteristiche esteriori; c’è anzi il forte sospetto che i ‘luoghi dell’anima’ traggano la loro forza dal fatto di essere contenitori di voci e di storie, che continuano a vivere.

 In termini di fede, i primi cristiani sapevano a tal punto quanto fosse importante questa venerazione dei luoghi, da tenerli segreti – quelli riservati al culto o alla memoria di persone dalla storia e dall’anima straordinari – e riunirvisi in silenzio, in circostanze ‘misteriose’, fuori dalle convenzioni della vita mondana. Un luogo era importante e ‘sacro’ proprio perché – grazie alla presenza di queste voci ancora vive – riusciva a liberare le potenzialità delle anime dei vivi, a far lievitare quella possibilità di essere ponte tra corpo e spirito, tra fisicità e trascendenza. 

Anche oggi esistono molti luoghi con queste caratteristiche, nel mondo. Ed è un catalogo non compilabile, perché il codice dell’anima non vale per tutti allo stesso modo. Perché nessuna regola generale può valere per l’impalpabilità dell’anima e dei suoi molti linguaggi. Il tracciato che qui di seguito ho segnato è quindi soltanto personale. Luoghi scoperti casualmente, in occasione di viaggi, vacanze, o per motivi di interesse culturale, o a causa del mio lavoro di giornalista.

Qui ho dapprima ‘sentito’ e poi ‘conosciuto’ storie che ho provato a raccontare, in una geografia divenuta sempre più precisa, corrispondente ad un cammino interiore, rivolto al cuore del senso di una storia di uomo cresciuto dentro una tradizione occidentale e cristiana, lunga due millenni. E’ la stessa storia di molti che vivono in questa parte del mondo ormai spuria che chiamiamo Occidente. La storia dei nostri genitori, dei nostri nonni e delle intere generazioni che ci hanno preceduto. La loro voce, se la ascoltiamo, parla ancora chiaro, parlerebbe forse degli stessi luoghi e delle stesse cose che abbiamo sotto gli occhi adesso. Se soltanto fossimo capaci di fermarci, ed ascoltare.

La condivisione di queste scoperte e di queste storie nel corso degli anni, mi ha lentamente convinto che anche un tracciato così personale può diventare fecondo e condiviso. La silenziosa conversazione di anime avviene sempre, anche quando non facciamo nulla per volerlo coscientemente. E vale molto: realizza la nostra essenza su questa terra, senza la quale siamo semplicemente ‘anime sperse’, o ‘perse’, come si dice con efficace sintesi nel linguaggio comune. In ultima analisi, scrive Carl Gustav Jung, noi contiamo qualcosa solo in virtù dell’essenza che incarniamo, e se non la realizziamo, la vita è sprecata.

Fabrizio Falconi

Questa introduzione è tratta dal volume "Dieci Luoghi dell'anima,"  Cantagalli editore, 2009, Siena.


10/05/11

Lessico dei Poeti 3 - 'Cuore'.


Cuore.

Scrive James Hillman, in Thought the Heart (pag. 24-33): “L’organo che percepisce il volto delle cose è il cuore. Il pensiero è fisiognomico. Per percepire deve immaginare. Deve vedere forme, figure, facce: angeli, demoni, creature di ogni genere e cose di ogni tipo; e con ciò stesso il pensiero del cuore personizza, infonde anima e anima il mondo. Questo nesso tra cuore e organi di senso non è semplicemente e meccanicamente sensistico, bensì estetico. A “salvare il mondo” non sono necessariamente la grazia o la fede o le teorie olistiche e neppure l’attività scientifica. I fenomeni sono salvati dall’anima mundi, dalla loro stessa anima e dal nostro ingenuo trattenere il fiato di fronte a tanta bellezza e meraviglia. “

E questo riconoscimento, ci dice Hillman, lo fa il ‘cuore’: è lì che localizziamo da sempre, da quando l’uomo è nato, quella capacità di andare oltre le semplici sembianze, di ‘riconoscere’ l’intimo volto delle cose, la sua natura più reale, proprio perché extra-sensoriale.

A esemplificazione del suo discorso, Hillman nel testo stesso, riporta i versi di un grande poeta, e non è un caso. Petrarca.

In selve impraticabili,

mentre credo d’esser più solo, gli stessi virgulti

o il tronco di un solitario leccio mi raffigurano il temuto volto,

oppure lo si vede emergere da una liquida fonte

o riluce sotto le nubi o nell’aria chiara

o sembra erompere, vivo, da una dura rupe.


Si tratta della traduzione dal latino delle Epistolae Metricae (IV, 145-50).

“Questi versi,” scrive Hillman, “ non sono per Laura, questa non è una lirica d’amore, bensì una descrizione di Laura, l’anima personalizzata, la raffigurazione impressa nel cuore mediante la quale procede la percezione estetica e che desta alla vita le cose come forme che parlano…”

Il cuore, insomma, sembra dirci Hillman, ci dà la descrizione dell’anima delle cose, riconosce quell’anima, la individua nelle forme in cui essa – anima – decide di manifestarsi.
Ed è perfino troppo ovvio che in questa capacità di discernimento del cuore, una via privilegiata la possiedano proprio i poeti. Sono loro a dare voce a quella voce del cuore, sin dalla notte dei tempi della tradizione.

Ma anche i poeti più vicini a noi, ovviamente. Seppure i loro testi non si trovano più – tranne in rari casi – nelle librerie-supermercato, essi continuano a parlare la lingua del cuore, se soltanto vi si concede ascolto.

Un poeta purtroppo legato al nostro doviziato scolastico, che non ne valorizza i toni moderni, così attuali, è Giovanni Pascoli. Nelle Myricae, l’occhio del cuore fa precipitare il poeta in un viaggio quasi allucinato:

Io vedo (come è questo giorno, oscuro!),

vedo nel cuore, vedo un camposanto

con un fosco cipresso alto sul muro.

E quel cipresso fumido si scaglia

allo scirocco: a ora a ora in pianto

sciogliesi l’infinita nuvolaglia.

O casa di mia gente, unica e mesta,

o casa di mio padre, unica e muta,

dove l’inonda e muove la tempesta;

E l’obiettivo di questo viaggio, non è soltanto dare voce alla memoria, è proprio ri-costruire quei volti, i loro veri volti, i volti del padre e della madre, i volti che il cuore ha conosciuto e quindi ha sentito come veri, reali, in grado di oltre-passare anche i territori della morte.

E’ del resto lo stesso Pascoli a scriverlo quasi esplicitamente, nella prefazione con dedica al padre Ruggiero, del poema: chiudere gli occhi stanchi di contemplare, e riporre e raccogliere nell’anima la visione…

E’ così che nel linguaggio poetico la lingua del cuore potrebbe diventare, potrebbe essere intepretata come lingua universale, una specie di esperanto capace di ri-nominare ogni cosa, di interpretare ogni cosa non più e non soltanto attraverso i veridici nomi d’abitudine, non più e non solo attraverso i segnali di consuetudine che spargiamo nel nostro mondo razionale, ma invece mediante i lampi fulminanti delle intermittenze del nostro cuore. Il quale – come un radar, come una geo-sonda – è capace di dare fisionomia agli oggetti, e perfino alla memoria.

Lo descrive molto bene Camillo Sbarbaro, che negli anni del trasferimento a Genova, negli anni dell’amicizia con Montale (intorno al 1928), scrive nei versi di Liquidazione:

Se la memoria fosse del cuore,

non un nome svegliandoti

ti verrebbe alle labbra.

Nel riflettere sono tutte le tue possibilità di vita.

Sono le parole di un poeta perfettamente cosciente del fatto che: La vita è disperazione perché non si lascia cogliere nel suo senso ultimo...” Quel senso ultimo che in nessun caso può provenire dalla contemplazione o dallo studio empirico-razionalistico. C’è sempre qualcosa che sfugge, e quel qualcosa è esattamente l’anima diffusa che ogni persona sparge nel suo tracciato esistenziale. E che si coglie, solo, mettendo in funzione il ‘cuore.’

Il linguaggio del cuore può diventare anche una condanna, per il poeta. Lo scrivono e lo testimoniano i percorsi tragici di molti testimoni dell’Ottocento e del Novecento che della loro smisurata sensibilità profetica hanno fatto un martirio. E’ la condanna di chi parla un linguaggio altro, di chi per esempio si sente obbligato a vivere una vita di corpi (e di sembianze) perché non può, non può più arrivare a quella via del cuore, incarnata dal modello insormontabile della propria genitrice. Così Pierpaolo Pasolini nella celebre Supplica a mia madre:

E’ difficile dire con parole di figlio

ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio.


Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore,

ciò che è stato sempre, prima d'ogni altro amore.

Per questo devo dirti ciò ch'è orrendo conoscere:

è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia.


L’angoscia che non era altro, come scriveva lo stesso Pasolini che quel troppo grande amore /nel cuore/ per il mondo.

Fabrizio Falconi.

11/01/11

L'umorismo è il maggior nemico del diavolo - J.Hillman.


In questi giorni natalizi, rivedendo alcuni dei vecchi film dell'epoca del muto, del grande Chaplin, o di Laurel & Hardy, ho molto riflettuto su cosa è l'umorismo, su quanto sia difficile da praticare, e su come si tratti di una attitudine umana precipua e alta. 

La paura è la grande sovrana del mondo. E la paura è l'antitesi del sorriso.
Nel suo libro, 'Il Codice dell'Anima', James Hillman, nel capitolo dedicato ad Adolf Hitler, distingue tra l'umorismo (e quindi l'umorista) e "la figura del Briccone," di colui cioè che è specialista nel "dire arguzie, fare il buffone, danzare la giga, giocare burle", tutte tipiche contro-figurazioni che possono avere molto a che vedere con il male.

La linea di demarcazione è sottile, ma molto importante.

Hillman sottolinea l'origine della parola 'umorismo', cioè la sua etimologia, che deriva, ancora una volta dalla radice 'humus', da cui a loro volta derivano:
-homo, humanus,
e - humilis

E' forse per questo motivo che l'umorismo - non il comico, non il grottesco, non il ridere insensato - è quanto di più umano esista. Ecco il brano nella sua interezza.

Il diavolo può impersonare la figura del Briccone, dire arguzie, fare il buffone, danzare la giga, giocare burle, ma l'umiltà terragna dell'umorismo gli è totalmente estranea.


L'umorismo, come indica la parola stessa, inumidisce e ammorbidisce, conferendo alla vita un tocco ordinario; poiché incoraggia l'autoriflessione e prende le distanze dal senso di importanza personale, l'umorismo è fumo negli occhi per il delirio di grandezza. In quanto ci pone su un gradino più basso, è essenziale per crescere cioè discernere.

La risata che dà riconoscimento alla nostra assurdità di comparse nella commedia umana è altrettanto efficace per scacciare il diavolo, dell'aglio e della croce per scacciare i vampiri.

Lo aveva capito Chaplin, che nel suo film Il grande Dittatore non si limita a ridicolizzare Hitler, ma rivela l'assurdità, la trivialità e la tragicità dell'inflazione demonica.


James Hillman, Il codice dell'Anima, pag.276.

04/11/10

Perché ci concentriamo con tanta intensità sui nostri problemi ?



Viviamo giorni difficili. Mi piace andare in giro ed annusare gli stati d'animo della gente, ascoltare le chiacchiere da bar. Lo spaesamento collettivo è anche sintomo di un disorientamento personale, singolo, individuale.

Il malessere che si avverte, personale, è grave e complesso. Molte persone sono oppresse da problemi concreti molto seri. Molte altre persone, sono alle prese con problemi di carattere personale-psicologico, relazionale, amoroso, e tendono ad essere totalmente assorbite da se stesse.

Scrive J. Hillman: Perché ci concentriamo con tanta intensità sui nostri problemi ? Che cosa ci attira verso di essi ? Perché ci affascinano tanto? Perché posseggono la forza magnetica dell'amore: in un certo senso ne siamo innamorati nella stessa misura in cui vorremmo liberarcene e si direbbe che essi esistano a priori, prima che inizi un rapporto, prima che inizi un'analisi.
I problemi ci tengono in vita; per questo forse non se ne vanno mai. Che cosa sarebbe la vita senza di essi ? Totalmente sedata e senza amore. Dentro ciascun problema è nascosto un amore segreto.

E' un rovesciamento sorprendente, ma suggestivo: i problemi sono come l'amore. Come l'amore, i problemi pretendono da noi una risposta, e in questo senso sono la vita.
Un problema vissuto e liberato è come un amore realizzato. Un problema non autentico e vissuto come un'abitudine è come un amore incompiuto, una passione che non consuma e non lascia traccia.

Per questo, tutti noi dovremmo lavorare, nelle nostre vite, per dare un posto ai problemi, e scegliere di dare loro un peso e un corpo, non lasciarli a galleggiare vagamente nella testa come una consolante abitudine fine a se stessa.

Scegliere significa fare, scriveva John Donne. Scegliere di dare un teatro effettivo ai problemi, ascoltare la sofferenza vera e fare a meno di quella non autentica, è già un passo avanti verso la maturità interiore: che è il fine ultimo per il quale siamo nati.


Fabrizio Falconi

in testa: fotogramma da Stromboli, Roberto Rossellini (1950)