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18/12/17

Consigli di Flaubert a Maupassant per diventare uno scrittore: "Sacrificare anche se stessi all'arte!"



Vi lamentate che il culo delle donne è monotono ?  C'è un semplice rimedio, ed è di non servirsene. I vizi sono meschini, dite. Ma tutto è meschino ! Non ci sono abbastanza possibilità di lavorare le frasi, dite.  Cercate e troverete !

Infine caro amico, avete l'aria molto annoiata, e la vostra noia mi affligge, perché potreste impiegare più gradevolmente il vostro tempo. Bisogna, avete capito giovanotto ? Bi-so-gna lavorare più di così. 

Arrivo a sospettare che siate un fannullone. Troppe puttane !Troppo canottaggio ! Troppi esercizi fisici ! L'uomo civilizzato non ha bisogno della locomozione quanta ne pretendono i medici. Siete nato per fare dei versi ? Fatene ! Tutto il resto è vano, a cominciare dai vostri piaceri e dalla vostra salute, ficcatevi questo ben dentro la testa.

Vivete in un inferno, lo so, e vi compiango dal più profondo del cuore.  Ma dalle 5 della sera alle 10 della mattina il vostro tempo può essere consacrato alla Musa, la quale è ancora la migliore ragazza. 

Mio caro buon uomo, a cosa serve sfrucugliare la propria tristezza ?

Bisogna porsi faccia a faccia con se stessi da uomini forti, ed è il mezzo per diventarlo.  Un po' più di orgoglio ! Ciò che vi manca sono i principi.  Si ha un bel dire che sono necessari; resta da sapere quali. Per un artista ce n'è uno solo: sacrificare tutto all'Arte. La prima persona di cui deve fregarsene è se stesso.

Lettera di Gustave Flaubert a Guy de Maupassant, 1879, da tempo sotto la sua ala protettrice. Brano riportato da Marco Archetti, in Trovarsi un maestro e seguirlo è l'unico antidoto a questi tempi di stupidità, ne Il Foglio, 15 dicembre 2017. 

19/02/15

"Il pappagallo di Flaubert", di Julian Barnes. Un grande romanzo (recensione).




Aveva già pubblicato due romanzi, racconta lo stesso Barnes, prima di questo, ma erano stati un mezzo fallimento, "avevano venduto sì e no un migliaio di copie in edizione rilegata, raggiungendo a stento il traguardo del tascabile." 

Poi è arrivato questo, e per lo scrittore inglese si sono aperte le porte di un successo internazionale, nato dal door to door, dal passaparola.

Cosa ha fatto del Pappagallo di Flaubert  un successo ? Cosa ha fatto di questo strano romanzo un libro notevole, diverso da tutti gli altri ? 

Memoir, saggio, romanzo, biografia, Il Pappagallo di Flaubert appartiene ad un genere indefinibile. Anzi non è un libro di genere, per l'appunto. 

Con il pretesto di raccontare Gustave Flaubert, l'immenso scrittore di Bovary, di raccontare la sua storia, le sue fissazioni, il suo trauma, il suo rifiuto d'amare per paura di soffrire, il suo cuore barricato, il suo apparente cinismo che velava una vulnerabilità perfino eccessiva, le sue malattie, le sue amicizie, i suoi viaggi, il suo erotismo esuberante, le sue amanti, gli amori falliti, le amicizie, le avventure estemporanee omosessuali, Barnes ci racconta se stesso e la sua visione del mondo, attraverso l'alter ego del medico Braithwaite, maniaco studioso di Flaubert ai limiti del feticismo, ossessionato dall'idea di rintracciare il vero pappagallo impagliato usato dallo scrittore francese come modello per quello vero al centro della narrazione di Un coeur simple.

Gustave Flaubert

Barnes ha dunque utilizzato tutto il materiale raccolto su Flaubert utilizzandolo in un perfetto congegno narrativo, destinato a tutti anche chi non ha mai amato o letto il grande classico francese.

Perché è un libro sulla vita, più che sulla letteratura.

Flaubert, che passò tutta la vita a difendersi dagli eccessi emotivi, ha descritto nei suoi romanzi il cuore umano con la precisione che forse nessun altro è riuscito ad avere,  le debolezze, le cadute, i miasmi che si agitano dentro ogni cuore umano. E la forza di sopravvivenza, la disperazione capace di sublimarsi in arte.  

Si scoprono meraviglie linguistiche di Flaubert, aforismi grandiosi (nella virtuosistica traduzione di Susanna Basso), ma la gara è tra quello che leggiamo proveniente direttamente dal genio di Rouen (il mio cuore è intatto, ma i miei sentimenti sono affilatissimi da un lato e smussati dall'altro, come un vecchio coltello molato troppe volte che è pieno di tacche e rischia di spezzarsi ) e quella che è farina del sacco di Barnes (E poi lo saprete anche voi, non è che davvero cerchiamo e scegliamo, non credete ? Siamo scelti piuttosto; veniamo eletti dall'amore attraverso un voto inappellabile, a scrutinio segreto). 

Il pregio più grande di questo libro è anzi proprio questo: quello che ad un certo punto le due voci del romanzo si con-fondono, diventando quasi una, rendendo quasi impossibile dividere l'una e l'altra. Barnes sembra acquisire i resti (oltre che le reliquie materiali) del suo mèntore. La sua narrazione si fa pura luce, pura chirurgia, come era quella del grande Maestro.


Fabrizio Falconi - (C) riproduzione riservata - 2015


Julian Barnes 

26/11/12

Pietro Citati: Flaubert, ritratto d'artista da giovane solitario.




Riporto qui una anticipazione del bellissimo articolo comparso il 20 novembre 2012 sul Corriere della Sera, su Gustave Flaubert, firmato da Pietro Citati. 


Flaubert, ritratto d'artista da giovane solitario Era nato per il riso, il grottesco e la buffoneria ma con la malattia scoprì il senso della rinuncia

A ventun anni Gustave Flaubert era bellissimo: di una bellezza eroica, scrisse Maxime du Camp. Aveva una pelle bianca leggermente rosata sulle guance, lunghi capelli fini e ondeggianti, era alto e largo di spalle, aveva la barba abbondante e di un biondo dorato, gli occhi enormi, color verde mare, protetti da sopracciglia nere: mentre una voce echeggiante come un suono di tromba, i gesti eccessivi e un riso squillante ricordavano i giovani condottieri galli che avevano lottato contro le armate romane. Salmodiava la prosa, urlava i versi, s'infatuava di una parola che ripeteva sino alla sazietà, riempiva tutto col suo rumore, sdegnava le donne attratte dalla sua bellezza, svegliava gli amici alle tre del mattino per portarli a vedere un effetto di chiaro di luna sulla Senna. Aveva un'immensa vitalità fisica. Sembra che solo il mare potesse fronteggiarlo. La primavera e l'estate era sempre nell'acqua, nella Manica e nella Senna, nuotando e vogando su un canotto, che il padre gli aveva acquistato.

Il padre gli aveva imposto di studiare legge, abbandonando la letteratura; e il 10 novembre 1841 si iscrisse alla facoltà di Diritto di Parigi, sebbene continuasse ad abitare a Rouen. L'8 gennaio 1842 era a Parigi. Discese all'Hôtel de l'Europe, rue Le Pelletier, e scrisse alla madre. «Tutto è bene, tutto va bene, tutto va per il meglio possibile, come dice Candide»: poi si informò sul programma e gli orari del corso del primo anno. Ma il diritto non era, per Flaubert, «il migliore dei mondi possibili». «La giustizia umana», scrisse qualche mese dopo a un amico, «è per me quello che c'è di più buffonesco al mondo, un uomo che ne giudica un altro è uno spettacolo che mi farebbe crepare dal ridere, se non mi facesse pietà... Non vedo nulla di più idiota del diritto, se non lo studio del diritto. Ci lavoro con un estremo disgusto».

Malgrado queste dichiarazioni, cominciò a studiare legge, a Rouen e nell'appartamento che aveva affittato a Parigi al numero 19 della rue de l'Est. Era furibondo. «Il diritto mi uccide - scriveva il 25 giugno 1842 a Ernest Chevalier -, mi abbrutisce, mi sconnette, mi è impossibile lavorarci. Quando sono rimasto tre ore con il naso sul Codice, durante le quali non ho capito nulla, mi è impossibile andare oltre, mi suiciderei». «Voglio finirla prima possibile - ripeteva il 10 dicembre alla sorella Caroline -, perché non può durare più a lungo così, finirei per cadere in una condizione di idiotismo o di furore. Questa sera, per esempio, sento simultaneamente queste due piacevoli condizioni di spirito». «Sono così irritato, così infastidito, così furioso - continuava 5 mesi dopo -. Qualche volta ho voglia di dare dei pugni al mio tavolo e di far volare tutto a pezzi: poi, quando l'accesso è passato, mi accorgo dalla mia pendola che ho perso mezz'ora in geremiadi, e mi rimetto ad annerire della carta e a voltare le pagine più velocemente di prima». Bestemmiava spaventosamente, alternava ruggiti e sbadigli, pestava i piedi, gettava grida di desolazione.

Quando lo studio del diritto non gli offuscava la mente, faceva la parte del Garçon: un ruolo ilare, grottesco, rabelaisiano, che derideva l'immensa idiozia del mondo, e insieme se stesso. Se entrava in questa parte, non poteva uscirne. Diceva e ripeteva levando le braccia in un gesto di ammirazione: «Non so se tu capisci la grandezza di questo: quanto a me, lo trovo enorme (anzi: hénaurme)». E gridava. «È enorme! Enorme!». Quando gli amici non condividevano il suo entusiasmo, li trattava da bourgeois, che era la sua massima ingiuria. A Parigi, cenava frequentemente da Dagneau, rue de l'Ancienne Comédie, insieme a Louis de Cormenin, Maxime du Camp e Alfred Le Poittevin. Restavano sino all'ora della chiusura, chiacchierando con i gomiti sul tavolo. Parlavano di tutto, tranne che di politica. Dalla personalità di Dio e dall'identità dell'io fino alle buffonerie dei piccoli teatri, tutto era buono per gettarsi in teorie a perdita d'occhio. «Saltavamo - continua Maxime du Camp - da un soggetto all'altro senza preoccuparci troppo delle transizioni. Mi ricordo una conversazione a proposito di una farsa recitata allora al Palais-Royal, che continuò con l'analisi del libro di Gioberti sull'estetica, e finì con l'esposizione delle Idee ebraiche di Herder».

Malgrado la compagnia degli amici, aveva una profondissima nostalgia per la famiglia. Scriveva a Caroline: «Ora sono tutto solo che penso a voi, immaginando quello che fate. Siete là tutti accanto al fuoco, dove io solo manco. Si gioca al domino, si grida, si ride, si è tutti insieme, mentre io sono qui come un imbecille, con i due gomiti sulla tavola a non sapere che fare... Amo la mia vecchia stanza di Rouen, dove ho passato delle ore così tranquille e così dolci, quando sentivo attorno a me tutta la casa muoversi, quando tu venivi alle quattro per fare della storia o dell'inglese, e invece di storia e inglese parlavi con me fino a cena. Per amar vivere in qualche luogo, bisogna viverci da molto tempo. Non è in un giorno che si scalda il proprio nido». «Quando penso a voi altri, qualcosa di buono e di dolce mi rianima e mi rinfresca, mille tenerezze gaie mi tornano al cuore, e vado dall'uno all'altro guardandovi tutti andare, venire, parlare col suono della vostra voce».

A Rouen, amava soprattutto Caroline, il suo «topo», il suo «topolino»: «Se mi ami molto è giusto, perché io ti 
ho molto amata». A Caroline era legato da una strettissima complicità: insieme condividevano la letteratura e il riso - le due divinità di Gustave. «Ho nelle orecchie il tuo riso sonoro e dolce, quel riso per il quale mi farei crepare in buffonerie, per il quale darei la mia ultima facezia, persino la mia ultima goccia di saliva». A volte, solo, nella camera di Parigi, faceva smorfie nello specchio, o gettava il grido del Garçon, come se la sorella fosse là per vederlo e ammirarlo. «Che sciocchezze dirò e farò nella carrozza con te! Quali smorfie e quali buffonerie! Ti prometto un riso come non ne hai mai sentito». Intanto, Caroline era a Rouen: disegnava, dipingeva, suonava il piano; e pensava al fratello, desiderava vederlo e parlargli. Senza il fratello la casa era vuota e triste: anzi, faceva «vomitare di noia».