Visualizzazione post con etichetta guerra e pace. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta guerra e pace. Mostra tutti i post

17/10/22

Putin, Trump e tutti i megalomani potenti di oggi: La "Sindrome di Napoleone" spiegata da Tolstoj in "Guerra e Pace"


Pensando ai vari Putin, Trump, Lukashenko, Bolsonaro, ai tanti megalomani malati al potere oggi in diverse parti del mondo, ricorrono le parole che Lev Tolstoj usò per descrivere il tiranno di allora, Napoleone, definendo per primo, con parole profetiche, quella Sindrome (
la Sindrome di Napoleone), che catturò lui e dopo di lui, molti altri tiranni assoluti alla velleitaria conquista del mondo. 


Un uomo senza principi, senza abitudini, senza tradizioni, senza nome, che non è neppure un francese, per i più strani casi si fa avanti tra tutti i partiti che agitano la Francia, e senza aderire a nessuno di essi, è portato a un posto eminente

L’ignoranza dei colleghi, la debolezza e la nullità degli avversari, la sincerità nel mentire, la mediocrità brillante e sicura di sé di quest’uomo lo portano alla testa di un’armata

Una innumerevole quantità di cosiddetti casi lo accompagna dovunque. 

Al suo ritorno dall’Italia egli trova il governo in tale stato di disfacimento che gli uomini che vengono a far parte di questo governo vengono inevitabilmente stritolati o distrutti. 

Quell’ideale di gloria e grandezza che consiste non solo nel credere che nulla sia male per la propria persona, ma anche nell’inorgoglirsi di qualsiasi misfatto, attribuendogli un incomprensibile significato sovrannaturale si foggia liberamente in lui

Egli non ha nessun progetto: ha paura di tutto; ma i partiti si aggrappano a lui ed esigono la sua collaborazione. 

Lui solo, col suo ideale di grandezza e di gloria, con la sua folle adorazione di se stesso, con la sua audacia nel misfatto, con la sua sincerità nel mentire, lui solo può adempiere a ciò che si deve compiere.

E’ necessario per il posto che lo aspetta, e perciò quasi indipendentemente dalla sua volontà e malgrado la sua indecisione, la mancanza di un piano e tutti gli errori che commette, è trascinato nella congiura che ha per fine la conquista del potere, e la congiura è coronata da successo

Il caso, milioni di casi gli danno il potere e tutti gli uomini, come fossero d’intesa, cooperano al consolidamento di questo potere. 

Non c’è un’azione, non un misfatto, non il minimo inganno che egli commetta, che subito non si trasformi sulle bocche di coloro che lo circondano in una grande gesta. E non soltanto lui è grande, ma sono grandi i suoi avi, i suoi fratelli, i suoi figliastri, i suoi cognati. Tutto concorre a privarlo delle ultime forze della ragione e a preparare per lui una tremenda parte da rappresentare. E quando egli è pronto, sono pronte anche le forze. 

Lev Tolstoj – “Guerra e Pace”, da pag. 1326 (edizione italiana) in poi

17/10/21

La Sindrome di Napoleone - Il ritratto di ogni megalomane di oggi e di ieri. Tolstoj descrive il "vero" Napoleone



Un uomo senza principi, senza abitudini, senza tradizioni, senza nome, che non è neppure un francese, per i più strani casi si fa avanti tra tutti i partiti che agitano la Francia, e senza aderire a nessuno di essi, è portato a un posto eminente.

L’ignoranza dei colleghi, la debolezza e la nullità degli avversari, la sincerità nel mentire, la mediocrità brillante e sicura di sé di quest’uomo lo portano alla testa di un’armata.

Una innumerevole quantità di cosiddetti casi lo accompagna dovunque. Al suo ritorno dall’Italia egli trova il governo in tale stato di disfacimento che gli uomini che vengono a far parte di questo governo vengono inevitabilmente stritolati o distrutti.
Quell’ideale di gloria e grandezza che consiste non solo nel credere che nulla sia male per la propria persona, ma anche nell’inorgoglirsi di qualsiasi misfatto, attribuendogli un incomprensibile significato sovrannaturale si foggia liberamente in lui.
Egli non ha nessun progetto: ha paura di tutto; ma i partiti si aggrappano a lui ed esigono la sua collaborazione.
Lui solo, col suo ideale di grandezza e di gloria, con la sua folle adorazione di se stesso, con la sua audacia nel misfatto, con la sua sincerità nel mentire, lui solo può adempiere a ciò che si deve compiere.
E’ necessario per il posto che lo aspetta, e perciò quasi indipendentemente dalla sua volontà e malgrado la sua indecisione, la mancanza di un piano e tutti gli errori che commette, è trascinato nella congiura che ha per fine la conquista del potere, e la congiura è coronata da successo.
Il caso, milioni di casi gli danno il potere e tutti gli uomini, come fossero d’intesa, cooperano al consolidamento di questo potere.
Non c’è un’azione, non un misfatto, non il minimo inganno che egli commetta, che subito non si trasformi sulle bocche di coloro che lo circondano in una grande gesta.
E non soltanto lui è grande, ma sono grandi i suoi avi, i suoi fratelli, i suoi figliastri, i suoi cognati. Tutto concorre a privarlo delle ultime forze della ragione e a preparare per lui una tremenda parte da rappresentare. E quando egli è pronto, sono pronte anche le forze.



Lev Tolstoj – “Guerra e Pace”, da pag. 1326 (edizione italiana) in poi

08/02/16

"Guerra e Pace", la serie BBC: un prodotto di grande livello.




C'erano una volta gli italiani che sapevano fare meglio di tutti le riduzioni televisive dai grandi capolavori della letteratura. 

Fu una stagione d'oro, che passò dai cosiddetti sceneggiati - a cui lavorarono alcune tra le migliori menti e penne di quel periodo - e che oggi è morta e sepolta. 

Oggi le serie di qualità vengono dall'estero, e soprattutto dall'Inghilterra. 

La BBC, in particolare, ha deciso, dopo più di quarant’anni dall’ultimo adattamento (in quello uno dei protagonisti era Anthony Hopkins) di rimettere le mani sull'epico Guerra e Pace di Lev Tolstoj. 

La BBC ha coprodotto la serie insieme alla Weinstein Company, trovando l'accordo per la messa in onda con Lifetime, A&E Network e History

La sfida nella sfida è stata quella di una miniserie di sole 5 puntate.  Un'opera davvero improba, per ridurre il fluviale romanzo Tolstojano alla quale si è dedicato lo scrittore Andrew Davies.

Con risultati davvero sorprendenti. 

Le vicende delle cinque famiglie russe durante il periodo di guerra napoleonico sono raccontate con piena padronanza del materiale storico-narrativo e nello stesso tempo con una inevitabile brillantezza sintetica, che non umilia il romanzo. 

Splendido il cast con Lily James nei panni di Natasha, James Norton in quelli Andrei e il bravissimo Paul Dano nei panni di Pierre, oltre a Gillian Anderson, Jim Broadbent e Greta Scacchi. 

La serie è stata girata nei luoghi originari, tra la Russia e la Lituania.  La prova delle scene di Guerra, anch'essa superata con un ampio utilizzo di mezzi e di masse umane. 

Insomma, uno spettacolo per gli occhi sia per coloro che conoscono tutto e che amano questi personaggi da sempre, per essersene innamorati nella loro vita leggendoli nel capolavoro di Tolstoj, sia per il grande pubblico che non ha letto l'originale e che potrà ugualmente apprezzare.

Fabrizio Falconi

25/05/15

Francesi, inglesi, italiani, russi, tedeschi - secondo Tolstoj.





nelle pagine di Guerra e Pace, Tolstoj descrive in una sola riga ciascuno, il carattere nazionale di francesi, inglese, italiani, russi, tedeschi. Credo che ancora oggi sia molto interessante leggere questa pagina.

Pfull era uno di quegli uomini inguaribilmente, immutabilmente sicuri di sé fino al martirio, come possono esserlo soltanto i tedeschi, precisamente perché nei tedeschi la sicurezza di sé è basata su un'idea astratta: la scienza, cioè la presunta conoscenza di una verità assoluta. 

Il francese è sicuro di sé perché si crede irresistibile e affascinante in tutta la sua persona, intellettualmente come fisicamente, per gli uomini come per le donne. 

L'inglese è sicuro di sé perché è cittadino dello Stato del mondo meglio ordinato, e perciò, come inglese, sa sempre quel che deve fare e sa che quanto fa, nella sua qualità d'inglese, è sicuramente ben fatto. 

L'italiano è sicuro di sé perché si agita e dimentica facilmente sé e gli altri. 

Il russo è sicuro di sé proprio perché non sa e non vuol sapere nulla, perché non crede che si possa sapere qualcosa.

Il tedesco è sicuro di sé peggio di tutti, più fermamente di tutti, perché si immagina di conoscere la verità: la scienza che egli stesso ha inventata, ma che per lui è la verità assoluta. 


Lev Tolstoj - Guerra e Pace, Einaudi, Torino, pag. 749.

31/03/10

Enzo Bianchi: La paura è anche degli immigrati.


Finalmente ci siamo lasciati alle spalle i veleni elettorali (altri, temo, ne arriveranno), e mi hanno molto colpito le parole di questa mattina di Massimo Cacciari che spiega l'ondata leghista al Nord, ma non solo a Nord, come fortemente motivata anche dalla paura, e quindi dai temi riguardanti sicurezza e immigrazione.

Su questi stessi temi, e soprattutto sul tema della paura, proprio mentre si votava e si scoprivano i dati, questi dati, parlava Enzo Bianchi, con la sua consueta lucidità, a San Vidal a Venezia. Ecco il resoconto di quel che ha detto, e sul quale forse val la pena di meditare:

Reciprocità. E' questa la chiave. Nei diritti e nei doveri. Nel confronto tra esperienze, storie, culture, stili di vita diversi, nello scambio tra chi abita qui da generazioni e chi vi si insedia solo al termine di un lungo viaggio. Reciprocità, perché no?, anche nelle paure. E' questa la chiave di lettura offerta da Enzo Bianchi, priore della comunità monastica di Bose, sul tema dell'immigrazione, illustrata giovedì scorso a San Vidal, a Venezia, nella conferenza “Ero straniero e mi avete accolto”, promossa da Chorus Cultura.

Reciprocità nel considerare le paure, si diceva, non solo le proprie ma anche quelle degli stranieri. Proprio da qui è partito Enzo Bianchi, dal dato della paura: «Qualunque riflessione vogliamo fare sul tema dell'accoglienza deve tenerne conto».

La migrazione, ha spiegato, «non è un fenomeno nuovo, la novità dei nostri giorni consiste semmai nel fatto che vi è una convergenza simultanea di flussi migratori verso l'Europa da provenienze molto diverse. La complessità del fenomeno provoca interrogativi: perché queste persone vengono da noi, perché sono così numerose, che ne sarà della nostra cultura? Sono interrogativi legittimi».

La paura è fisiologica. La presenza degli stranieri, ha aggiunto il priore, non pone solo interrogativi, ma «desta anche timori e paure, perché il diverso è veramente e radicalmente altro da me, perché era lontano e ora è vicino, perché era sconosciuto e ora si fa conoscere e vuole conoscere. E' fisiologico che la presenza dello straniero ponga noi in questione: proprio perché manca un terreno comune su cui fondare un’intesa e la conoscenza del retroterra da cui proviene, ciò che nasce immediatamente e spontaneamente di fronte allo straniero è la paura. E la paura non va derisa né minimizzata, ma presa sul serio e fronteggiata per capirla e vincerla».

Ma non c'è solo la nostra paura. «Nell’incontro con lo straniero non va messa in conto solo la “mia” paura, quella di chi accoglie, ma anche e forse soprattutto la “sua” paura, di chi arriva in un mondo estraneo, dove non è di casa, un mondo di cui conosce poco o nulla, un mondo che non gli offre alcuna protezione».

I possibili pericoli. Il primo dato, dunque, è la paura. Ma sono due paure a confronto. «E non basta - ha precisato Enzo Bianchi - invocare elementi ideologici, principi religiosi o etici per esorcizzarla: essa va affrontata come presa di consapevolezza della distanza, della diversità, della non conoscenza e, quindi, della non affidabilità. La paura dell’altro è una sensazione paralizzante che va superata, non rimuovendola bensì razionalizzandola. Due sono infatti i rischi nella nostra lotta contro la paura: negarne l’esistenza e quindi assolutizzare la differenza dell’altro, sacralizzare l’altro e rinunciare così alla propria cultura, oppure assolutizzare la propria identità intesa come esclusiva ed escludente, assumendo un atteggiamento difensivo dei propri valori fino a farne un presidio da difendere, anche con la forza, contro ogni minaccia reale o presunta all’identità culturale o religiosa».

L’identità si rinnova con l’incontro. E qui entra in gioco l'identità. «In entrambi i casi si dimentica che l’identità, sia a livello personale che comunitario e sociale, si è formata storicamente e si rinnova quotidianamente nell’incontro, nel confronto, nella relazione con gli altri, i diversi, gli stranieri. L’identità, infatti ,non è statica ma dinamica, in costante divenire, non è monolitica ma plurale: è un tessuto costituito di molti fili e molti colori che si sono intrecciati, spezzati, riannodati a più riprese nel corso della storia. E' ridicolo parlare di radici: se c'è qualcosa che ci distingue dagli altri essere viventi è l'essere senza radici, la capacità di adattarci a qualsiasi habitat. L'identità non va indurita, non va cercata senza e contro gli altri. Perché diventa un fantasma, e ciò porta a ridurre le relazioni sociali alla materialità del dato etnico, dell’omogeneità del sangue, della lingua parlata o della religione praticata, aprendo così la via a forme di politica totalitaria e intollerante. I risorgenti nazionalismi e le tendenze localistiche si accompagnano sempre a spinte xenofobe e razziste che tendono all’esclusione dell’altro e si risolvono in un autismo sociale: una mancanza di ossigeno vitale contrabbandata come nicchia dorata, ma che in realtà diviene un sistema asfittico, in cui avanza la barbarie».

Dato per assodato, dunque, che la paura c'è ma va affrontata, l'altro nodo cruciale sul quale riflettere è la modalità di incontro con gli stranieri, che secondo Enzo Bianchi può essere di tre tipi. «Uno è l'assimilazione, cioè la tendenza ad assimilare gli stranieri nella comunità che li accoglie, ma questo è un rapporto di rifiuto, di esclusione, è un incontro che nega le differenze». Un'altra modalità «è l'inserzione, che risponde alla volontà di vivere uno accanto all'altro conservando le differenze che restano giustapposte. Si vive gli uni accanto agli altri, ma si resta sconosciuti, nell'indifferenza, sia pure pacifica. E' questo - ha osservato il priore di Bose - il rapporto che maggiormente si è attestato in Italia».

La strada è il riconoscimento reciproco. La terza opzione, quella che invece secondo Enzo Bianchi dovrebbe farsi strada, «è quella del riconoscimento reciproco, riconoscere cioè le alterità, le differenze e le somiglianze, in un rapporto di dare e ricevere, senza che l'altro sia ridotto a me. In questo senso va stimolata la partecipazione attiva, accettando le specificità culturali, ma mettendo l'accento sulle somiglianze e soprattutto sull'uguaglianza di diritti e doveri. Reciprocità vuol dire che gli stranieri devono sapere di avere dei doveri, ma occorre anche accompagnarli alla piena cittadinanza, perché siano in posizione paritaria nella società».

Non che questo sia un percorso facile, anzi. «E' lungo e difficile». Richiede, innanzitutto, capacità di autocritica da parte nostra: «Interroghiamoci sulle condizioni che abbiamo creato per ricevere lo straniero, quali sono le nostre relazioni nei suoi confronti, chiediamoci se non siano segnate da discriminazione. Interroghiamoci sulla nostra accoglienza, che non è detto non debba avere dei limiti, sia chiaro. Ci sono dei limiti oggettivi, non si può accogliere tutti, ma questi limiti non devono essere dettati dal nostro egoismo. Occorre uno sforzo per governare i flussi, fatto a livello internazionale».

Un cambio di atteggiamento. Ma è l'atteggiamento che deve cambiare: «Occorre riconoscere l'alterità, l'altro nella sua singolarità specifica, nella sua dignità. Teoricamente il riconoscimento è facile, in realtà tendiamo a guardare l'altro attraverso il prisma della nostra cultura e questo può generare intolleranza. Dobbiamo invece esercitarci a desiderare di ricevere dall'altro, imparare dalla cultura degli altri, senza misurarla con la propria».

Un esercizio che alla base di tutto ha l'ascolto. «Con questo atteggiamento di apertura è possibile mettersi in ascolto. L'altro deve apparire per noi come una chiamata a cui dare risposta. L'ascolto è un sì radicale all'esistenza dell'altro, nell'ascolto reciproco le differenze si contaminano i limiti diventano risorse». Anche perché, è stata la conclusione di Enzo Bianchi, non dobbiamo dimenticare che «aprirci al racconto che l'altro fa di se stesso ci aiuta a comprendere noi stessi».



23/10/09

Riprendiamoci il Tempo !

Visitavo le sale del neo-nato (meritevolissimo) MEI - Museo dell'Emigrazione Italiana, inaugurato oggi al Vittoriano, a Roma, e mi aggiravo pensoso tra le teche dove erano esposte le fotografie ingiallite degli emigranti italiani, poverissimi, i quali sul finire del secolo scorso, e per buona parte del seguente, partirono - in 29 milioni (una cifra spaventosa) - alla ricerca di una vita più dignitosa verso il Nuovo Continente.
.
Guardavo quelle facce di poveri emigranti, leggevo le loro lettere sgrammaticate scritte ai parenti rimasti in Italia, spiavo gli sguardi di quelle carte di identità, e mi dicevo: questi uomini, queste donne hanno veramente vissuto.
.
La loro vita fu impiegata per qualcosa di meritevole - la ricerca della dignità per sè ma soprattutto per la propria famiglia. Questi uomini, queste donne non avevano tempo per domandarsi: "cosa è il tempo ?" "cosa devo fare del mio tempo ?" La domanda che sembra invece essere divenuta il punto di inciampo degli italiani di oggi che non sono più emigranti e che guardano anzi ai nuovi emigranti - ancora più poveri, ancora più diseredati di come eravamo noi - con un misto di fastidio e di insofferenza, quando non con sentimenti di dichiarato razzismo.
.
Il benessere ha portato con sè, nell'Italia di oggi, effetti collaterali imprevisti come una diffusa infelicità. E quel che vedo spesso è che questa infelicità latente, liquida, ambigua, sottesa deriva spesso da un rapporto insofferente, non risolto con il tempo, con il non avere tempo.
.
"Non ho tempo," "mi piacerebbe, ma davvero non ho tempo," "vorrei avere più tempo", sono diventate parole d'ordine dei nostri giorni.
.
Intanto, mentre noi pronunciamo queste parole, il tempo ci sfugge dalle dita.
Il "tempo libero" non è mai stato meno libero. Il tempo "liberato", a quanto pare, non è mai stato più prigioniero, con il nostro consenso, e anche con ogni valida giustificazione che le nostre vite attuali portano e pretendono (come si fa a trovare tempo, se io devo lavorare 8 ore al giorno, stare due ore nel traffico, pensare ai miei figli, ad ogni incombenza spiccia a cui la vita sottopone...).
.
Eppure, nessun tempo sarà mai libero, o davvero liberato, se non troveremo il tempo (fisico, materiale, non soltanto simbolico, spirituale) di guardare il cielo.
.
Dovremmo cercare di evitare di fare come il principe Andrej Bolkonskij, una delle straordinarie figure che Tolstoj mette al centro di 'Guerra e Pace'. E' soltanto durante la battaglia di Austerlitz, ferito gravemente e oramai immobile, sdraiato sul campo di battaglia, che il principe Andrej ha finalmente un'illuminazione vertiginosa guardando il cielo alto e le nubi sul suo capo. E' in quel momento che avviene la prima crisi nella coscienza di Andrej, il quale soltanto allora si rende conto della vanità dei desideri di gloria, provando una improvvisa luminosa pace, che ribalta completamente ogni punto di osservazione precedente riguardo alla vita.
.
Non aspettiamo di non avere più tempo. Ricordiamocene spesso, ricordiamocene sempre. Ricordiamoci di avere tempo per guardare il cielo.
.