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28/06/21

Marco Bechis, il regista di "Garage Olimpo", racconta finalmente in un libro la sua vita e le torture subite in Argentina

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E' un film rimasto nella memoria di molti, quel Garage Olimpo (uno dei principali luoghi in cui agirono indisturbati i macellai del dittatore Videla, a Buenos Aires) che, uscito nel 1999, raccontava le vicende di un gruppo di ragazzi arrestati, torturati e fatti sparire con i famigerati "voli della morte", in Argentina negli anni '70.

Una storia che il regista, Marco Bechis, italo-cileno, aveva vissuto sulla sua pelle, e che finalmente ora ha trovato il coraggio e l'occasione di pubblicare in un libro, appena uscito. 

'Sentivo di essere perduto...ero entrato in una prigione mentale dalla quale era ancora più difficile scappare. Lo psichiatra mi aveva chiesto: Le tue emozioni le tieni da qualche parte, dove? Non emergono''. 

Quando Marco Bechis, di madre cilena e padre italiano, ma cresciuto in Argentina e ormai da 40 anni in Italia (tanto da dire di aver tradito la sua lingua per poter scrivere questo libro in italiano, come per prendere una qualche distanza) torna a Milano, ha la coscienza di quanto profonda e forte sia la ferita nella sua memoria della terribile prigionia e le torture subite al Club Atletico di Buenos Aires, tramutato dalla giunta militare dei generali Videla, Agosti e Massera in un carcere clandestino per prigionieri politici, in cui si diventava 'desaparacidos', perché era praticamente impossibile uscirne vivi. 

Ma Marco ne è uscito, perché per fortuna è 'un pesce piccolo' che non era mai davvero stato un Montoneros e per l'impegno del padre che in Argentina era stato un altissimo dirigente industriale e conserva debiti e amicizie che si muoveranno e avranno successo. 

Ma è una salvezza solo fisica, che i segni restano e soprattutto sono sepolti dai sensi di colpa, dalla vergogna di non aver fatto la stessa fine dei suoi compagni di reclusione, così da sentirsi un traditore: ''Quanto più aumentava il numero delle persone che risultavano scomparse, tanto più aumentava la mia vergogna'', tanto da scrivere: ''La mia vita è stato un costante tentativo di suicidio sventato più volte da altri, più che da me stesso''. 

Bechis, laureato in economia, diverrà uomo di spettacolo e regista di film sulla realtà del 'suo' paese, da 'Alambrado' a 'Hijos-Figli', passando per 'Garage Olimpo' in cui racconta e denuncia la sua esperienza, la realtà del Club Atletico, i cui prigionieri, alla fine, venivano caricati su un aereo e lanciati nell'Atlantico. 

''Mi interessava lavorare per sottrazione e così come non ho mai mostrato la violenza non volevo mostrare la personalità degli aguzzini''. 

E allora nel film non si vede la 'picana', un pungolo elettrico nato per far muovere gli animali al mattatoio e usato per torturare i prigionieri nudi legati a un tavolo conduttore di metallo, ma lo spettatore ne sente forte presenza e violenza. 

In queste pagine, invece, senza indulgere in particolari, c'è tutto ed è anche tirando fuori tutto che ''finalmente sono diventato vittima, scrivendo questo libro, dopo tanti anni vissuti come un traditore sopravvissuto''.

E' la verità delle pagine più terribili e centrali del racconto, che va da quel 19 aprile 1977 in cui fu sequestrato per strada, alla liberazione e poi sino ai nostri giorni, la cui narrazione è scandita dalla cronaca della finale dei Mondiali di calcio 1978 seguita oramai a casa col padre e vinti dall'Argentina con i tre generali allo stadio di Buenos Aires, le cui ''urla di giubilo coprono il massacro in atto''. 

Le pagine più forti restano quelle del ricordo di quando l'autore è chiuso in cella, dove la radio a tutto volume copre le urla dei torturati cui fa contraltare l'assurdo, frequente rumore di una pallina da ping pong, distrazione dei carcerieri, e lui è nudo, con solo le mutande, e perennemente bendato, con la coscienza che nessuno sa dove sia e senza sapere nulla del proprio futuro.

C'è solo l'atroce attesa di interrogatori e torture, col corpo sbattuto su e giù sul tavolo di ferro dalle scosse, specie dopo aver incontrato lì un'amica, che probabilmente è quella che ha fatto il suo nome: 

"Che cosa è successo, che metamorfosi istantanea della sua volontà è avvenuta col contatto elettrico? Come attraversa il corpo l'elettricità? Come modifica la volontà?'' si chiede, mentre la mente non fa che costruirsi percorsi di resistenza, schemi di risposte da dare con l'assurda illusione che accontentino i torturatori, che classicamente si alternano, il buono e il cattivo. 

Quest'ultimo lo rivedrà libero per le strade di Buenos Aires 30 anni dopo, quando Bechis torna a Buenos Aires nel 2010, chiamato dal tribunale argentino come uno dei rarissimi sopravvissuti per testimoniare al processo ai militari e gli aguzzini, in vista del quale ricostruisce i propri ricordi, riportando pure voci e storie di molte altre vittime, così che la necessità personale di fare i conti con quell'esperienza devastante, che è la forza di questo libro, riesce però a farsi esemplare e a documentare e ricostruire tutto, non solo i fatti, ma anche le reazioni, i sentimenti umani.


Il libro di Marco Bechis, intitolato  ''LA SOLITUDINE DEL SOVVERSIVO'' è in uscita da GUANDA editore (pp. 348 - 18,00 euro)



13/06/18

Il Libro del Giorno: "Il Peso del Mondo" di Peter Handke.


Nella splendida traduzione di Raoul Precht del 1981, uno dei libri più famosi della copiosa produzione di Peter Handke, nato a Graffen in Austria e oggi considerato unanimemente uno dei massimi scrittori viventi. 

Scritto nel 1977, nel giro di anni in cui Handke produsse alcuni capolavori come Pomeriggio di uno scrittore, Falso Movimento (sceneggiatura dell'omonimo film di Wim Wenders), La donna mancina, Prima del Calcio di Rigore, Il peso del mondo è una sorta di diario intimo o di appunti scritto tra il 1975 e il 1977 quando Handke si era già trasferito a vivere a Parigi. Anche se lo stesso scrittore, nella premessa al testo, usa il termine reportage.

Il reportage di una coscienza e di una coscienza sensibile, che registra cose minime: le variazioni impercettibili del cielo o delle nuvole, o delle foglie su un ramo, con la stessa minuzia e precisione da entomologo con cui segna i movimenti impercettibili del cuore e dei pensieri ad esso collegati. 

Le letture preferite, gli scarti amorosi con una donna, gli atteggiamenti della piccola figlia che cresce, le insofferenze e le idiosincrasie nei confronti delle piccole e grandi meschinità del mondo, gli incessanti andirivieni nella città, l'osservazione acuta dei passanti, degli avventori, degli estranei incontrati nel corso di una giornata, l'autoanalisi dei propri moti di reazione, l'indagine precisa sulla gioia e sulla pena del vivere. 

Il Peso del Mondo è come l'affaccio sul cuore di un vivente, confuso dalla realtà che vive, diventata sempre meno intellegibile, sempre più confusa, sempre più disorientante, eppure se possibile ancora più vibrante e viva. 

Attraverso la calma inseguita delle ore - Il massimo: non raggiungere la coscienza di se stessi attraverso la collera e l'aggressività, e nemmeno umiliandosi ecc., ma con calma, lo scopo: coscienza di se stesso nella calma - e della contemplazione che è indotta dalla stanchezza (Il Saggio sulla stanchezza è uno dei più bei testi scritti da Handke negli anni seguenti) e dal peso del mondo, che non può essere ignorato, e va attraversato e sopportato vivendo, di tanto in tanto, senza freni.

Un testo da riscoprire e da riapprezzare maggiormente in questi tempi confusi e poveri. 



05/06/15

"Vivo nel bosco: ascolto gli alberi che sussurrano " - Intervista a Peter Handke di Alessandra Iadicicco.




Questa è la bellissima intervista realizzata da Alessandra Iadicicco (sua traduttrice per l'italiano) a Peter Handke, nella casa dello scrittore a Chaville, nei sobborghi di Parigi, pubblicata sull'ultimo numero de La Lettura del Corriere della Sera. 

«Ma sì, venga da queste parti a maggio, quando al margine del bosco, tra l’erba o sotto l’edera, vale la pena di scoprire i prugnoli di San Giorgio». L’invito di Peter Handke era arrivato per posta, dopo uno scambio di lettere e di osservazioni sul tradurre, dopo la richiesta di un incontro e l’invio di qualche immagine di certi trofei. Gli avevo spedito le foto dei porcini raccolti l’estate scorsa in Alto Adige, nei giorni in cui lavoravo alla traduzione del suo Saggio sul cercatore di funghi: un racconto fiabesco, la storia di un’incredibile avventura uscita in questi giorni da Guanda. Lui aveva risposto con la foto di un gigantesco piatto di funghi da lui stesso cucinati per Capodanno.

Handke ha un sense of humour che contraddice l’immagine, che in genere gli si attribuisce, di quell’orso eremita, schivo, furente, allergico ai giornalisti… Come dargli torto? Certe sue posizioni sono state travisate. Come nel caso della ex Jugoslavia ai tempi della guerra nei Balcani. Sostenne la popolazione jugoslava, sensibile «alla loro tragedia — disse —, alla loro situazione senza speranza». Si schierò per la Serbia, si scagliò contro i bombardamenti della Nato lanciati su migliaia di civili. Pianse la sorte dei bambini vittime innocenti del conflitto, per i quali l’anno scorso ha devoluto gli oltre 300 mila euro del Premio Ibsen. E, da certa stampa, fu etichettato come fascista, un sostenitore del boia Miloševic o addirittura del sanguinario generale Mladic. Ora, proprio in nome «della grande amicizia e della simpatia dimostrata da Handke verso la popolazione serba», Belgrado gli ha conferito pochi giorni fa la cittadinanza onoraria.

Dopo una vita avventurosa, abita da anni in solitudine nel sobborgo parigino di Chaville, in una casa che, cinta da un muro e dal verde, dalla strada non si scorge nemmeno. Ma il gesto con cui apre il cancello del giardino — per mostrare orgoglioso i due meli, il cotogno non ancora del tutto sfiorito, il giovane pero, il grande cedro, il noce, il castagno… è lui in persona a coltivare le piante — non potrebbe essere più ospitale.

Lei stesso ha tradotto molti libri, di autori antichi e moderni. Tradurre le procura gioia?
«Ho paura quando scrivo, sempre, ancora adesso. La scrittura propria è sempre pericolosa. Ma quando traduco non ho paura. Semmai ho problemi, ma i problemi si possono risolvere. Scrivendo invece… Scrivere non è normale come sembra per la maggior parte degli scrittori oggi. Così la letteratura non è più la grande spedizione che potrebbe essere. Tanti oggi trovano normale scrivere. Forse è naturale, ma non è normale. Può diventare naturale man mano che si scrive, ma l’inizio non è naturale: l’inizio è un sacrilegio».

Perché?

«Non lo so. Non posso sempre dire perché… Però è una necessità vitale. Senza scrivere non potrei esistere. Scrivere è sano, indica la via verso la salute. Tradurre invece è vampiresco. Ti divora l’anima, non la nutre a sufficienza. Anche quando si ama molto un libro, o si traduce un autore che si sente affine. Tradurre non basta. Però una volta tradurre fu per me una salvezza».

Quando? E la salvò da che cosa?

«Fu la prima traduzione, dall’inglese, una lingua che non amo parlare. Di un autore americano, Walker Percy, tradussi The Moviegoer, Der Kinogeher, un personaggio che mi somiglia. Era il 1979, ero appena tornato in Austria, ma non volevo tornare in patria. Per anni avevo vissuto all’estero, prima in Germania, poi a Parigi. Mi trasferii nel ’79 a Salisburgo: volevo che mia figlia Amina frequentasse il ginnasio in tedesco. Ma allora la patria per me era terra straniera. Fu la traduzione a riportarmi a casa, a rendermi di nuovo familiare il mio Paese. La lingua e, parallelamente, il paesaggio attorno a Salisburgo mi indicarono la strada. Lingua e paesaggio: una fragile patria… La lingua che usai per tradurre mi riportò al mio posto. Non la scrittura. Perché la scrittura, lo ripeto, è una patria pericolosa…».

Tradurre permette di stringere legami attraverso confini che oggi, ancorché invisibili, sono più che mai soffocanti…

«Già… Nel frattempo gli antichi confini — politici, economici — sono scomparsi. Eppure i confini culturali sono molto più forti. I libri — non parlo di libri veri — sono scritti dappertutto allo stesso modo: in America, Russia, Cina… Questa indifferenza è peggiore di qualsiasi confine, dei confini che un tempo mi erano cari. Le traduzioni, poi, sono sempre sostenute dai ministeri, finanziate dagli istituti di cultura. Si vuole promuovere la letteratura internazionale. Ma io sento la mancanza di una letteratura mondiale, di quella che Goethe chiamava la Weltliteratur, che nasce dall’eterno scambio tra i popoli attraverso i confini e i linguaggi. Non potrà mai scomparire, ma non sai dove scorre. È come un fiume carsico che fluisce al di sotto del terreno e devi accostare l’orecchio alle rocce calcaree per capire dove passa e dove verrà alla luce».

Confini lei ne ha attraversati tanti, non solo traducendo. Ha fatto il giro del mondo, ha cambiato vari i luoghi di residenza.

«Ma ora di qui non mi muovo più. Vivo a Chaville da 25 anni. E difendo il mio posto, difendo il luogo: la mia casa, il giardino…».


Sarà perché lei è uno scrittore di luoghi...

«Sarà perché soffro da sempre per la mancanza di un luogo, perché dall’infanzia conosco il dolore dello sradicamento. Così anche un luogo episodico è sempre stato come una grazia per me. Un posto però deve diventare epico: si deve raccontarlo, trasformarlo nel personaggio di una storia, far sì che possa apparire per tutti».

E come vive il trascorrere del tempo? Ha l’aria di un uomo che non invecchia. Come «il cercatore di funghi»: da bambino non voleva sapere nulla del suo futuro. Da adulto, avvocato di fama internazionale, nell’intimo non si è mai spinto oltre i margini del bosco.

«È così: decisivo per me è rimasto il mormorare degli alberi sul margine del bosco. Se mi sfuggisse quel sussurro, se non riuscissi più a coglierlo, mi direi: hai perso tempo, hai mancato il momento. Questo è il tempo per me. Non il tempo politico. Rifiuto di credere che il tempo politico sia il mio tempo, il mio destino. Gli sono sfuggito. Sono un profugo del mio tempo. E non mi volto indietro, come la moglie di Lot, a guardare verso la politica. Mi trasformerei in una colonna di pietra, con la quale non si può fare nulla. No, il tempo per me è un altro. Anche tutte le mie spedizioni libresche mi portano in un altro tempo. L’altro tempo è, credo, un Dio buono, l’unico Dio che io abbia mai visto. E anzi l’ho sempre visto come una donna una dea: die Göttin Zeit… La Dea Tempo mi ha sempre mostrato un volto femminile».

E la sua scrittura è senza tempo, fuori dal tempo, inattuale? Nel «Saggio sul cercatore di funghi» scrive: «Finché questa flora selvatica resisterà all’allevamento, alla coltura, fino ad allora l’andar per funghi resterà l’avventura della resistenza! Una forma di eternità». 

«Però non sono solo i funghi… Voglio dire. Quando si dice di un libro che è attuale io rispondo: allora non mi interessa. I libri non hanno niente a che fare con l’attualità. Attualità però è una bellissima parola. Allude all’azione, alla vita. Però a me piace riferirmi a un’altra attualità. Voglio dire, non esisterei senza “il mondo delle notizie”. Quel mondo però contribuisce a darmi l’impulso e l’energia a pensare ex negativo qualcos’altro. In questo senso ha ragione chi dice di me che sono uno scrittore utopico. Perfino nei miei diari entra il cosiddetto mondo dell’attualità e quel che mi accade attorno. L’altro giorno, ad esempio, c’era sul treno una coppia di anziani accompagnati da due giovani badanti romeni. La scena si svolgeva in silenzio, gli anziani erano muti, come i loro accompagnatori. Io però ho immaginato che i quattro intavolassero una singolare conversazione. È invenzione, il che non significa fantasia arbitraria, vuol dire da quella che è l’“attualità attuale”, fantasticare su una attualità eterna».

I suoi libri, le traduzioni, i saggi, i diari, sono tutti manoscritti. La sua scrittura è riprodotta sulla copertina delle edizioni originali… 

«Anche questo segna un tempo diverso. Da oltre trent’anni scrivo con la matita. Ho cominciato a farlo per via dei viaggi. Spostandomi da un Paese all’altro, le lettere sulla tastiera della macchina per scrivere erano in un ordine diverso. Questo mi distraeva. Mi irritavo, mi arrabbiavo: non sono tanto saldo di nervi… Dovevo cercare il tasto giusto e la fantasia, la visione interiore era minacciata — no, esagero — era disturbata. Così ho provato a scrivere a mano. Funzionava! Fu una sorpresa. Ne è sorto un nuovo ritmo, anzi, un’altra Folge la chiama Goethe, un’altra sequenza: in questo senso sì, la mia è una scrittura inattuale. Eppure ci sono un paio di persone che mi leggono. Però mi manca la scrittura epica. L’avventura del cercatore di funghi è stata l’ultima».

Come trascorre le sue giornate da solo qui

«La mattina leggo, annoto quel che è accaduto il giorno prima, vado nel bosco, di solito verso mezzogiorno, quando tutti sono a tavola. D’inverno nel pomeriggio vado al cinema, a Parigi o a Versailles. Film ne vedo tantissimi, anche quelli brutti. Comunque il cinema è stimolante. Lo stesso non vale per i libri. Un brutto libro provoca un’irritazione sterile e cattiva. Il cinema, però, con tutte le sue potenzialità, non potrà mai colmare il posto della letteratura, che al momento è vuoto. Peccato».

intervista realizzata da Alessandra Iadicicco (sua traduttrice per l'italiano) a Peter Handke, nella casa dello scrittore a Chaville, nei sobborghi di Parigi, pubblicata sull'ultimo numero de La Lettura del Corriere della Sera. 


La casa di Peter Handke a Chaville

14/06/14

Libri: Guanda rilancia Handke, nuove opere e riedizioni.



Guanda rilancia le opere di PeterHandke e ha acquisito i diritti dei suoi ultimi libri. 

Arriva nelle librerie italiane il 19 giugno Saggio sul luogo tranquillo, una riflessione dello scrittore austriaco sul luogo più appartato della casa, dove si può stare lontani dai clamori del mondo.



Contemporaneamente Guanda propone, in nuova edizione, due dei titoli più significativi dello scrittore austriaco: Il peso del mondo e Storie del dormiveglia.

Inoltre Guanda ha acquisito, per una pubblicazione nella primavera 2015, il libro più recente dell'autore, Versuch uber den Pilznarren (Saggio sul raccoglitore di funghi).

Di Peter Handke, oggi uno dei maggiori scrittori di lingua tedesca, verrà anche riproposto entro il 2015 uno dei titoli più importanti della backlist, Prima del calcio di rigore.