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12/08/22

Quando eravamo free-lance : una parola oggi scomparsa

 

Fabrizio Falconi a ventisette anni 

Per molti anni ho fatto (o sono stato) un free-lance e solo ora mi accorgo che questa parola ormai non la usa più nessuno.

Il motivo è che l'instabilità lavorativa è diventata la norma.

Per noi che la vivevamo allora era una splendida opportunità.

La lente a ritroso di quello che allora era il futuro ci ha mostrato quanto fortunati fummo all'epoca, quando il lavoro c'era, accadeva spesso che premiasse i talentuosi, ed era anche ben retribuito.

Non pensavamo alle garanzie, alla pensione, al domani.

Ci buttavamo nella mischia, e si passava attraverso mille collaborazioni e cose ed esperienze assai diverse, che a volte stordivano e inebriavano. E che era poi bello raccontare.

Ci si innamorava anche, e non solo del lavoro.

Si imparava, più che altro, da chi era più bravo.

Poi certo anche allora era pieno di quelli che conoscevano bene e praticavano silenziosamente mille scorciatoie privilegiate e di quelli che tenevano ben serrate le porte a chi non aveva patentini di casta da esibire.

Ma anche di questo ce ne fregavamo.

La più importante medaglia da portare a casa era il lavoro che si era fatto, a tuo padre che sgobbava in officina da quando aveva 16 anni e a tua madre che hai visto piegata a cucire, in ogni giorno e ogni stagione, dalle 8 di mattina a mezzanotte, sempre.

Fabrizio Falconi 

16/06/22

*Quando Goffredo Parise fu inviato nella "sporca guerra" in Vietnam - La dura polemica con Noam Chomsky*

 


Il grande Goffredo Parise fu, come tutti sanno, un grande inviato di guerra (oltre ad essere un grande scrittore).
La prima volta che partì per il Vietnam in guerra, fu tra l’aprile e il maggio del ’67. Scrisse quattro lunghi articoli con le prime corrispondenze, comparsi su L’Espresso, quattro pezzi che Giangiacomo Feltrinelli mandò in libreria qualche mese dopo in un piccolo volume intitolato "Due, tre cose sul Vietnam".
Tornò ad Hanoi a distanza di un anno, quando una importante rivista sovietica, Novij Mir, avendo tradotto e pubblicato i reportage dell’Espresso, che erano molto piaciuti al governo di Hanoi, decise di commissionargli una corrispondenza. Una visita di venti giorni “molto ufficiale”, ricorderà anni dopo, durante la quale strinse contatti con i soldati comunisti del Laos.
Ancora un anno, e Parise è di nuovo in visita nei territori del Nord Vietnam. Fa un giro in Cambogia, resta qualche giorno nel Laos, poi salta a bordo dell’aereo della Commissione internazionale di controllo che fa la spola tra Saigon, Phnom Penh, Vientiane, Hanoi.
Il mezzo è appena decollato verso un cielo chiaro, sopra macchie di boschi verde cupo, quando Parise si accorge che il suo vicino di posto è Noam Chomsky. Scambiano qualche parola, Parise scopre che anche a lui è arrivato il medesimo invito del governo di Hanoi. «Ha letto della presenza di combattenti vietnamiti in Laos e Cambogia? Una ingerenza massiccia e ingiustificata nei loro affari, a quanto pare…», dice Parise, sporgendosi un po’ verso il professore. Dopo quelle parole si spalanca come il vuoto di un salto altissimo, Chomsky fissa gli arabeschi sottili di ghiaccio sul finestrino. «Propaganda americana», dice, prima di chiedere all’hostess quanto manchi all’atterraggio. La donna sorride, dice qualcosa in francese. «Hanoi è un luogo libero e democratico», taglia corto Chomsky, prima di restare in silenzio per il resto del viaggio.
Fu l'inizio di una schermaglia molto dura, in cui sostanzialmente, nei mesi seguenti, Chomsky, americano, accusò apertamente Parise di faziosità e di filoamericanismo. Mentre dal canto suo Parise disse che Chomsky negava con ogni evidenza l'ingerenza sovietica nella guerra.
Freddamente, anni dopo, Parise così ricordò la vicenda:
«Io feci il viaggio con Noam Chomsky che rividi dopo pochi giorni e mi assicurò che la facoltà di Linguistica dell’Università di Hanoi era di altissimo livello. Era antipatico e supponente e anni più tardi ebbi con lui una polemica per le sue bugie. Chomsky è uno che legge anche le virgole di un giornale turco, se parla di lui, e polemizza. In realtà egli scrisse per la New York Review of Books dei reportage vergognosi su Vietnam, Cambogia e Laos. Così fecero i suoi soci tipo Susan Sontag, Mary McCarthy e altri americani bugiardi e troppo snob».

25/02/22

Guerra in Ucraina: Le 10 frasi profetiche di Anna Politkovskaja sulla Russia e su Putin

 



Ora che la Guerra in Ucraina è stata dichiarata e l'esercito russo ha invaso quel paese, con conseguenze che al momento non sono prevedibili, è utile ricordare Anna Politkovskaja,  nata a New York, il 30 agosto 1958 e assassinata a Mosca, il 7 ottobre 2006).

Una grande giornalista e una grande scrittrice divenuta una martire della libertà di espressione e di informazione. 

Politkovskaja fu ritrovata morta nell'ascensore del suo palazzo a Mosca il 7 ottobre 2006. La polizia rinvenne accanto al cadavere una pistola Makarov con quattro bossoli ed uno dei proiettili sparati l'aveva colpita alla testa. Si seguì quindi la pista di un omicidio premeditato operato da un killer a contratto. 

Il giorno successivo la polizia russa sequestrò il suo computer e tutto il materiale dell'inchiesta che la giornalista stava compiendo.

Particolarmente attiva sul fronte dei diritti umani, Politkovskaja è nota principalmente per i suoi reportage sulla seconda guerra cecena e per le sue aspre critiche contro le forze armate e il governo russi sotto la presidenza di Vladimir Putin, accusati del mancato rispetto dei diritti civili e dello stato di diritto. 

Vale la pena rileggere 10 sue frasi, tratte dai suoi scritti, che oggi appaiono quanto mai profetiche:

1. L'unico dovere di un giornalista è scrivere quello che vede.

2. Io vedo tutto. Questo è il mio problema.

3. La Cecenia è lo strumento con cui Putin ha conquistato il Cremlino e che lo ha spinto a cercare di soffocare la società civile e la libertà di espressione.

4. La Russia sta per precipitare in un abisso, scavato da Putin e dalla sua miopia politica.

5.  (A proposito delle fonti giornalistiche) Ormai possiamo incontrarci solo in segreto perché sono considerata una nemica impossibile da “rieducare”.

6. Impedire a una persona che fa il suo lavoro con passione di raccontare il mondo che la circonda è un’impresa impossibile.

7. (Sulla guerra in Cecenia) È una guerra terribile; medievale, letteralmente, anche se la si combatte mentre il Ventesimo secolo scivola nel Ventunesimo, per giunta in Europa.

8. Il motivo è semplice: diventato presidente Putin - figlio del più nefasto tra i servizi segreti del Paese - non ha saputo estirpare il tenente colonnello del KGB che vive in lui, e pertanto insiste nel voler raddrizzare i propri connazionali amanti della libertà, come ha sempre fatto nel corso della sua precedente professione.

9. Con il presidente Putin non riusciremo a dare forma alla nostra democrazia, torneremo solo al passato. Non sono ottimista in questo senso e quindi il mio libro è pessimista. Non ho più speranza nella mia anima. Solo un cambio di leadership potrebbe consentirmi di sperare.

10. Certe volte, le persone pagano con la vita il fatto di dire ad alta voce ciò che pensano.

Tristemente profetico, quanto mai oggi.

Fabrizio Falconi - 2022 

29/11/21

La lettera di Saskia a suo padre Tiziano Terzani

 



Rileggendo i meravigliosi diari di Tiziano Terzani, che descrivono la sua vita avventurosa e incredibile, e i suoi moltissimi tormenti interiori, si scopre come il grande giornalista, sempre in giro per il mondo, accenni spesso alle lettere (spedite prima per fax, poi per email) della figlia Saskia. Terzani dalla moglie Angela Staude, ebbe due figli, Fosco e Saskia. Nelle pagine dei diari, Terzani racconta quanto gli facesse piacere ricevere quei messaggi, a volte risponde, a volte commenta le notizie ricevute. I testi, però, non sono riportati. 
In una intervista di qualche anno fa a Vanity Fair, Saskia ha ritrovato un fax, che inviò al padre da Hong Kong, in occasione della morte della nonna Lina, la madre di Tiziano. È datato 24 novembre 1996, all’epoca lei aveva 25 anni.
La Elvie di cui si parla nella lettera è l’amatissima filippina, che ha vissuto con la famiglia dal 1983 fino alla pensione, nel 2005.
E' assai interessante leggere questa lettera che descrive un frammento intimo della vita di Terzani, della piccola grande epopea della sua famiglia, profondamente radicata nella vita del borgo di Orsigna, in Toscana, nel quale Terzani si ritirò nell'ultimo periodo della sua esistenza, lasciando testimonianza nei suoi ultimi bellissimi libri.

Carissimo babbo, carissima mamma,
la Elvie mi ha appena telefonato per dirmi che la nonna si è spenta. Le emozioni di questo momento sono tante, forti, indescrivibili, quanto indecifrabili.
Un passaggio come il suo non lascia perplessità o sgomento profondo. La Nonna nella sua estrema fragilità fisica e apparente lontananza mentale, ha gestito la sua uscita di scena con la massima dignità e calibrazione. Non c’è stata una sbavatura.
Seduta eretta nel suo salotto a Firenze dove ha vissuto con l’uomo che ha amato, dove ha fatto nascere suo figlio, dove è diventata donna, e poi madre, nonna e saggia, si è presa il tempo che ha voluto e poi, nel momento giusto, lo ha lasciato andare.
Non ha mai manifestato né la sofferenza né la paura – conosceva i limiti di sopportazione del suo carattere – e così si è lasciata appassire per attutire il travaglio dell’ultima ora.

Con questo finale sereno ed elegante non solo dà un senso al lungo periodo di lento distanziamento, ma chiude in bellezza. Non più penseremo al suo indebolirsi come un segno della sua graduale perdita di controllo. Ci lascia invece un ricordo di una vita completa, non sfilaccicata in fondo.
La presenza della Elvie al suo fianco è stata fondamentale. Era la sua custode – dotata di tanta pazienza e soprattutto di un fiuto per i ritmi della vita che diventano i ritmi della morte.
Ha seguito la nonna passo passo, «sentendo» con lei le voci dei suoi parenti defunti lontani che la chiamavano, accudendo a ogni suo bisogno.

Non c’è miglior ultimo regalo che uno possa fare a un’altra persona. La nonna si è sicuramente sentita accompagnata lungo questo misteriosa e magica strada che è di tutti ma che nessuno conosce.
Per tutte queste ragioni la notizia di stasera mi ha trasmesso uno strano senso di tranquillità. Non sembra per niente la parola adatta, e comunque nessuna parola può comunicare la sensazione che mi sento aleggiare intorno e dentro.
Sento la pace ma anche un vuoto. È come essere in una grande stanza spoglia e sentire una porta che finora era socchiusa, chiudersi. Lascia l’eco, ma anche quella si affievolisce, e poi non sai più se la senti ancora o se è rimasta semplicemente sospesa nella tua mente.

La nonna se n’è andata e con lei sembrano di un tratto allontanarsi anche tutti i miei ricordi d’infanzia, delle estati che passavamo, felici, con lei e il nonno. Sembra allontanarsi tutta la mia infanzia italiana, quella che sognavamo dai Paesi lontani, e che era composta di poche cose – l’Orsigna, le passeggiate con lo zaino in paese, le polpettine, i letti a castello – e a ognuna di queste si ricollegavano il nonno e la nonna. Lei era rimasta come il recipiente tangibile di questi ricordi. Ne era stata la garante e così la sua presenza ce li manteneva vivi, anche attraverso le diverse età, e anche attraverso l’aggiungersi di nuovi ricordi. L’Orsigna sarà diversa senza la nonnina.

Però non c’è verso di dimenticarla. Me la ricorderò nell’immagine con la quale ha voluto lasciarci: A capotavola, con la sua pelle sempre morbida, i suoi bei capelli bianchi e vaporosi, e quell’espressione che di tanto in tanto s’illuminava di un sorriso e di una scherzosa strizzata d’occhio. Addio Nonna.



Una foto giovanile di Tiziano Terzani, in barca in Asia con i figli piccoli, Folco e Saskia


03/07/21

Libro del Giorno: "Taccuini del deserto - Istruzioni per la fine dei tempi" di Ben Ehrenreich

 


Il disastro è già avvenuto… È accaduto così tanto tempo fa che ce ne siamo dimenticati, l’abbiamo rimosso, tenuto lontano dalla nostra memoria collettiva. La civilizzazione, come la conosciamo, non è una conquista ma una tragica sconfitta. La maggior parte di quella che consideriamo storia è fondata su una catastrofe che la concrezione degli anni ha solo peggiorato. Ma ciò significa anche che non siamo condannati a questo, che esistono altri modi di vivere, che abbiamo da perdere molto meno di quanto pensassimo, e da imparare ancora un sacco di cose”.

Così scrive Ben Ehrenreich, americano, che scrive regolarmente per «The Nation» e collabora con varie riviste internazionali quali «Harper’s Magazine», «The New York Times Magazine», e «The London Review of Books», autore inoltre di due romanzi e di un libro di saggistica, "The Way to the Spring: Life and Death in Palestine" basato sulle sue esperienze di reporter in Cisgiordania.

Taccuini del deserto, pubblicato da Atlantide, nasce da un lungo soggiorno dell’autore nel deserto californiano del Mojave e da lì, luogo dove tutto inizia e finisce, trae uno sguardo inedito e assolutamente affascinante su quanto l’umanità sta vivendo in questo momento storico “in cui tutto, compreso il tempo, sembra sull’orlo del collasso”: una crisi irreversibile e sempre più profonda alla quale sembra non esserci rimedio se non la fine della nostra civiltà. 

E proprio dal deserto, simbolo al tempo stesso di morte e di trascendenza, che “ti fa arretrare e mette l’eternità in primo piano” Ben Ehrenreich prende le mosse per riflettere su cosa significhi l’idea di “fine dei tempi” non solo per la nostra civiltà ma anche per quelle che ci hanno preceduto. 

Come affrontare dunque l’Apocalisse ora che il tempo, suggerisce l’autore, sembra essersi annodato su se stesso? E cosa ci insegna la fine di intere civilizzazioni quali per esempio quella dell’antico Egitto e dei Maya? 

Passando dalla mitologia alla scienza, dalla storia delle religioni alla politica, dalla cosmologia all’antropologia e al racconto autobiografico, Taccuini del deserto affronta il senso più profondo e riposto dell’essere vivi qui e oggi, sospesi in un tempo di assoluta incertezza, ma che ci pone problemi e domande non troppo dissimili da quelli che altre civiltà prima di noi hanno affrontato, sopravvivendo in modi nuovi oppure scomparendo per sempre.


Ben Ehrenreich

Taccuini del deserto 

Altantide, 2021 

pp. 362, euro 18.50 


04/08/20

100 anni fa nasceva Enzo Biagi, un testimone del tempo. Le celebrazioni.


'Testimone del tempo', autore di oltre ottanta libri e di interviste che hanno scritto la storia del '900, inventore del primo rotocalco televisivo, ma anche "il primo direttore di tg ad affidare la conduzione a un giornalista, o a convincere l'allora direttore generale Bernabei a consentire alle troupe di alloggiare negli stessi hotel e a mangiare negli stessi ristoranti dei giornalisti: un modo per scambiarsi le idee, sentirsi piu' squadra, velocizzare i servizi". 

E ancora, "il cronista che ha rivoluzionato il linguaggio televisivo: senza Linea diretta, senza Il fatto, forse Report e tanti altri programmi di inchiesta non ci sarebbero stati, o avrebbero avuto un volto diverso"

Loris Mazzetti e' convinto che "raccontare il suo lavoro" sia il modo migliore per ricordare Enzo Biagi a 100 anni dalla nascita, il 9 agosto 1920 a Lizzano in Belvedere, in localita' Pianaccio

E se il paesino in provincia di Bologna si prepara a celebrare il centenario aprendo, proprio il 9 agosto, il ristrutturato museo-centro di documentazione Enzo Biagi e una mostra fotografica, presentando il francobollo dedicato al giornalista e inaugurando, sempre a Pianaccio, 'Via Enzo Biagi', in tv l'omaggio al giornalista - morto a Milano il 6 novembre 2007 - parte su Rai3 l'8 agosto in seconda serata con 'La mia virgola. Enzo Biagi alla scoperta del mondo', il documentario di Matteo Parisini che ripercorre la vita e la carriera di Biagi attraverso le grandi interviste, i programmi tv, i documentari. 

Domenica 9 agosto, alle 13, sempre su Rai3, la replica di 'Biagi e Benigni. La strana coppia', lo speciale curato dallo stesso Mazzetti per la serie 'Per Enzo Biagi: le grandi interviste': in primo piano, il rapporto di amicizia e di stima tra i due, dal 1976, quando Biagi comincio' a raccontare Benigni per la carta stampata, al 1985, primo incontro di fronte alla telecamere di Linea diretta, fino all'intervista al Fatto del 2001, prima dell'editto bulgaro di Berlusconi che nel 2002 costo' al giornalista l'allontanamento dalla Rai. 

Alle 18, ancora su Rai3, viene riproposto 'La mia virgola', mentre in seconda serata su Rai1 lo Speciale Tg1, a cura di Daniele Valentini, e' dedicato ai 100 anni di Biagi. 

"Dal 2017, quando sono tornato a Rai3 - racconta ancora all'ANSA Mazzetti, storico collaboratore di Biagi, autore, regista, scrittore, firma del Fatto quotidiano - ho realizzato 31 speciali su Enzo, a partire dai dieci anni dalla morte, passando per Cara Italia, Giro del mondo, le Grandi interviste. Mi e' sembrato il modo giusto di chiudere una storia che ha visto una grande battaglia e un unico vincitore della guerra: Biagi. E mi piace ricordare che quando nel 2007, qualche mese prima di morire, ritorno' sugli schermi Rai con RT, dimostro' di essere rimasto se stesso dicendo: 'Scusate, sono tanto contento di rivedervi. E confesso che sono anche commosso. Ma c'e' stato qualche inconveniente tecnico che ci ha impedito di continuare il nostro lavoro. L'intervallo e' durato cinque anni. Mi aveva avvolto la nebbia della politica'. Solo poche parole, senza polemica, perche' c'erano i fatti da raccontare"

Un esempio "ineguagliabile di stile, sobrieta', ma anche fermezza, capacita' di aprire 'tutte le porte'. Penso ai colloqui con Ali Agca, con Gheddafi, Fava, Dalla Chiesa. Penso al serial killer Gianfranco Stevanin che inizio' l'intervista negando le sue responsabilita' e la fini' chiedendo scusa ai familiari delle vittime. O al lampo nello sguardo di Francesca Mambro - ricorda ancora Mazzetti - quando Enzo le chiedeva conto dell"esecuzione' di un carabiniere. 

Chi intervisterebbe oggi? Donald Trump, con la stessa passione che lo ha spinto sempre a fare le domande decisive". "Ho un solo rammarico - conclude -: forse in questi anni non e' stato fatto abbastanza, e penso in particolare alla carta stampata - per Biagi e per tutto quello che ha dato ai lettori, agli spettatori e alla storia del giornalismo". 

29/10/18

La ridicolizzazione della realtà. Un interessante intervento di Caterina Serra




For fun, il potere della comodità 

Idiocracy, film di Mike Judge del 2006, comincia così, con un uomo che si mette orizzontale dentro una bara e aspetta ibernato.

L’azione di cui è protagonista è un’azione passiva.

All’interno di un programma militare segreto scelgono lui, mediocre, semplice, con un quoziente intellettivo che un mondo di intelligenti definisce da idioti.

Scelgono anche una donna, una prostituta, (tralascio il dettaglio Cristo e Maddalena eroi di un altro mondo e la necessità narrativa di una sexworker). Ma il messia-capro è anche qui maschio, anche lui chiamato al miracolo.

Il futuro in cui i due si risvegliano è un tempo in cui essere intelligenti non funziona più, sempre che avesse mai funzionato in un passato competitivo efficientista.

Ammutoliti tutti gli idealisti, paralizzati i più sensibili, morti di fame gli intelligenti senza fini di lucro, suicidati quelli che Mark Fischer chiama i malati di depressione di massa, colpiti dal morbo della nullità – se non sei diventato nessuno è colpa tua, la società capitalistica ti avrebbe accolto a braccia aperte se solo avessi dimostrato di volere uscire dalla tua miseria, di classe, di sesso, di razza.

Il mondo in cui si risvegliano è sciatto, abbruttito, impigrito, ipnotizzato tutto il giorno davanti a un video idiota che distrae, rincoglionisce, appiattisce tutto per non impegnare l’audience che è diventata tutta deficiente.

Tra cumuli di immondizie dentro e fuori casa, tra facce spente instupidite, la bocca piena di cibo industriale e di risate davanti a una tv finta di reality, un cinema con l’immagine fissa di un culo gigante, o dentro un parlamento stile show in cui il premier è un omone seminudo ignorante e aggressivo in piedi su uno scranno sponsorizzato da banche e multinazionali, kalashnikov in pugno a ogni mugugno di platea.

Insomma, un mondo non tanti anni luce dal nostro (premier o presidente che sia). Un mondo in cui qualcuno bravo con l’ottundimento di massa ha convertito l’acqua in Gatorade, niente vino questa volta, in cui non cresce più una singola pianta perché l’acqua potabile è finita nel cesso – è gratis, cioè, per la ragione sbagliata – e la gente senza un solo moto di dissenso beve tutto come da una fonte sacra.

Di nuovo, non proprio anni luce lontano da qui, un mondo che dalla tv al parlamento al tinello conosce e ama il ridicolo, la ridicolizzazione della realtà.

Come accade in certi film di Hollywood, Idiocracy ironizza di un mondo devastato dal capitalismo consumista, e quindi di noi.

Siamo seduti, guardiamo la tv spazzatura che sta guardando il protagonista, vediamo la spazzatura che produce mangiando guardando la tv che produciamo anche noi, seppur differenziata, in un paese di idioti che ridono governato da idioti che ridono.

Cosa vediamo e cosa ci diverte?

Vediamo una proiezione di quello che saremo o che siamo, il mondo capitalista com’è nelle sue rappresentazioni tipiche e semplificate, desiderio, consumo, spettacolarizzazione, decadenza, bisogno indotto di scambiare un bene comune con un bene economico.

Un neanche tanto velato classismo razzista pessimista che vede espandersi solo l’ignoranza e la volgarità come un magma indistinto che pervade ogni piazza-centro commerciale, con un protagonista deficiente-sapiente perché agli occhi degli stupidi il meno stupido appare intelligente. In scena c’è il cinismo capitalista e quindi l’elisir dell’anticapitalismo, e noi ci mettiamo in una posizione anticapitalista, seduta, comoda. Ironica e cinica quindi comoda.

Così, continuiamo a fare quello che vediamo e che deridiamo. Continuiamo divertiti e passivi a consumare e urlare e votare esattamente come i protagonisti di Idiocracy. L’ironia e il cinismo sono per noi e contro di noi, in una mise en abîme, che è il modo migliore per dirci siete voi e allo stesso tempo quelli che vogliamo noi e però anche quelli che volete voi. Abisso e paradosso si tengono. Di questa divertente passività mi interessa la consonanza con la comodità (ci sono altre consonanze, ribellione, resistenza, protesta in cui forse la passività è un’azione meno divertente). Comodo è confortevole, accogliente ma anche opportuno, conveniente. Perché una certa cosa risulti comoda non deve costare fatica, nessun talento inteso come esercizio di una certa predisposizione, nessuna abilità da allenare, nessuna tecnica da acquisire col tempo, nessun tempo passato a imparare.

Basta lasciarsi andare, farsi fare tutto, farsi guardare senza saper fare veramente niente se non mettersi in mostra, non in scena. Questo tipo di comodità vale soprattutto per il godimento, il divertimento: il business più fruttuoso della terra, dallo sport allo spettacolo al sesso ma anche alla scuola al lavoro. Ciò che conta è divertirsi e divertire.

Vogliamo che tutto sia funny, divertente, che ci deresponsabilizzi, che sia tutto un po’ turistico, un giro di giostra, programmato facilitato. Di recente mi è capitata tra le mani la prospettiva di una escursione subacquea. Let’s have fun. No experience required.

Divertitevi, non occorre avere alcuna esperienza, dicono i volantini. Anche se non l’abbiamo mai fatto, se non abbiamo idea di cosa voglia dire immergersi nell’acqua, perfino se non sappiamo nuotare (sic) non importa, faremo la stessa esperienza di uno che ci ha messo anni e passione e fatica, e che finalmente ha la sensazione di avere il corpo leggero e fluido di un pesce. Potenza persuasiva della narrazione pubblicitaria.

La foto sui volantini è allo stesso tempo ridicola e tecnologica o ridicolmente tecnologica, non so. Sembra un po’ Idiocracy.

I visi sorridenti di un ragazzo e una ragazza sono infilati in un casco, una palla di vetro, un vaso per i pesci, un casco spaziale – acquario o mare, oceano o spazio, fa un po’ lo stesso, quello che vogliamo alla fine è sempre la luna. Dunque, si respira aria con l’acqua che non arriva mai alla bocca, e si nuota.

No, non si nuota, ci si siede, di nuovo!, su una specie di moto-poltrona teleguidata che fa stare tra i pesci seguiti da due in bombole maschera e pinne, loro sì, pronti a guardare dove vai, cosa fai, e in nome della sicurezza a salvarti la vita, che così seduto non si sa mai. E così, ce l’hai fatta, hai visto quello che per vederlo ci avresti messo mesi anni, senza contare il rischio, il pericolo, e la meraviglia di farlo da solo. Invece, qualcuno ti ha tenuto per mano, ti ha guidato, non ti ha insegnato niente ma ti ha fatto divertire.

Non ti è costato niente, pardon, ti è costato ma solo denaro, e intanto quell’esperienza l’hai avuta, consumata come le tante in cui basta comprare. È il pensiero magico della società dei consumi, essere già arrivati senza la fatica di arrivare, diventare ricchi per miracolo, far coincidere il desiderio delle cose con il loro consumo, all’infinito. 

Una vita da imbecilli felici, come ci definisce George Perec in Le cose, siamo nel 1965, quando parla di felicità. “…tra le cose del mondo moderno e la felicità [c’è] un rapporto obbligato. Una certa ricchezza nella nostra società rende possibile un certo tipo di felicità: si può parlare della felicità di Orly (l’aeroporto di Orly, inaugurato nel 1961, fu per anni il «monumento» più visitato di Francia)… Ma questa felicità resta una possibilità, perché nel capitalismo vale il detto: cose promesse non sono cose dovute.

Libro ironico ambiguo freddo. Per nulla divertente, ma forse erano anni in cui la felicità non coincideva con il divertimento. Un libro molto ironico, un’ironia che non mette comodi perché non è cinica, non condanna personaggi e lettori per la loro miseria morale, l’ignoranza, la banalità, la stupidità, ma non ci prende in giro, non ci fa ridere di essere così felici e così imbecilli. Forse ci intristisce, o ci fa anche venir voglia di alzarci.

Caterina Serra, L'Espresso, 23 settembre 2018 p.79


15/09/17

"Viviamo nell'età della rabbia" - dal 29 settembre al 1 ottobre il Festival di Internazionale a Ferrara.





Oltre 250 ospiti provenienti da 40 paesi e da 4 continenti per 250 ore di programmazione e 130 incontri. 

Questi i numeri del programma di Internazionale a Ferrara che e' stato presentato nella sede della Rappresentanza in Italia della Commissione europea. Filo conduttore di questa edizione e' la prospettiva intesa come lungimiranza e opportunita', una risposta ai moti xenofobi, ai populismi e ai nuovi protezionismi, sintomi di un affanno della politica a fare fronte ai grandi mutamenti sociali

Per tendere verso un`informazione corretta; per leggere gli eventi in corso senza paura, immaginando soluzioni rispettose dei diritti umani; per individuare modelli economici piu' inclusivi, serve la giusta distanza. 

"Anche quest`anno la citta' di Ferrara si trasformera' per un fine settimana nella piu' grande redazione al mondo - ha dichiarato Giovanni De Mauro, direttore di Internazionale - Il mondo del nostro logo quest`anno ha un cannocchiale, per cercare una direzione, mettere in prospettiva le cose, guardarle dalla giusta distanza per vedere non solo crisi ma anche le possibili soluzioni". "

Grandi ospiti da tutto il mondo: da Angela Davis, femminista ed ex militante del partito comunista statunitense a John Lewis che nel 1963, insieme a Martin Luther King organizzo' la grande marcia su Washington al termine della quale fu pronunciato il celebre discorso "I have a dream". Appuntamento, come ogni anno, con giornalisti, scrittori e fotoreporter da ogni continente: dallo scrittore siriano Khaled Khalifa alla reporter colombiana Marta Ruiz, dall`inviato iracheno Gaith Abdul-Ahad all`attivista di origine eritrea Meron Estefanos, fino a Shane Bauer che, nell`anno del risveglio dei nazionalismi e del razzismo istituzionalizzato, sotto copertura si e' infiltrato nei movimenti paramilitari di estrema destra americani. 

Emblematico l`incontro conclusivo del festival, intitolato "L`Eta' della rabbia" dal libro dello scrittore indiano Pankaj Mishra che dialoghera' con lo statunitense Adam Shatz e lo studioso francese Olivier Roy. 

07/07/14

Esce la prima biografia di Tiziano Terzani.




Il mestiere che ho fatto non era proprio quello del giornalista, me lo sono inventato 

Un uomo libero: questo è stato, essenzialmente, Tiziano Terzani. 

Un reporter, un viaggiatore che si è inventato una vita irripetibile, segnata da guerre, rivoluzioni, strepitosi traguardi professionali e faticose battaglie civili. 

Uno scrittore che ancora oggi dialoga con un pubblico molto vasto il quale, a distanza di dieci anni dalla sua scomparsa, continua ad amarlo e a ispirarsi al suo modo di concepire il mondo e anche alla intensa spiritualità che caratterizza il suo intimo rapporto con la vita, la malattia e la morte.



Àlen Loreti ci consegna, con questa che è la prima vera biografia di Terzani, in libreria da domani, un racconto scrupoloso e completo testimoniato da documenti inediti e immagini private che scandiscono, anno dopo anno, un percorso esistenziale estremamente accidentato e avventuroso. 

Un viaggio nell’opera e nel pensiero di chi ha raccontato un Novecento vissuto sulla propria pelle, senza mai rinunciare a smascherare illusioni, ad ammettere sbagli, e a interrogarsi sulla bellezza e durezza del vivere. 

Una ricostruzione rigorosa nella quale rivivono la voce, gli incontri e la straordinaria, intrepida umanità di un grande interprete del nostro tempo. 


Àlen Loreti (1978) è curatore dell’edizione delle opere di Tiziano Terzani nei due volumi de “i Meridiani”, Tutte le opere 1966-1992 e Tutte le opere 1993-2004 (Mondadori 2011). 

Nel 2012, in seguito alla donazione della biblioteca del viaggiatore fiorentino, ha pianificato e diretto il primo convegno internazionale di studi, Tiziano Terzani: ritratto di un connaisseur, promosso dalla Fondazione Giorgio Cini di Venezia. 

È inoltre curatore della selezione dei suoi diari dal titolo Un’idea di destino (Longanesi 2014). www.librimondadori.it

06/07/12

Le Dolomiti celebrano Dino Buzzati.



A quarant'anni dalla scomparsa del grande scrittore, i territori delle province di Belluno e Trento onorano con un evento uno dei piu' celebri cantori delle alte cime. 

''Ricordando Dino Buzzati 1972-2012'' e' la manifestazione, promossa da Circolo Cultura e Stampa Bellunese e da Ideas Communication, insieme con l'Associazione Internazionale Dino Buzzati, che si svolgerà dal 23 al 29 luglio. 

Sette giorni di spettacoli, reading, conferenze dibattiti con protagonisti del mondo culturale italiano sul palcoscenico delle vette piu' amate da Buzzati: lo Schiara, il Civetta, le Pale di San Martino solo per citarne alcune. 

''Sara' un itinerario attraverso i luoghi del cuore e della memoria - raccontano gli organizzatori - con due grandi obiettivi: onorare Dino Buzzati, indimenticabile voce delle Dolomiti e del Novecento Italiano, e fare delle sue celebrazioni l'evento clou dell'estate dolomitica''. 

Sono coinvolte due Regioni (Veneto e Trentino), due Provincie (Belluno e Trento), la Fondazione Universita' ed Alta Cultura della provincia di Belluno e sette Comuni (Belluno, Limana, Feltre, Siror, Tonadico, Sagron Mis, Alleghe, Auronzo). 

E la partecipazione attiva di Giardino Buzzati, associazione culturale presieduta dalla nipote di Buzzati Valentina Morassutti. 

Le proposte sono state selezionate sulla base della qualita' e del rispetto scientifico dell'opera e del pensiero buzzatiani. ''Il nostro auspicio - spiega l'ideatore dell'iniziativa Ivano Pocchiesa - e' di promuovere ad ampio raggio la conoscenza dell'uomo Buzzati e della sua opera, facendone rivivere atmosfere e contenuti con l'ausilio di tutte le arti da lui amate e attraverso la testimonianza di chi lo ha conosciuto. Per questo nel calendario sono stati inseriti spettacoli teatrali, un concerto, dibattiti, mostre, reading, tavole rotonde. Un omaggio a tutto tondo all'uomo e all'artista che sara' occasione per apprezzare anche la bellezza e la ricchezza delle terre che lui ha tanto amato''. 

04/01/12

E' morto Pietro Zullino. Un ricordo.


E' scomparso questa mattina presto.

Pietro Zullino se ne è andato in coerenza assoluta con il suo stile, con la sua discrezione assoluta.

Vorrei ricordare questo amico con poche parole. E' grande il vuoto che lascia. Perché Pietro assommava, in misura notevole, due qualità umane molto rare di questi tempi: la curiosità e la generosità.

Semplicemente, è una delle persone più colte che abbia conosciuto nella mia vita.  Capace di spaziare in ogni campo, e sempre da lui c'era da imparare.

Aveva anche la capacità di difendere il suo punto di vista sempre, ad ogni costo, di fronte a qualunque interlocutore: anche perché molto spesso aveva ragione lui.

Pietro ha lasciato una vasta e preziosa produzione di saggi e opere di narrativa straordinarie, che spero davvero vengano ristampate presto da un editore illuminato.  C'è anche qualche inedito che meriterebbe di essere scoperto perché chi lo ha letto sa che si tratta di cose davvero considerevoli, soprattutto nell'attuale, stantio  paesaggio culturale italiano.


Ciao, Pietro.


04/10/11

Corrado Guerzoni - "Il valore della parola" - Un ricordo.


A proposito di Corrado Guerzoni, scomparso l'altro ieri, a Roma, vorrei riportare qui un ricordo personale che risale al 1987.

Guerzoni era allora direttore di Radiodue, la seconda rete radiofonica della Radiorai - allora seguitissima - (incarico che ricoprì per 12 anni consecutivi) e conduttore in primis di quella fortunata trasmissione che si chiamava "Radiodue 3131".

"Radiodue 3131" era l'erede di quella trasmissione, "Chiamate Roma 3131", condotta all'inizio da Gianni Boncompagni e Franco Moccagatta (prima trasmissione il 7 gennaio 1969) che rivoluzionò completamente il mezzo radiofonico, con l'introduzione delle telefonate degli ascoltatori  (tutta l'epopea del 3131 dal 1969 al 1995, che ha attraversato l'arco di trent'anni cruciali nella storia italiana, è ricostruita in un prezioso volume scritto da Raffaele Vincenti, La prima volta del telefono, edito dalla RaiEri, con dvd, nel 2009).

Guerzoni - con la determinante partecipazione di Lidia Motta, geniale capostruttura della Rai di allora, e suo "braccio destro" - prese in mano la trasmissione nel 1982, cambiandone completamente l'identità.   Da trasmissione 'confidenziale', dal tono tutto sommato 'leggero',  3131, sotto la guida di Guerzoni si trasformò in un vero strumento di ricerca giornalistica.  Ogni argomento veniva affrontato da diversi punti di vista, con l'ausilio di tecnologie allora del tutto sperimentali - lo studio mobile, le radio-macchine, i collegamenti dagli angoli più remoti d'Italia - e con la ricerca di un dialogo con gli ascoltatori basato sul "valore della parola", come strumento creativo, di crescita personale (non di chiacchiera), di conoscenza e consapevolezza, in una parola di responsabilità.

Guerzoni era un giornalista.  Che veniva da una esperienza drammatica: quella di aver esercitato per diversi anni il ruolo di portavoce dell'on. Aldo Moro.  Dopo la sua barbara esecuzione da parte delle BR, Guerzoni lasciò la politica. Tornò al giornalismo e decise di farlo in un modo tutto suo: non gli interessavano tanto le notizie - gli interessavano anzi assai poco - quanto il nostro modo di osservare il mondo e di farne parte.  Era convinto che la parola fosse immedesimazione nell'altro, condivisione, possibilità e capacità delle anime di farsi dia-logo, di partecipare ad una comunità allargata, che si interroga e interroga le proprie ansie e le proprie questioni cruciali.

Guerzoni era un accanito lettore: pur essendo come egli si definiva "incompetente" teoricamente, amava leggere di tutto, poesia e prosa, filosofia e teologia, i classici.

Così, nell'estate del 1987, Guerzoni, insieme a Maurizio Ciampa - filosofo e conduttore del 3131 notte (altro luogo deputato alla sperimentazione comunicativa)  - pensò di provare a scrivere un testo, insieme a colleghi molto più giovani di lui.

Fummo "convocati" in 5: oltre a Ciampa, Francesco Malgaroli, Gabriella Mangia, Stefano Rizzelli ed io.

L'idea era quella di un "work in progress": non avevamo un canovaccio pre-stabilito. Non più di tanto. Guerzoni pensò di realizzare una serie di incontri nel suo ufficio di Viale Mazzini. Incontri nei quali noi lo avremmo sollecitato su questi temi - cosa vuol dire parlare con qualcuno, esiste una coscienza o una verità delle parole, come si può guardare nel cuore del prossimo, che cosa comporta che il mondo ormai sia un enorme luogo dove tutti parlano e quasi nessuno ascolta - e lui avrebbe risposto "a ruota libera"; come una specie di confessione, interrogandosi - lui per primo - sul senso del lavoro che faceva tutte le mattine, quando si accendevano i microfoni nella R7 di Via Asiago.

Ho un ricordo personale fortissimo di quegli incontri. Noi eravamo molto giovani, freschi di studi, e con la presunzione di sapere molte più cose di quelle che in effetti conoscevamo.  Guerzoni però si fidava ciecamente di noi.  Voleva darci questa chance di fare il libro insieme a lui, di vederlo crescere insieme.  Di firmarlo perfino insieme a lui.

Realizzammo parecchi incontri - non ricordo se sei, sette - e furono ore meravigliose.  Il Guerzoni che ricordo durante quegli incontri era per me piuttosto stupefacente. Pur parlando "a braccio" non fu mai, nemmeno una volta, banale.  Le sue riflessioni erano meditate e pacate, ma dimostravano i frutti di una ricerca personale colta e approfondita, sollevavano questioni primarie, per noi che iniziavamo a fare quel lavoro di 'interrogazione della realtà' che è e dovrebbe sempre essere il giornalismo.   Ci offriva, ci offrì la sua visione di quel mondo, che doveva essere prima di tutto 'morale', cioè rispondere ad un senso di responsabilità profonda: quello della in-violabilità del mistero dell'altro, che è sempre di fronte a noi, e che anche quando sceglie di aprire se stesso, la sua anima, i suoi pensieri, resta altro.

Confidava però molto nella capacità della parola di "cambiare gli uomini", e in definitiva di cambiare anzi il mondo. Era questa la speranza - o la fede, o tutte e due le cose insieme - che agitava il suo lavoro e la sua ricerca personale, sempre inquieta, alle prese con la apparente e angosciosa "irremediabilità" del mondo.

Il libro uscì l'anno seguente, pubblicato dalla SEI di Torino, intitolato "Il valore della Parola".

Aveva faticato molto a congedarsi dal libro, concedendo il "visto si stampi".  Nelle conclusioni finali, rendendosi conto che c'era già qualcosa che premeva urgentemente "oltre" il libro,  scriveva: Del resto è la vita che butta per aria i libri, è l'esperienza che facciamo ogni giorno e ogni sera che scompiglia le nostre idee, che soffia nei nostri sentimenti, nelle nostre azioni, nelle nostre reazioni, che ci espone al rischio insito nel vivere stesso."

Vivere, rischiare, esporsi, assumersi "la grave responsabilità" del parlare con la gente, con milioni di persone ogni giorno. L'intera esperienza di vita di Guerzoni - e l'eredità grande che ci ha lasciato a noi che abbiamo avuto la notevole fortuna di lavorare con lui - si è giocata tutta tra questi due apparenti estremi: vita e parola. 

Fabrizio Falconi



02/10/11

E' morto Corrado Guerzoni. Un maestro.



E' scomparso stanotte Corrado Guerzoni, storico direttore di Radiodue e conduttore di una delle più popolari trasmissioni della Radio (Radiodue 3131).

A quello che considero un vero maestro (un Direttore vero, sperimentatore, giornalista, valorizzatore di giovani, persona profondamente umana), dedico questo ricordo, sicuro di condividerlo con molti che gli sono oggi, in un modo o nell'altro, debitori.