Visualizzazione post con etichetta festival di cannes. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta festival di cannes. Mostra tutti i post

18/10/22

Fabrizio Falconi fotografato da Gabriele Pagnini a Cannes nel 1987

 

Fabrizio Falconi fotografato da Gabriele Pagnini a Cannes nel 1987 

Nel Maggio dell'87, mentre seguivo il Festival di Cannes come inviato accreditato - in una edizione di grande livello, purtroppo vinta da un modesto film francese, Sous le soleil de Satan di Maurice Pialat, proclamazione che suscitò polemiche ma era piuttosto prevedibile visto che ricorreva il 40mo anniversario del festival), durante una delle mille corse su e giù per la Croisette mi fermai a bere qualcosa al bar del Majestic, insieme a Gabriele Maria Pagnini con cui avevo fatto amicizia in quei giorni.

Gabriele era ed è ancora uno dei migliori ritrattisti italiani ed era lì per Vogue. Senza nessuna posa, mi scattò al volo (inquadrando appena nell'obiettivo) questa foto, che mi ricorda i tempi belli di quegli anni e che mi piace ritrovare ogni tanto tra le cose.

Al link qui sotto alcune delle bellissime foto di Gabriele ai veri divi:



13/10/22

Torna Park Chan-wook, il geniale maestro di "Old Boy" e "Mr. Vendetta" - Il nuovo film, "Decision to Leave" potrebbe essere il suo più devastante - L'intervista

 


Molto prima che "Parasite" di Bong Joon Ho trionfasse agli Oscar e "Squid Game" facesse il giro del mondo, Park Chan-wook stupiva il pubblico mondiale con la sua visione sontuosamente stilistica, oltraggiosamente violenta e diabolicamente elaborata del cinema coreano. 

Il suo ultimo film, "Decision to Leave", è per certi versi più sobrio dei precedenti. Non ha la violenza brutale di "Oldboy" o il sesso di "The Handmaiden". 

Ma potrebbe essere il suo più devastante. È un noir tortuoso che si intreccia con una storia d'amore. Intricato e malizioso, "Decision to Leave" è un altro arazzo di genere di cui il magistrale Park può fare un elegante gioco. Al Festival di Cannes di maggio ha vinto il premio per la miglior regia

Park Hae-il interpreta un detective della polizia di Busan che si infatua di una vittima di omicidio (Tang Wei). La loro relazione in evoluzione si svolge come un'indagine

Prima dell'uscita del film nelle sale americane, venerdì, Park ha incontrato un giornalista durante una pausa del New York Film Festival, parlando della realizzazione di "Decision to Leave" (uno dei maggiori successi al botteghino del 2022 in Corea del Sud), del suo ruolo nell'espandere l'impronta del cinema coreano e del fatto che, a prescindere da martelli insanguinati o polpi mangiati interi, l'amore è sempre stato il suo soggetto principale.

Intervista 

D. La stanza in cui scrive è stata paragonata a quella che intrappola il protagonista di "Oldboy". È vero? 

PARK: (Ride) Quando abbiamo progettato la casa, abbiamo creato una stanza appositamente per me per scrivere. È una stanza piccola, con solo un tavolo e una scrivania, e sembra quasi di soffocare all'interno. Ma non scrivo solo in quella stanza. Scrivo davvero ovunque. Scrivo in uffici, caffè, alberghi e in aereo.

D. Tra un film e l'altro vive una vita relativamente tranquilla, vero? 

PARK: La mia casa è in una piccola città in una zona remota fuori Seoul. Anche la mia casa di produzione è alla periferia di Seoul. Quindi sono quasi come uno che lavora in un'azienda e fa la spola tra il mio ufficio e la mia casa.

D: A cosa pensava quando lei e il suo co-sceneggiatore, Jeong Seo-kyeong, avete scritto "Decision to Leave"? 

PARK: All'epoca stavo lavorando alla post-produzione di "Little Drummer Girl" e ho dovuto dirigere da solo l'intera serie di sei episodi. Ci è voluto molto tempo ed è stato anche molto impegnativo dal punto di vista fisico. Mi sono ammalato a casa. Naturalmente mia moglie era con me, ma comunque. Durante la fase di post-produzione, il mio co-sceneggiatore ha fatto un viaggio di famiglia a Londra e mi ha incontrato due volte in un caffè. Abbiamo avuto conversazioni generali su quale dovesse essere il mio prossimo lavoro. I due principi fondamentali da cui siamo partiti sono stati: Volevo che il film fosse un film coreano e che venisse proiettato nelle sale cinematografiche. Poi volevo che fosse un film poliziesco. Credo sia dovuto al fatto che all'epoca stavo leggendo la serie di Martin Beck. Ne sono stato molto influenzato. Volevo partire da un'ambientazione molto familiare: Un detective assegnato a un mistero di omicidio. E volevo creare una storia d'amore.

D: Il suo film suggerisce che tutti sono colpevoli in amore, ma il sospetto lo ucciderà.

PARK: È un bel modo di esprimerlo. Quando si è innamorati, si è naturalmente curiosi dell'altra persona. Si vuole sapere di più su di lui. In questo processo d'amore, c'è sempre un senso di dubbio che ti spinge a scavare più a fondo. Quando questo assume una forma drammatica, può anche trasformarsi in uno stalking dei suoi social media o in un'occhiata al telefono o in domande per verificare se sta mentendo. Molte persone fanno queste cose o hanno il desiderio di farle. Quando si raggiunge quel punto di dubbio e di suspense, penso che diventi davvero simile a un'indagine investigativa.

D.: L'amore potrebbe non essere quello che alcuni pensano immediatamente come il tema principale dei suoi film. Perché pensa di tornare sempre alle storie d'amore? 

PARK: Tutti i miei film parlano fondamentalmente di persone innamorate. Ma ognuno di questi lavori nella mia filmografia ha i suoi elementi di genere, come il thriller o l'horror. Credo che questo sia troppo forte e faccia dimenticare che si tratta di amore. L'occupazione di un artista è naturalmente quella di esplorare ciò che l'uomo è realmente, e credo che il soggetto migliore per esplorare le caratteristiche dell'uomo sia l'amore. Ma anche come intrattenitore, l'amore è il soggetto migliore. L'amore ha il brivido, il mistero, la comicità, ti tocca e ti fa inorridire. 

D.: Il suo film è spesso divertente, persino farsesco, ma finisce, indimenticabilmente, in tragedia. Come ha visto funzionare questo arco tonale? 

PARK: Ci sono alcune tragedie in cui è solo una progressione di eventi tristi che accadono. Ma credo che ci sia anche una tragedia che deriva da un film che non sembra tale. Il contrasto fa emergere ancora di più la tragedia. C'è qualcosa di molto farsesco nella loro situazione. C'è una farsa che deriva dalla simpatia. Senza risate, mi sembra di forzare un'emozione al pubblico. Come se dicessi loro: "Siete tristi, vero?" "Siete inorriditi, vero?". C'è un senso di totalità che deriva dall'umorismo che riempie tutti i buchi mancanti. 

D.: Anche il modo in cui la tecnologia modella la vita di uomini e donne è un tratto distintivo dei suoi film. Perché ha affollato "Decision to Leave" con telefoni, messaggi di testo e applicazioni di traduzione? 

PARK: Volevo che questo film fosse molto classico e avesse questi elementi mitici. Se si considera l'ultima scena, ricorda davvero Orfeo. Ma non volevo che fosse un film classico con lettere scritte a mano. Se avessi voluto farlo, avrei potuto inserirlo in un contesto in cui non c'erano telefoni. Molti registi sentono il desiderio di farlo. Invece, ho scelto di incorporare attivamente la tecnologia moderna, anche più di quanto si vede in spettacoli sugli adolescenti come "Euphoria". Prendere questa decisione è stato un momento significativo per me. 

D.: È orgoglioso del suo ruolo nella diffusione del cinema e della cultura pop coreana? 

PARK: Se mi fossi prefissato l'obiettivo di diffondere l'amore per il cinema coreano e avessi lavorato duramente per raggiungerlo, ne sarei orgoglioso. Ma la verità è che è successo così. È semplicemente il risultato del mio tentativo di divertirmi nel realizzare le mie opere e di permettere al pubblico di divertirsi guardando i miei lavori. Non sono mai consapevole del pubblico non coreano o straniero quando faccio un film. È più che altro che faccio i miei film con l'intenzione di farli apprezzare al pubblico coreano del futuro. Cinquanta o cento anni dopo, voglio che si divertano tanto quanto il pubblico contemporaneo. 

Fonte: Jake Coyle per AP-


25/09/22

La volta che Werner Herzog umiliò crudelmente il giovane Emmanuel Carrère

 


Tra le pagine del suo libro forse di maggior successo, Limonov, si scopre un interessante e amaro episodio che riguarda l'incontro dell'allora giovane autore, Emmanuel Carrère, con uno dei suoi idoli giovanili, il regista tedesco Werner Herzog. 

L'episodio merita di essere raccontato.

All'epoca, agli inizi della sua carriera letteraria, Carrère stava muovendo i suoi primi passi come critico cinematografico, su importanti riviste specializzate francesi. Il primo articolo esce nel ‘77.  

Carrère, profondo cinéphile, aveva tra i suoi idoli Tarkovskij, Kubrick, Resnais, Bob Rafelson, ma soprattutto Werner Herzog, a cui nell'82 dedicò uno studio monografico, che ancora oggi è in commercio. 

Al Festival di Cannes del 1982, dove Carrère è inviato a nome di una delle riviste con cui collabora all'epoca, gli capita l'occasione di conoscere da vicino Herzog, che si trova al Festival proprio per presentare, in concorso, Fitzcarraldo, il suo capolavoro. 

Così, prima dell'intervista, nella suite dell'Hotel Carlton, Carrère riesce a far recapitare una copia del volume che gli ha dedicato, da poco uscito, al regista tedesco. 

All'appuntamento, Herzog gli viene ad aprire la porta della camera con gli stivaloni da esploratore, e lo fa entrare ma senza degnarlo di un sorriso. Carrère, invece in profondo imbarazzo sorride e scopre con sollievo che il suo libro è proprio lì, in camera, sul piano del tavolino, al quale siederanno per l'intervista.

Carrère cerca di balbettare qualcosa, ma il regista – uomo notoriamente ispido – lo tratta a pesci in faccia, con gratuita crudeltà.

Lo ammonisce, con la sua voce profonda e "meravigliosa", che non ha letto il libro e che non ha intenzione di leggerlo; che si tratta, anzi, di Bullshit. Merda. E che quindi si sbrigasse con l'intervista che vuole fargli. 

Con l'ego sanguinante, lo spavaldo freelance ripiega traumatizzato. Oggi confessa: «Da allora non ho più rivisto Herzog. Dicono che col tempo sia diventato più umano. Anche se l'idea mi terrorizza, sarebbe bello incontrarlo di nuovo. Comunque trovo i suoi lavori successivi molto meno convincenti. Per questo, quando mi hanno chiesto una versione aggiornata del saggio, ho rifiutato». 

Roberto Manassero scrive su Doppiozero: La grandezza del libro, Limonov, è che "Carrère tratta il suo protagonista allo stesso modo di Herzog, cioè con sguardo severo e oggettivo, in virtù dell’ammirata fascinazione che prova per entrambi, sta nell’assoluta onestà intellettuale della scrittura, nella mancanza di rivendicazione soggettiva da parte dell’autore. Per cui Carrère non se la prende mai, non scrive per rivendicare ragioni o lamentare torti."

"Se definisce, come definisce, Herzog un «fascista», o meglio, se vede nell’egoismo superomista di Herzog il nocciolo del fascismo, ammettendo di non capire quali ragioni avesse per trattare in modo sgarbato un ragazzo magari valleitario ma pur sempre appassionato, Carrère usa la vita di un suo simile – di un suo simile che ammira e non capisce – come uno strumento per scandagliare se stesso."

....

"Carrère ha nei confronti del suo personaggio (Limonov, ndr) un rapporto di distanza e ammirazione, di invidia e insieme di disprezzo, e lo dice apertamente, non si nasconde, si butta dentro il suo lavoro con il peso ingombrante delle annotazioni sulla sua vita, e fa capire più di ogni altra cosa, dietro le agili e appassionanti rievocazioni storiche e biografiche, di scrivere soprattutto per se stesso, di scrivere e raccontare, così come per Herzog deve essere stato filmare o commentare immagini create da altri, per capire cosa unisce un essere umano moderato, intelligente e onesto come lo stesso Carrère, o come l’Herzog ormai invecchiato alle prese con la follia di Tradwell (nel suo film Grizzly man, ndr)  davanti all’esempio di una persona evidentemente fuori dal comune, un superuomo, come Carrère a un certo punto definisce sia Limonov sia Herzog, che di eroico e romantico non ha nulla, che anzi scivola spesso nel povero stronzo invidioso e convinto della propria superiorità, ma che sembra essere venuto al mondo per ricordare agli altri il peso delle loro scelte, i limiti delle regole sociali e dei contesti storici che condizionano ogni vita comune."

"Carrère scrive a un certo punto che se oggi Herzog si ricordasse del comportamento poco educato avuto nei suoi confronti, probabilmente si scuserebbe: e in effetti, a giudicare dal tono delle parole che usa alla fine di Grizzly Man, riflettendo sul valore della vita ridicola di Treadwell («E mentre guardiamo gli animali nella loro scelta di vivere, nella loro grazia e ferocia, un’idea si fa sempre più strada: queste immagini non sono tanto uno sguardo sulla natura quanto piuttosto su noi stessi, sulla nostra natura. Ed è questo che secondo me, al di là della sua missione, dà significato alla sua vita e alla sua morte»), viene da pensare, che sì, oggi Herzog si scuserebbe, perché nel dubbio spaventato con cui ammette di giudicare il suo personaggio si coglie la stessa onestà intellettuale che rende autentiche le pagine di Limonov. "

"E in questo, a nostro parere, si intravede uno dei segreti per cui ha pur sempre senso scrivere, filmare e raccontare il reale. Non per capirlo, ma per sentirlo meno alieno e meno distante."

Fabrizio Falconi - 2022 

27/01/20

100 film da salvare alla fine del mondo: 53. "Il Gattopardo" di Luchino Visconti (1963)


Questo blog dedica, ad appuntamenti fissi - ogni lunedì - un catalogo personale dei miei 100 film da salvare "alla fine del mondo".  Non saranno ovviamente vere e proprie recensioni, ma un piccolo campionario degli affetti per queste opere che hanno segnato epoche e vite di molti, se non di tutti. 

100 film da salvare alla fine del mondo: 53. "Il Gattopardo" di Luchino Visconti (1963)


Film leggendario, che parla di un'epoca maestosa del cinema italiano, Il Gattopardo , diretto da Luchino Visconti, adattato dal romanzo omonimo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, vinse con ogni merito la Palma d'oro al Festival del cinema di Cannes del 1963.

Il film segue fedelmente le vicende raccontate nel romanzo. 

Nel Maggio 1860, dopo lo sbarco di Garibaldi in Sicilia, a Marsala, il principe don Fabrizio Salina assiste con distacco e malinconia alla fine della nobiltà. 

Questi signori, i "gattopardi", maestri dell'esercizio del potere e del trasformismo, comprendono che la fine della loro superiorità morale e sociale è ormai vicina: infatti, coloro che traggono profitto dalla nuova situazione politica sono gli amministratori e i grandi proprietari terrieri della nuova classe sociale che sta sorgendo. 

Don Fabrizio, appartenente a una famiglia di antichissima nobiltà, è rassicurato dal suo nipote preferito Tancredi, che, pur combattendo nelle colonne garibaldine, cerca di sfruttare gli eventi a suo vantaggio. 

Tancredi spiega a suo zio: "Se non saremo coinvolti in questo business, costruiranno una repubblica per noi. Se vogliamo che tutto rimanga uguale, dobbiamo cambiare tutto. " 

Quando, come ogni anno, il Principe Salina si reca, con tutta la sua famiglia, nella sua residenza estiva a Donnafugata, trova come nuovo sindaco del villaggio Calogero Sedara, un borghese di modesta estrazione, grezzo e scarsamente istruito, che si arricchisce e fa carriera in politica. 

Tancredi, che all'inizio mostra un certo interesse per Concetta, la figlia maggiore del principe, si innamora di Angelica, la figlia di Don Calogero, che alla fine sposerà, sedotta dalla sua bellezza ma anche dalla sua notevole eredità. 

L'arrivo a Donnafugata di un ufficiale piemontese , il cavaliere Chevalley di Monterzuolo, segna una svolta nella storia: propone a Don Fabrizio di essere nominato senatore del nuovo Regno d'Italia. 

Tuttavia, il principe rifiuta, sentendosi troppo legato al vecchio mondo siciliano. Riflettendo sulla realtà siciliana, Don Fabrizio è pessimista: "Adesso sarà diverso, ma peggio ..." , dice all'emissario del nuovo regime. 

L'unione tra la nuova borghesia e la nobiltà in declino è un cambiamento ormai indiscutibile

Don Fabrizio ne avrà la conferma durante un gran ballo al termine del quale inizierà a meditare sul significato di nuovi eventi e a fare la dolorosa valutazione della sua vita.

Le riprese del film richiesero 15 mesi di intenso lavoro, dal dicemebre 1961 al maggio 1962. 

 L'investimento richiesto da questo colossale progetto si rivelò presto superiore alle previsioni della Titanus , mentre nel 1958, che immediatamente dopo la pubblicazione del romanzo, aveva acquistato i diritti per adattarlo. 

Dopo un accordo di coproduzione fallito con la Francia, l'impegno di Burt Lancaster nel ruolo principale, nonostante la perplessità di Luchino Visconti (che avrebbe preferito Laurence Olivier o l'attore sovietico Nikolaï Tcherkassov), e forse dell'attore stesso, consentì un accordo di distribuzione per gli Stati Uniti con 20th Century Fox . 

Tuttavia, le perdite subite dal film, insieme a quelle di Sodoma, Gomorra causarono il fallimento della Titanus.

La lunghissima scena del ballo, con l'incredibile fotografia di Giuseppe Rotunno, hanno consegnato questo film alla storia del cinema. 

IL GATTOPARDO
Regia di Luchino Visconti.
Italia-Francia, 1963
con Burt Lancaster, Alain Delon, Claudia Cardinale, Paolo Stoppa, Rina Morelli, Romolo Valli. 
durata 205 minuti. 




06/05/19

100 film da salvare alla fine del mondo: 18. "Segreti e Bugie" ("Secret and Lies") di Mike Leigh



Questo blog dedica, ad appuntamenti fissi - ogni lunedì e ogni venerdì - un catalogo personale dei miei 100 film da salvare "alla fine del mondo".  Non saranno ovviamente vere e proprie recensioni, ma un piccolo campionario degli affetti per queste opere che hanno segnato epoche e vite di molti, se non di tutti. 

100 film da salvare alla fine del mondo: 18. "Segreti e Bugie" ("Secret and Lies") di Mike Leigh 

E' uno straordinario dramma psicologico, quello messo in scena da Mike Leigh nel 1996 che gli è valso innumerevoli premi, tra cui la Palma d'Oro al Festival di Cannes.

Ed è uno di quei film che restano, che sono già classici, perché incarnano il senso più profondo dei sentimenti umani, ad ogni latitudine, con la freddezza formale di una tela di Vermeer e il calor bianco di un racconto di Maupassant. 

La vicenda raccontata è quella di Hortense, trentenne borghese, di colore,  di mestiere ottica, che alla morte dei genitori adottivi decide di scoprire chi sia la sua madre biologica. 

Scopriamo così che alla periferia di Londra vivono due fratelli, Cynthia e Maurice (fotografo, sposato ma  senza figli), che non si vedono da parecchio tempo. 

Cynthia ha con sé la figlia Roxanne e non ha simpatia per Monica, moglie di Maurice. 

Finalmente questi, che fa il fotografo, rompe gli indugi, va a trovare la sorella e la invita a casa sua per festeggiare tutti insieme il ventunesimo compleanno di Roxanne. 

E' in questo frangente che Cynthia viene contattata da Hortense, scoprendo così che è lei la figlia che ha dato in adozione subito dopo averla partorita a quindici anni. 

Le due donne si incontrano e, dopo i primi attimi di smarrimento (grande è la sorpresa di Hortense nel trovarsi di fronte questa donna bianca, sfiorita, sfiancata dalla vita), cominciano ad uscire insieme ed a ricreare le condizioni per costruire un rapporto affettuoso. 

Cynthia, felice per questo affetto ritrovato, chiede al fratello di poter portare una persona alla festa di compleanno, facendola passare per collega di lavoro. 

Arriva il giorno stabilito, e tutti si ritrovano a casa di Maurice e Monica. Dietro l'apparente allegria, si cela il nervosismo: Cynthia rivela che Hortense è sua figlia e, subito dopo, altre rivelazioni seguono tra i parenti presenti intorno al tavolo. 

Finalmente dalle tante bugie si passa alla verità, e Cynthia può tornare a casa propria, circondata da due figlie che cominciano a conoscersi e a stare insieme.  

Un dramma di grande tensione e di perfetto sviluppo che coinvolge totalmente lo spettatore chiedendogli di muoversi tra i rigidi, durissimi muri che molto spesso avvelenano le relazioni umane e i rapporti famigliari generando sofferenze psicologiche insostenibili. 

In realtà, ci dice Leigh, liberarsi di questi muri, esercitare il perdono, la comprensione, la compassione, l'empatia è ciò che di più difficile è richiesto oggi, e sicuramente però, ciò che ci rende davvero umani.

Arricchisce il film una straordinaria performance del cast, con una meravigliosa Brenda Blethyn su tutti (vincitrice di numerosi film), stimolati da Leigh, il quale ricorse all'espediente, durante la lavorazione, di rivelare a poco a poco agli attori, lo sviluppo delle vicende dei personaggi da loro interpretati, enfatizzando così ancor di più, sui loro volti, l'effetto sorpresa, che si dipana pienamente nella grandiosa scena finale. 

Fabrizio Falconi


Segreti e Bugie
Secrets & Lies
Regia Mike Leigh
Regno Unito 1996
Durata 142 min
con Brenda Blethyn, Timothy Spall, Phyllis Logan, Claire Rushbrook, Marianne Jean-Baptiste

                       




22/04/19

100 film da salvare alla fine del mondo: 14. "Papà è in viaggio d'affari" (Otac na službenom putu) di Emir Kusturica (1985)



Questo blog dedica, ad appuntamenti fissi - ogni lunedì e ogni venerdì - un catalogo personale dei miei 100 film da salvare "alla fine del mondo".  Non saranno ovviamente vere e proprie recensioni, ma un piccolo campionario degli affetti per queste opere che hanno segnato epoche e vite di molti, se non di tutti. 

100 film da salvare alla fine del mondo: 14. "Papà è in viaggio d'affari" (Otac na službenom putu) di Emir Kusturica (1985)

Sulla scia della grandiosa tradizione del Bildungsroman mitteleuropeo e slavo, Papà è in viaggio d'affari, diretto da Emir Kusturica - e suo secondo lungometraggio dopo il travolgente esordio di Ti ricordi di Dolly Bell? (1981) - è uno struggente romanzo di formazione ambientato nella Jugoslavia di Tito, nel cosiddetto periodo dell'Informbiro (1948-1955), ovvero gli anni che vanno dalla rottura tra Tito e Stalin fino al riappacificamento tra Jugoslavia e Russia sotto Chruščëv.

Quel periodo fu caratterizzato dalla repressione di chi continuava a dimostrare lealtà o simpatia per l'Unione Sovietica; i sospetti venivano deportati principalmente nel campo di lavoro di Goli Otok.

Racconta le vicenda di Mesa, un brav'uomo come tanti, sposato e padre di due bambini, che un giorno si lascia sfuggire una battuta a sfondo politico, cosa che spinge la sua amante, gelosa, a riferire la cosa al fratello di lui, funzionario governativo, che lo fa condannare ai lavori forzati. 

A casa rimane la moglie, Sena, che manda avanti la famiglia e racconta al più piccolo dei suoi figli che papà è partito per un lungo viaggio d'affari. 

Da qui, la storia è completamente vista dalla prospettiva e dagli occhi del figlio minore, Malik - uno straordinario attore bambino, Moreno De Bartoli, che oggi ha 44 anni. Il tempo passa: dopo la ribellione di Tito, Mesa viene riabilitato e si trasferisce in una nuova città, dove il suo secondogenito si innamora della figlia di un dottore russo

Ancora più avanti nel tempo, Mesa gusterà la sua vendetta, violentando l'ex amante che, nel frattempo, ha sposato suo fratello. 

Papà... è in viaggio d'affari è dunque un film politico e un film intimista e familiare allo stesso tempo.  In un prodigio di scelta stilistica che rivela in ogni scena il talento visionario di Kusturica. 

Come dichiarò il regista all'epoca, "Otok non mi interessa dal punto di vista fattuale, per me è importante analizzare, con questo film, le conseguenze sulla psiche del ragazzino Malik. Si tratta di un melodramma che illustra la vita di quelli che vivono sullo sfondo".

Insomma, la storia vista dagli occhi di un bambino, con tutta la poesia - ma anche l'allegria e la nostalgia - di cui è capace lo spirito di Kusturica.

Uscito nel 1985 Papà è in viaggio d'affari vinse la Palma d'oro come miglior film al 38º Festival di Cannes e fu nominato all'Oscar al miglior film straniero. 

Nel libro autobiografico Dove sono in questa storia, Kusturica ha raccontato le difficoltà che hanno preceduto la realizzazione del film a causa del delicato tema storico. Venivano richieste continue modifiche alla sceneggiatura e il regista, esasperato, pensò di andare a realizzarlo a Belgrado, a quei tempi più aperta di Sarajevo. Il film poté essere realizzato soltanto grazie all'interessamento personale di Cvijetin Mijatović, ex presidente della Jugoslavia.

Fabrizio Falconi

Papà... è in viaggio d'affari
(Otac na službenom putu)
di Emir Kusturica, 1985
Jugoslavia
con Moreno De Bartoli, MalikMiki Manojlović, Mirjana Karanović 
 


18/03/19

100 film da salvare alla fine del mondo: 4. "Roma" di Federico Fellini.



Questo blog dedica, ad appuntamenti fissi - ogni lunedì e ogni venerdì - un catalogo personale dei miei 100 film da salvare "alla fine del mondo".  Non saranno ovviamente vere e proprie recensioni, ma un piccolo campionario degli affetti per queste opere che hanno segnato epoche e vite di molti, se non di tutti. 


4. "Roma" di Federico Fellini (1972).


Come si fa a scegliere dentro la meravigliosa produzione di Federico Fellini?  

Noi scegliamo di salvare, alla fine del mondo, un suo film considerato minore  che pure ottenne la Nomination come Migliore film straniero ai Golden Globe del 1973 e il Gran premio della tecnica al Festival di Cannes del 1972, oltre al premio del Miglior film straniero assegnato in quell'anno dal Syndicat Français de la Critique de Cinéma. 

Perché questa scelta?

Perché Roma viene da sempre considerata una città-mondo. Anzi, come dicevano i padri latini, il caput mundi. Specchio e concentrato degli umani vizi e debolezze e gloria delle virtù umane. 

E' significativo che l'atto d'amore più completo concepito per Roma, la sua storia, le sue rovine, il suo mondo, sia stato realizzato da un non-romano. 

Da non romano, trapiantato a Roma dalla provincia emiliana, Fellini riuscì come nessun altro, grazie allo spirito della sua ispirazione poetica a cogliere l'essenza più intima, nascosta della vita della Città, le sue luci e le sue ombre, l'ombra delle sue immani rovine, le luci della sua resilienza, tra ironia, sberleffo, disincanto. 


Grazie all'espediente di mettersi lui al centro del film - nei panni del giovane provinciale che arriva alla stazione Termini poco prima della seconda guerra mondiale - Fellini pesca nei suoi ricordi di allora, la Roma fascista, la Roma del Ventennio che però sa accogliere questo giovane estroso che va subito ad abitare nel popolare quartiere di Piazza dei Re di Roma. 

Da questo punto di partenza, Fellini però intesse un patchwork pieno di ogni cromia, con quadri e personaggi eterogenei e scene tutte memorabili: dal defilé di abiti ecclesiastici alla ricostruzione delle case chiuse, dagli scontri con la polizia all'ingorgo notturno sul Grande Raccordo Anulare, dal teatrino di un avanspettacolo  all'incontro del regista con giovani universitari a Villa Borghese,  dalla Festa de' Noantri fino alla memorabile scena finale del raid notturno dei motociclisti che attraversano tutta Roma da nord e Sud fino alla Cristoforo Colombo, metafora della vecchia città ormai e ancora una volta cancellata dalla brutale modernità. 

Il passaggio da un topos all'altro della narrazione avviene senza soluzione di continuità e senza filo narrativo: è l'antesignano assoluto di quello che oggi chiamiamo docufilm : né vero documentario, né vero film.  Una lunga guache di un grande artista che si esercita sul tema che gli è più congeniale, muovendo e giocando su tutti i registri: emotivo, nostalgico, ironico, profetico, poetico. 

Una vera opera-testamento che non invecchia e che resta un classico. 

l film venne presentato in prima nazionale al cinema Barberini di Roma il 18 marzo 1972.


Fabrizio Falconi

27/05/17

Wenders: "In ogni sguardo che incroci c'è Dio."



"Rivolgersi al lavoro, al mondo e, in particolare, agli 'altri' e' diverso quando credi di essere guardato da un Dio che ti ama; quando quel Dio manifesta se stesso (o se stessa) in ogni volto umano, in ogni sguardo che incroci". 

Wim Wenders, regista tedesco, tra i piu' noti al mondo intervistato durante il Festival di Cannes, racconta il suo approccio personale e artistico alla spiritualita'. 

Spiega di aver compreso "il fatto che la fede potesse influenzarti come artista" quando, nel 1987, "ho aderito al progetto di un film poetico, totalmente improvvisato, quale 'Il cielo sopra Berlino'. È la storia di due angeli custodi che tengono d'occhio i propri protege's nella citta' di Berlino. Quando mi sono accorto che il compito piu' importante del film era cercare di rendere, di declinare, 'the Angel's gaze at people', lo sguardo degli angeli sulle persone, ma anche di mostrare come gli angeli ci vedono, questo mi ha fatto comprendere che tale opera ha avuto un altro effetto in me, mai sperimentato prima"

Aggiunge Wenders: "Il cinema in verità e' capace di farci guardare il mondo in maniera differente, di rivelarci realmente che uno sguardo di tenerezza e' di fatto possibile".  In particolar modo 'Il cielo sopra Berlino' "non solo ha schiuso dinanzi a noi il mondo visibile, ma ci ha permesso di cogliere dei frammenti di quello invisibile, di quello celeste. Col senno di poi, dunque, e' sembrato come se gli angeli che ho ricercato ed evocato nel film mi avessero concesso una grande lezione sull'atto del vedere".

14/06/16

Il film del giorno: "Le onde del destino" di Lars Von Trier.




Il più bel film di Lars Von Trier è quello che il controverso genio danese girò nel 1996, e che vinse il Gran Premio della Giuria al Festival di Cannes di quell'anno. 

E' il film che riscopriamo oggi. 

Bess è una giovane vergine che vive nella Scozia del nord e che già ha perso tragicamente il fratello. La ragazza incontra un grande amore: è Jan, uno svedese che lavora su una piattaforma petrolifera. I due si innamorano, si sposano, si amano, ma devono lasciarsi perché lui deve tornare al suo lavoro, in mezzo al mare. 

Bess non sa rassegnarsi, chiede a Dio che faccia tornare Jan. 

E Jan torna, ma paralizzato dopo un incidente di lavoro. 

Bess si convince che l'unico modo per salvare Jan è attraverso un sacrificio estremo che andrà fino alla morte.  (SPOILER da qui in poi) Jan si salva, seppellisce Bess in fondo al mare, ma uno scampanio, il mattino seguente, annuncia che Bess è tornata (o risorta?). 

Un grande e durissimo film sui temi eterni della malattia, della morte, del dolore, dell'amore, la disillusione, il sacrificio, la fede. 

Emily Watson è grandiosa. La fotografia di Robby Muller virtuosistica. Tutto il film è compatto e lucido come una lama, mai retorico. E si presta a numerose interrogazioni: l'amore può vincere la morte ? (lo avevano già detto i romantici), e il destino è una profezia oppure Dio concede il suo amore soltanto a chi lo merita ? 

Le onde del destino 
(Breaking the waves)
di Lars von Trier
Danimarca-Francia 1996
con Emily Watson, Stellan Skarsgard, Jean-Marc Barr. 



23/04/14

90 anni di Mastroianni - Una bellissima intervista alla figlia Barbara .



Quest'anno il manifesto ufficiale del Festival del Cinema di Cannes, celebra un volto italiano. Lo vedete qui sopra. Quello di Marcello Mastroianni in Otto e Mezzo di Federico Fellini.  
Un grande attore che ha segnato una buona parte del cinema italiano della seconda metà del Novecento. Ma anche un uomo molto particolare, molto diverso dai divi del cinema molto meno fastoso (almeno quello italiano) di oggi.  Voglio dunque proporvi questa intervista bellissima realizzata da Andrea Purgatori per  Huffington Post a Barbara Mastroianni, una delle figlie di Marcello, che rievoca i ricordi sul padre. 


Che avrebbe detto papà del manifesto di Cannes 2014. Ah, si sono ricordati…”. Ride, Barbara Mastroianni, che di Marcello e Flora Carabella è la figlia. E di quel padre e di quella madre conserva i ricordi più belli e più segreti. “Scherzo. O forse, sì. La battuta l’avrebbe fatta. Mia sorella Chiara me l’aveva anticipato e io le ho detto: sono contenta del tuo entusiasmo e contenta lo sono anch’io. Però mica parliamo di un pivellino alle prime armi a cui hanno fatto il manifesto”.
Si fatica a immaginare che oggi Marcello Mastroianni avrebbe novant’anni. Ma la scelta di Cannes è perfetta. Marcello era proprio quello lì, un po’ nel ruolo e un po’ fuori, sempre disincantato, sempre ironico. E come se lo ricorda Barbara: “Leggero soprattutto, ma di quella leggerezza che non scivolava mai nella superficialità”.
D’altronde anche con l’Oscar non gli è andata bene. Lo sfiorò tre volte, senza mai prenderne uno. Nemmeno alla carriera. Forse è per quello che aveva appeso le nomination in bagno.
“Lo faceva per riderci sù. Gli piaceva avere dei riconoscimenti, ma se non arrivavano non ne faceva una malattia. Non era uno che esibiva i premi. Li teneva quasi tutti in bagno dentro un mobiletto, questo sì. E vicino alle nomination aveva appeso le foto con autografo di Barbara Streisand”.
Resta uno dei simboli del cinema italiano.
“Credo che con lui sia scomparso un gruppo di attori – Gassman, Sordi, Tognazzi, Volontè – che frequentavano generi diversi ma erano dei grandissimi. Io in giro non vedo calibri di quel genere”.
C’era anche una generazione straordinaria di registi.
“Certo, è tutto legato. Per carità, tanto di cappello ai professionisti di oggi. Ma se penso a papà, penso a tutti quelli che hanno cominciato a lavorare subito dopo la guerra. Un momento irripetibile o che si ripeterà con altri presupposti. Mi spiace dirlo ma adesso non è facile trovare un film che ti faccia correre al cinema”.
L’Oscar a La grande Bellezza?
“Ho provato un grande piacere per il nostro cinema. Una fotografia strepitosa, ma la storia non mi ha appassionato. Non perché papà avesse interpretato La dolce vita, ma forse è il modo diverso di raccontare che non mi ha preso. Anche se devo riconoscere che la società romana è proprio quella che c’è nel film”.
Il manifesto di Cannes celebra soprattutto un divo.
“La foto ironica di un sornione che sembra stia dicendo: “Oh, ma che state a fa’?”.

Mentre Marcello tutto era meno che un divo.
“Per me figlia ma anche spettatrice, e faccio fatica a scindere le due cose, la sua grandezza era soprattutto questa. Non era vanitoso e non si piaceva”.

02/12/13

Vivere insieme è un'arte (Solstizio d'estate - Arab Strap - Soaps).




À la verticale de l'été è un film girato dal regista vietnamita Tran Anh Hung (Il Profumo della Papaya verde, Ciclo, Norvegian Wood) e uscito in Italia dopo aver fatto parte della selezione ufficiale del festival di Cannes di quell'anno, nel 2000, con il titolo Solstizio d'estate una splendida colonna sonora in cui brani di Lou Reed e Arab Strap si alternano a musiche originali.

E' un film molto strano, fatto di pochissime parole: ad Hanoi tre sorelle si incontrano per celebrare l'anniversario della morte della madre. 
Apparentemente molto unite tra di loro, durante la giornata, che scorre serena, nessuna apre il cuore per svelare il proprio segreto alle altre. 
Soltanto parecchio tempo dopo questo incontro, ognuna delle tre sorelle riuscirà a comunicare all'altra tutto quello che la vergogna e la delicatezza delle relazioni familiari avevano tenuto finora nascosto.

La incapacità di rivelare il proprio mondo interiore si unisce alla poesia che si vive, che è la vita stessa. 

Sembra risuonare nell'accompagnamento del ricordo di questo film il pensiero di Thích Nhất Hạnh, il grande monaco zen e poeta vietnamita:

Com'è fresco il soffio del vento .. E fa gioioso il sentiero senza fine. La nostra vera casa è "l'ora". Vivere l'istante presente è un miracolo. Mi piace molto ascoltare la pioggia, è un suono bellissimo. Non bisogna perdersi nel passato né nel futuro. Il solo momento in cui si è vivi o in cui si può toccare la vita, è il momento presente, qui e ora. E vivere insieme è un'arte.


22/10/13

Dieci grandi anime. 2. Andrej Tarkovskij (5./)



Dieci grandi anime. 2. Andrej Tarkovskij (5)


La malattia incurabile di Tarkovskij ottiene almeno questo effetto. L’interessamento personale del presidente francese Francois Mitterrand fa sì che Mikhail Gorbaciov, divenuto Segretario Generale del Partito Comunista Sovietico da qualche mese, prenda a cuore la vicenda dei familiari del regista concedendo finalmente al figlio di uscire dalla Russia e ricongiungersi al padre.

Sono arrivati, Andrjusa e Anna Semenovna ! scrive a grandi lettere Tarkovskij nel suo diario, il 19 gennaio del 1986 e questa pagina è accompagnata dalla prima foto che ritrae insieme padre e figlio, di nuovo insieme dopo cinque anni. Andrjusa è un adolescente,  Tarkovskij è un uomo malato, nel suo letto, gli occhiali sulla federa,  un libro (la Bibbia?) accanto al cuscino.  Scrive: Se avessi incontrato Andrjusa per la strada non l’avrei riconosciuto. E’ cresciuto molto, ha raggiunto 1 metro e 80 centimetri di altezza e ha solo 15 anni ! Un dolce, buon ragazzo dai grandi denti. Tutto questo ha del miracoloso !

Gli ultimi mesi di vita di Tarkovskij trascorrono a Parigi, tra pause di momentanei miglioramenti, progetti per nuovi film -  un Amleto, una pellicola su Sant’Antonio,  un progetto sul Vangelo – e ancora fitte note nei Diari, sempre più rivolte a un dialogo ultimo con Dio:  Dobbiamo abbandonare i nostri pregiudizi. Noi non sappiamo vedere. Dio solo vede e ci insegna ad amare il nostro prossimo. L’amore trionfa su tutto. E in ciò Dio si manifesta.  Senz’amore crolla tutto. (16)

L’11 aprile, quando la malattia si è fatta più dura, con fortissimi dolori al petto e alla schiena, e i conati di vomito causati dalla chemioterapia, scrive:

Un’immensa speranza è penetrata oggi nell’anima mia: non so come definirla, semplicemente come felicità.   La speranza che la felicità sia possibile.  Fin da stamattina le finestre della mia stanza d’ospedale sono inondate di sole. Ma la felicità non dipende da questo: ecco, è il Signore !

Un mese dopo, Sacrificio viene presentato al Festival di Cannes.  La giuria, all’ultima votazione gli preferisce, per la Palma d’Oro, Mission di Roland Joffé. A Sacrificio viene assegnato, tra le polemiche (17), il Gran Premio Speciale della Giuria.  Il figlio,  Andrei, va a ritirare il premio  sulla Croisette  al posto del padre.

Nelle settimane successive, che gli restano da vivere,  Tarkovskij continua a riflettere e a scrivere, febbrilmente, sul progettato film sui Vangeli.  Torna sul tema del sacrificio, e di quello che gli appare come il Sacrificio del Cristo, che gli altri, tutti contiene e riassume.


L’amore è sempre un donarsi agli altri, scrive. E nonostante il termine sacrificio, sacrificale,  comporti un significato quasi negativo ed esteriormente distruttivo (se preso nella accezione del linguaggio parlato) riferito alla persona che si sacrifica, in effetti l’essenza di quest’atto è sempre amore, cioè un fatto positivo, creativo, divino. (18) 

E ancora:  Ma perché esiste Giuda Iscariota ?  A che è servito il suo bacio ? Perché Giuda ? Evidentemente per spiegare con chi Lui aveva a che fare: cioè con gli uomini.  L’unico personaggio che porta un inimmaginabile peso psicologico. Giuda è il motivo per cui Gesù deve compiere la sua missione. Un esempio concreto per capire fin dove l’uomo può arrivare nella sua caduta.  Qui bisogna scavare più in profondità ! (19) .

(segue -5./) 

Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. 

15.   Op.cit. pag. 653.
16.   Op. cit. pag. 663.
17. Sarà lo stesso presidente francese Francois Mitterrand a definire uno ‘scandalo’ la mancata assegnazione del massimo riconoscimento al film di Tarkovskij.
18.   Op.cit. pag. 682
19.   Op. cit. pag. 686