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30/12/21

Torna in libreria, in una nuova edizione, "I Fantasmi di Roma" di Fabrizio Falconi

 



La storia della città eterna attraverso i suoi misteri, le sue inquietanti presenze, le sue figure spettrali

Lo spirito di Messalina, le ombre che frequentano le catacombe cristiane, i celebri spettri di Beatrice Cenci e Lucrezia Borgia; altri meno conosciuti come la bella Costanza De Cupis, il fantasma dalle mani mozze o l'infelice Emmeline che abitò la splendida Villa Stuart, e poi i fantasmi di Shelley e Keats fino alle ossessioni di Dario Argento: questo libro ripercorre la storia millenaria della città dei papi e degli imperatori da un punto di vista insolito, attraverso i racconti dei suoi fantasmi e delle sue presenze occulte. Ne emerge una Roma dai tratti magici, legata alle religioni e ai riti misterici del passato, alla tradizione etrusca, ai culti orientali, ai primi riti cristiani. Si parte dai fantasmi che si dice infestino i teatri della città antica e imperiale, per passare a quelli creati dai roghi e dai processi della Santa Inquisizione, e arrivare infine ad alcune presenze più vicine a noi: una finestra su una Roma esoterica misteriosa, inquietante e dal fascino sorprendente.

Tra i fantasmi di Roma:

Storia infelice di Berenice, l'amante dell'imperatore Tito, e del suo fantasma
Il Pantheon, monumento esoterico per eccellenza, e i suoi abitanti misteriosi
La notte delle streghe e il fantasma di Salomè al Laterano
Le geometrie di Athanasius Kircher e il suo spaventoso museo del Collegio Romano
Il fantasma di Donna Olimpia Maidalchini, la Pimpaccia, la donna più temuta di Roma
Piazza Vittorio e la porta magica degli alchimisti
Il terribile fantasma di Lorenza, moglie del Conte di Cagliostro
I fantasmi del Museo delle Anime del Purgatorio
Beatrice Cenci, il più famoso fantasma di Roma
I Borgia a Roma, una storia di fantasmi
Costanza de Cupis, la nobildonna dalle mani mozze
Il fantasma della chiesa dei Cappuccini e il racconto gotico di Hawthorne
Shelley e Keats, fantasmi a Roma
I fantasmi di Emmeline e di Lord Allen e Villa Stuart
Il Quartiere Coppedè, set per Dario Argento


Fabrizio Falconi

Nato a Roma, ha scritto i saggi Osama bin Laden. Il terrore dell'Occidente (con Antonello Sette), Dieci luoghi dell'animaIn Hoc vinces (con Bruno Carboniero) e i romanzi Il giorno più bello per incontrarti, Cieli come questoPer dirmi che sei fuoco, Porpora e Nero. Saggi e articoli di argomento storico e archeologico sono apparsi su varie riviste italiane. Con la Newton Compton ha pubblicato I fantasmi di RomaI monumenti esoterici d'ItaliaMisteri e segreti dei rioni e dei quartieri di Roma, Roma esoterica e misteriosa, 501 domande e risposte sulla storia di Roma.


Pre-ordina qui la tua copia 

08/01/20

La versione integrale dello Speciale "Fantasmi di Roma" di Fabrizio Falconi andato in onda ieri sera



Al link sottostante la versione integrata dello speciale sui "Fantasmi di Roma" di Fabrizio Falconi andato in onda su Italia Uno ieri sera alle 18.50.

Si tratta di una cavalcata notturna sui luoghi di Roma che raccontano le millenarie storie dei fantasmi della città. 

Ispirate al libro omonimo, scritto per Newton Compton e più volte ristampato. 

Per vedere la puntata CLICCA QUI:


https://www.mediasetplay.mediaset.it/video/studioaperto/i-misteri-di-roma_F310140601014C10

08/05/19

La Cripta dei Cappuccini a Roma e il "Fauno di Marmo" di Hawthorne - da "I Fantasmi di Roma"



      Un luogo sicuramente affascinante per ogni appassionato del mistero a Roma – e anche sinistro e tetro – è la Chiesa dei Cappuccini che si trova nella centralissima Via Veneto.
      È un posto che i Romani conoscono bene e che ancora meglio conoscono i turisti, specie quelli anglosassoni che ne apprezzano il contorno gotico.  La Chiesa, il cui nome esatto è Santa Maria della Concezione, fu edificata da Antonio Casoni, famoso architetto che lavorò per le più blasonate famiglie dell’epoca, per conto del cardinale Antonio Marcello Barberini.   Costui era un componente della famosa casata, il cui aspetto severo si può ancora oggi ammirare in un ritratto di Antonio Alberti che fa bella mostra di sé nel Coro della Chiesa stessa.
       Antonio Marcello Barberini era nato a Firenze nel 1569 ed era il fratello di Urbano VIII, il 235mo papa della storia della Chiesa, che lo aveva elevato al rango di Cardinale nel 1624.  Ma Antonio Barberini era anche – e prima di tutto – un fervente frate cappuccino, e di questo Ordine fu anche – vista la potenza della famiglia da cui proveniva – un grande benefattore. 
      Una volta divenuto Cardinale ordinò che fosse edificata una Chiesa, che fu riccamente adornata, e destinata ad ospitare le reliquie di S. Felice da Cantalice,  il primo santo dell’Ordine dei Cappuccini. 
       Ma il motivo per cui questa Chiesa è famosa oggi, è  nascosto nelle sue cinque cappelle sotterranee – alle quali si accede da uno stretto passaggio a destra dell’altare maggiore – che ospitano un arredo davvero unico al mondo.
       Tutte le pareti delle cinque cappelle infatti sono fittamente ricoperte da teschi e ossa di circa 4.000 frati cappuccini morti nel corso dei secoli e qui seppelliti fino al 1870.  A conferire un aspetto particolarmente macabro poi, c’è il pavimento di nuda terra. Nuda terra che – come si tramanda – è quella prelevata dai monaci cappuccini ( i francescani sono da secoli Custodi della Terra Santa) nella prossimità del Calvario di Cristo in Palestina.
       In questo luogo oscuro, i frati del convento attiguo scendevano ogni sera a pregare, prima di andare a dormire,  circondati dagli amabili resti dei loro confratelli che venivano periodicamente riesumati a causa della ristrettezza dello spazio a disposizione.
       Con il passare del tempo, furono allestite e completate una dopo l’altra, una di fila all’altra, la Cripta dei Teschi, dove compare anche una clessidra alata, e scheletri di cappuccini in piedi che sembrano quasi camminare; la Cripta dei Bacini, con un baldacchino dal quale cala un pendaglio di vertebre umane;  la Cripta delle Tibie e dei Femori, con un tondo nella volta realizzato soltanto con mandibole e infine la Cripta dei Tre Scheletri, con al centro un piccolo scheletro che raffigura la morte e brandisce un falcetto, e un orologio che indica con eloquente sintesi la finitudine della vita umana e il passaggio all’aldilà.
       Il fascino che esercitò questo singolare luogo – che ancora oggi suscita brividi nel visitatore -  sugli intellettuali e gli artisti di mezza Europa cominciò quando un visitatore illustre, il Marchese De Sade varcò la soglia della cripta nel 1775.  In Italia il Marchese si era rifugiato dopo che un ennesimo scandalo – aveva coinvolto il suo segretario, cinque ragazze e una domestica in scatenate orge che metteva in scena nelle stanze del suo castello e  alle quali partecipava insieme alla moglie – gli aveva attirato le ira dei tribunali.  L’allora trentacinquenne De Sade intentò allora un lungo viaggio in Italia, visitando Torino, Firenze Venezia e infine anche Roma.  E uno dei luoghi descritti nel resoconto che scrisse al ritorno – Viaggio in Italia – fu proprio la Chiesa dei Cappuccini, che descrisse minutamente, definendolo un monumento funebre degno di una testa inglese.
       Non sorprende questo riferimento, perché in effetti questo luogo sembra, con i suoi macabri scheletri ricomposti nelle pose più bizzarre e con le sue tetre cappelle, sembra proprio appartenere al culto gotico tipicamente anglosassone.
       E fu proprio un grande scrittore anglosassone a celebrarne più di altri il mito, e a raccontarne (con uno sforzo inventivo che probabilmente tenne conto di una leggenda reale) il risvolto più terrorizzante con la materializzazione di un fantasma che divenne l’assoluto protagonista di uno dei suoi più celebrati romanzi.
       Stiamo parlando di Nathaniel Hawthorne, l’autore de La lettera scarlatta,  che – nato a Salem nel Massachussets il 4 luglio del 1804 – è considerato uno dei più grandi scrittori americani.  Hawthorne, come è evidente dall’intera sua opera letteraria,  era un cultore dello straordinario e dell’insolito, forse proprio a causa degli stessi geni che si portava dietro, nel suo dna: un suo antenato era stato infatti uno dei giudici dei celebri processi alle streghe di Salem, andati in scena alla fine del 1600 proprio nella città dove lo scrittore era nato: venti persone, uomini donne e bambini furono giustiziati nel più vergognoso processo per stregoneria allestito nelle nuove terre degli Stati Uniti contro persone che in modo diverso avevano avuto l’imprudenza di raccontare contatti ravvicinati con fantasmi.
       La memoria di quegli orribili fatti che pesavano sin dall’infanzia sulla psicologia di Hawthorne trovò la sua catarsi proprio nella Lettera Scarlatta, il romanzo che lo scrittore pubblicò nel 1850 e che lo consacrò ad un’immensa fortuna letteraria.
       È ovvio che per Hawthorne, proveniente dal puritano stato del New England, la cattolica Italia, con la sua storia millenaria di imperi e di persecuzioni, di magia nera e di bellezza rinascimentale, di intrighi e corruzione, di seduzioni e piaceri, dovesse apparire come una specie di Eden e allo stesso tempo come un luogo pericoloso. Furono esattamente le sensazioni che lo scrittore provò quando, il 24 gennaio del 1858, già piuttosto in là con gli anni, mise piede per la prima volta a Roma.
       La città eterna esercitò sullo scrittore americano un fascino sottilmente ambiguo: all' incanto delle rovine, dei paesaggi romantici che scorrono sotto ai suoi occhi, fanno da contraltare notazioni di costume, caratterizzate dal sospetto, dal profilo inquietante che – come sotto l’occhio di una lente allucinata – intravvede anche nel paesaggio, come quando descrivendo i cipressi di Roma li paragona a fiamme scure di enormi ceri funebri.
       A Roma, Hawthorne soggiorna per un periodo abbastanza lungo,  per immaginare e poi scrivere una delle sue storie più sconcertanti, quella che finirà nel romanzo Il Fauno di Marmo, pubblicato tre anni dopo, nel 1860. 



      In questo romanzo Hawthorne racconta la storia di  un gruppo di amici: Kenyon, uno scultore americano che vive e lavora a Roma, il suo ospite Donatello, giovane e ricco rampollo di una nobile casata toscana, e  Miriam, pittrice amica di Kenyon, e della giovane studentessa Hilda, anch’essa un’americana trasferitasi in Italia. Donatello è per la sua bellezza, scherzosamente accostato dagli amici,  al Fauno di marmo di Prassitele, esposto ai Musei Capitolini; ma il clima di apparente giocosità tra i quattro si interrompe bruscamente quando, durante una visita alle catacombe, Miriam si perde e  cercata affannosamente dai tre amici, viene ritrovata in compagnia di un misterioso figuro, un uomo incappucciato. Lo spettrale individuo sostiene di essere ben noto a Miriam, che appare atterrita dallo strano incontro.
        Il persecutore, l’uomo incappucciato, torna a farsi visita con apparizioni frequenti a Miriam, che nel frattempo ha intrecciato una storia d’amore con Donatello, e la suggestione malefica dello strano personaggio alla fine produce i suoi effetti: sorpreso con Miriam dal Persecutore presso il parapetto della rupe Tarpea, sul Campidoglio, Donatello affronta lo sconosciuto e lo getta nel vuoto.
        Anche Hilda ha assistito non vista alla drammatica scena, e scappa via terrorizzata, disertando la visita che la mattina dopo,  i tre amici,  Kenyon, Miriam e Donatello hanno in programma proprio alla Chiesa dei Cappuccini, in Via Veneto.
        Ed è qui che Hawthorne immagina una delle scene più forti del libro, nel quale il fantasma del persecutore, che è stato appena ucciso da Donatello, torna a farsi vivo e presente, in un capitolo intitolato Il cappuccino morto:  nella navata centrale della Chiesa visitata dai tre amici, infatti si sta celebrando il funerale di un frate morto: si trattava del corpo vero e proprio – scrive Hawthorne – o come si sarebbe potuto supporre a prima vista, del volto di cera abilmente modellato e della figura vestita con cura – di un frate morto. Questa immagine di cera – o di fredda creta viva che fosse – giaceva su una bara leggermente sollevata dal suolo, con tre lunghi ceri accesi da ogni lato.
        Ed ecco che accostandosi a quel corpo, deposto nella bara aperta, Miriam – con un brivido di raccapriccio  - ravvisa atterrita nel morto proprio le fattezze del Persecutore ucciso la sera prima, ed ha persino l’impressione chiara di udirne l’odiosa voce accusatrice.  Il cadavere ha un aspetto inquietante: il cappuccio incornicia un volto purpureo, a differenza del classico pallore dei cadaveri,  le palpebre sono solo parzialmente abbassate, e dal di sotto di esse si intravvedono i bulbi oculari.
        Ad un tratto accade qualcosa di incredibile, una «circostanza che parrebbe troppo fantastica a raccontarsi, se non fosse proprio come la scriviamo».  Difatti, mentre i tre amici si trovano intorno alla bara, un rivolo di sangue comincia a scendere dalle narici del frate morto.
        Kenyon prova a dare una spiegazione scientifica: il frate sarà morto di apoplessia. Ma Miriam non l’accetta, spinge via Donatello, non sa spiegarsi come quel cadavere strano e sconosciuto abbia potuto assumere, mentre lo guarda, i tratti di quella faccia così terribile, impressa nel suo ricordo.  E mentre gli altri si accingono a lasciare la lugubre chiesa, torna indietro, rivolge un ultimo sguardo a quel volto, giunge fino a toccare con la punta delle dita una delle mani giunte del frate.
        « È lui, » dice Miriam, « Ecco sul suo sopracciglio c’è la cicatrice che conosco così bene. E non è una visione; posso toccarlo ! Non voglio più dubitare della realtà, l’affronterò meglio che posso ».
        Pur sconvolta, Miriam non sa allontanarsi da quel luogo: convince anzi Donatello a seguire il sacrestano che li conduce nel cimitero sotto la chiesa, con lo spettacolo di scheletri che abbiamo descritto, e che a sua volta Hawthorne descrive minuziosamente nelle pagine seguenti del capitolo.
        Il sacrestano rivela ai due fidanzati il nome del morto – frate Antonio – e indica loro il luogo della sepoltura, « al posto di un frate che morì trent’anni fa e che adesso si è levato per lasciargli il posto ».
        È la legge di quel luogo, che il sacrestano spiega ai suoi ospiti: quella che per nessuno dei confratelli è previsto un luogo definitivo.  Ma un continuo dissotterrare e smembrare, e riassemblare e fare posto ai nuovi.
        Miriam e Donatello vanno via comprensibilmente angosciati, dopo aver lasciato un’offerta per far celebrare una messa in suffragio dell’anima di frate Antonio.
        Tutto finirebbe lì, se non fosse che nei giorni seguenti nessun giornale parla di omicidi o cadaveri rinvenuti, e che il lampione che Donatello credeva di aver distrutto nella colluttazione è ancora intatto, come riscontra il giovane tornando sul luogo del delitto.
        Sarà soltanto l’inizio di una serie di nuove persecuzioni, nelle quali si scoprirà che il fantasma del Persecutore non ha smesso affatto di perseguitare Miriam e i suoi amici, in primis Donatello, che ha avuto la sfrontatezza di affrontarlo, fino alla catarsi finale – che non riveliamo qui per chi desiderasse avventurarsi nella lettura di questo classico del fantastico – che ha per cornice la più classica delle feste del Carnevale romano, che ai tempi di Hawthorne era davvero qualcosa di memorabile.
        A testimoniare il fatto che il fantasma della Chiesa dei Cappuccini continua ad inquietare anche in epoca moderna, bisognerà ricordare al termine di questo capitolo che dal Fauno di Marmo fu liberamente tratta -  ambientandola ai tempi d’oggi - in Italia, nel 1977, una miniserie televisiva prodotta dalla RAI, con la regia di Silverio Blasi e Marina Malfatti nei panni di Miriam,  serie che ebbe un notevole successo e divenne in breve tempo un piccolo classico del mystery italiano, sulle orme dell’altrettanto celebre Il segno del comando che aveva fatto da apripista del genere, nel 1971, con un’altra storia di fantasmi che metteva insieme i diari di Lord Byron e i vicoli di Roma.


Fabrizio Falconi - tratto da I Fantasmi di Roma - Newton Compton Editore, 2010, 2018

04/05/19

Lunedì prossimo, 6 maggio, Conferenza di Fabrizio Falconi su "I Fantasmi di Roma".




In bilico tra storia cittadina millenaria, tradizioni, credenze, archeologia e aneddotica, Lunedì prossimo, 6 maggio, alle ore 16.30 a Roma presso L'Incontro, Via Cortina d'Ampezzo 144, la Conferenza di Fabrizio Falconi (con molte foto) sui Fantasmi di Roma, con le storie che fanno parte del volume omonimo ristampato nella nuova edizione e in tutte le librerie.

L'ingresso è libero.



10/11/18

Due sepolcri profanati a Roma: La storia di Maria e Termanzia e dei gioielli perduti delle Imperatrici Romane.


Come sanno bene gli studiosi dell’occultismo, la profanazione di tombe costituisce da sempre un modo – non sempre gradevole – di scatenare e liberare le forze negative di quelle presenze che la fantasia popolare ha battezzato con il nome di fantasmi. Esiste una lunga e consolidata tradizione in merito, che affonda le radici nella storia stessa dell’umanità, e basti qui ricordare le parole attribuite a Lord Carnarvon – colui che fu protagonista e finanziatore della impresa che portò alla scoperta della tomba di Tutankhamon – e che pronunciò sul letto di morte (nell’aprile del 1923, al Cairo, pochi mesi dopo la scoperta della celebre tomba): «Ho udito il richiamo di Tutankhamon, sto per seguirlo!» 

Qualcosa di simile, frutto di una semplice suggestione, o reale manifestazione ‘esoterica’ per coloro che credono, deve essere avvenuto spesso, nella millenaria storia di Roma, quando i cacciatori di tesori, allettati dalle meraviglie che spesso si narravano depositate all’interno di nobili sarcofaghi, non si facevano scrupoli a profanarli e a saccheggiarli. Qualche volta poi i saccheggiatori in questione non avevano le sembianze di avventurosi Indiana Jones ante-litteram, ma addirittura si rivestivano perfino dei paramenti più sacri, quelli dei Papi. 

Una vera profanazione fu quella compiuta da Paolo III, Alessandro Farnese, il quale prima di essere eletto al soglio pontificio, nel 1534 a sessantasei anni di età, era stato un grande viveur, uomo di mondo e padre di quattro figli, avuti da una nobildonna romana. Impegnato nelle gestione dell’interminabile Concilio di Trento (durato 18 anni) e nei consueti intrighi romani, Paolo III ebbe anche modo di occuparsi in prima persona dei grandiosi lavori di demolizione della vecchia Basilica di San Pietro e della edificazione della nuova cupola, i cui lavori affidò al genio di Michelangelo Buonarroti. 

Nel corso di questi lavori, ovviamente, il ventre della Basilica restituì una quantità immane di illustri sepolture, che mai erano state violate nel corso dei secoli. 

Una delle più famose era quella che riguardava il sepolcro di Maria e Termanzia, le due figlie del generale romano Stilicone (con ascendenze barbariche, il padre era un comandante dei Vandali) che andarono spose ad Onorio, l’imperatore romano d’Occidente, dal 384 fino all’anno della sua morte, nel 423. La prima ad andare in moglie ad Onorio – che era anche suo zio, per parte di madre – fu Maria, la primogenita di Stilicone, nel 398. 

Il matrimonio, fastoso e monumentale, durò soltanto dieci anni. Alla morte di Maria, che non aveva avuto figli, nel 408, Onorio ne sposò la sorella minore, Termanzia. Anche questo matrimonio, come il primo era stato fortemente voluto ed incoraggiato proprio da Stilicone, che attraverso di esso, mirava al consolidamento del proprio potere personale. La seconda volta, però, non fu ugualmente fortunata. Onorio, sentendosi prigioniero di un così ingombrante personaggio, pensò bene di disfarsene, ordinando l’uccisione di Stilicone. Poi, l’imperatore provvide ad allontanare anche Termanzia dalla corte di Ravenna, e la relegò in esilio a Roma, fino alla sua morte che avvenne nel 418. 

I tre protagonisti di questa vicenda, Onorio, Maria e Termanzia, si ritrovarono insieme soltanto dopo la morte dell’imperatore, quando si decise di seppellirli insieme nella stessa fastosa tomba nel vestibolo della vecchia Basilica di San Pietro. 

E la sepoltura rimase in quel luogo, intatta e inviolata per più di un millennio, fino a quando appunto nel febbraio del 1543 i picconatori di Paolo III ebbero l’ordine di compiere la profanazione. 

Quel che fu scoperto all’interno del preziosissimo sarcofago aveva dell’incredibile. Dalla descrizione che il più grande archeologo e studioso di Roma Antica, Rodolfo Lanciani, fece dello spettacolo di fronte al quale si trovarono gli operai assoldati dal papa, si scopre che la bellissima imperatrice giaceva in una bara di granito rosso, vestita regalmente con abiti i cui tessuti erano intrecciati a filamenti d’oro, e dello stesso materiale era anche il velo che le copriva il volto e il petto. 

E’ lo stesso Lanciani ad informarci che la fusione di questi materiali produsse un considerevole ammontare di oro puro, pari a quasi quaranta libbre. Senza contare, ovviamente, il resto: ovvero un cesto di argento puro, ricolmo di ammennicoli scolpiti nel cristallo di rocca, e in ogni altra sorta di pietra preziosa. 

E ancora, una lampada d’oro e di cristallo, quattro vasi d’oro, dei quali uno tempestato di gemme, e un secondo recipiente di argento contenente centocinquanta oggetti, anelli, orecchini, collane, bottoni, spille, ciascuno di essi tempestato di gemme preziose. Le lettere e i nomi incisi su alcuni pezzi testimoniavano la provenienza dei preziosi doni, o la dedica del personaggio illustre a cui erano ispirati. 

Il pezzo più prezioso, la cosiddetta bulla – ovvero il ciondolo a imitazione di quello che portavano al collo i giovani dell’antica Roma fino al compimento della maggiore età - riportava le incisioni dei nomi di Onorio, Maria, Stilicone, Serena, Termanzia e Eucheio, posti a raggiera a formare una doppia croce con l'esclamazione « Vivatis! » tra loro. 

Bulla facente parte dei doni nuziali di Onorio a Maria, e ritrovato nella tomba di quest'ultima nell'antica basilica di San Pietro in Vaticano: il chi-rho è formato dall'intreccio dei nomi 'Onorio', 'Maria', 'Stilicone' e 'Serena', accompagnati dall'esclamazione 'Vivatis!'.

Tutta questa meraviglia, si dissolse rapidamente, come spiega Lanciani nel prosieguo del suo racconto: Con l'eccezione di questa bulla, [...] ciascun pezzo è scomparso. [...] Non si trattava del lavoro di orefici del quinto secolo, ma erano di origine classica; in fatti rappresentavano una porzione dei gioielli imperiali, che Onorio aveva ereditato dai suoi predecessori, e che aveva offerto a Maria in occasione del suo matrimonio. 

Claudiano, il poeta di corte, li descrisse espressivamente come quelli che avevano brillato sul petto e la testa delle imperatrici dei giorni andati. Tanto per chiarire, si sarebbe trattato – secondo alcuni – nientemeno che degli stessi monili, proprio gli stessi, che nel giorno delle nozze si tramandavano tutte le imperatrici romane, da Livia, moglie di Augusto, fino appunto all’epoca di Onorio. Un valore davvero incalcolabile. 

Eppure di questi splendori fu fatta man bassa, per la maggior parte finirono ad arredare paramenti e insegne papali, ben 50 libbre d’oro furono ricavate soltanto dalle vesti di cui le mummie erano ricoperte, per non parlare della incredibile quantità di gioielli – spille, collane, bracciali – e suppellettili – vasi, lucerne – a cui toccò la stessa sorte. Al giorno d’oggi resta ben poco di questo vero tesoro, ma per averne una idea basta ammirare la celebre ‘bulla’ della quale parla Lanciani, conservata al Museo del Louvre a Parigi. 

Quel che forse Paolo III e i suoi profanatori non avevano previsto era che gli spiriti illustri che abitavano quelle tombe non avrebbero accolto con favore la profanazione selvaggia dei propri beni così a lungo custoditi. Nacque così la voce di una feroce vendetta di Maria e Termanzia che per prima cosa si accanirono proprio contro i muratori e gli scalpellini che materialmente avevano operato la profanazione del sepolcro, presentandosi loro in spaventose visioni notturne, e conducendoli tutti a morte, uno per uno, dopo improvvise e inspiegabili malattie, e infine Paolo III, i cui ultimi anni di pontificato furono amarissimi, con il celebre furibondo litigio con il cardinal Farnese, suo nipote, che lo prostrò a tal punto da gettarlo in una lunga malattia che lo portò a morte. 
Il sepolcro di Papa Paolo III Farnese a San Pietro

I fantasmi di Maria e Termanzia, però, continuarono a perseguitare il papa profanatore – racconta la leggenda – anche dopo la sua sepoltura che avvenne in San Pietro, e per la quale fu disposto un grandioso monumento funebre affidato a Giacomo della Porta. 

I fantasmi velati delle due donne, secondo il racconto popolare, continuarono ad infestare a lungo, per vendetta, il luogo del sepolcro del papa Farnese, lasciandovi traccia perfino nella grande statua bronzea raffigurante il pontefice che sovrasta il monumento e che secondo queste voci, è diventata sempre più scura proprio a causa delle malevole carezze lasciate dal passaggio dei due fantasmi femminili.

26/11/17

I Fantasmi di Roma: Storia infelice di Berenice, l'amante dell'imperatore Tito.



Storia infelice di Berenice, l’amante dell’imperatore Tito, e del suo fantasma

      Un fantasma romano molto popolare è quello di Berenice.
      E il suo luogo di elezione sembra essere il Portico d’Ottavia, a Roma, in quello stretto dedalo di vicoli e strade che si snodano tra il quartiere del vecchio Ghetto ebraico – il più antico d’Europa – e la Via del Teatro Marcello, alle spalle.  In particolare, il fantasma di Berenice pare scelga di manifestarsi proprio tra i ruderi romani sparsi in terra nello spazio antistante il teatro che fu dedicato nell’anno 13 a.C.  al generale Marco Claudio Marcello, nipote di Augusto (era infatti il figlio della sorella, Ottavia).

      Ma chi era Berenice ?
   
     La fortuna letteraria di questo personaggio è legata soprattutto, ovviamente, alla storia del teatro, e in specie al testo che a lei dedicò, nel 1670, Jean Racine, uno dei più grandi drammaturghi di tutti i tempi.
      Di Berenice, della vera Berenice, sappiamo che nacque nel 28 d.C. in Asia Minore,  e che era la figlia di Erode Agrippa, detto il Grande, che fu quel membro della dinastia dei re di Giudea che più ebbe contatti con il mondo romano, visto che fin da giovanissimo fu inviato nella capitale dell’Impero e divenne intimo dello stesso imperatore (Tiberio). 
      
     Berenice doveva essere davvero bellissima se è vero che a vent’anni era già stata sposata due volte, e alla morte del secondo marito – che era nientemeno che lo zio paterno -  si trasferì in Grecia, alla corte del fratello Agrippa II.   Ma anche in questo nuovo ambiente, decisamente più sofisticato del precedente, Berenice trovò il modo di ritrovarsi al centro di un nuovo scandalo, e per mettere fine alle voci di un incesto con il fratello, accettò di sposare il Re di Cilicia Polemone, molto più anziano di lei,  che la riportò in Asia Minore. 
      Ma il temperamento irrequieto di Berenice la portò ben presto a stancarsi di Polemone e della sua noiosa corte: riuscì a fuggire, e tornò nuovamente dal fratello.
      
      Ed è a questo punto della storia che nel cuore di quella che già era definita una meretrice si fece largo addirittura il nuovo imperatore di Roma, Tito, salito al potere nel 79 d.C. alla morte del predecessore, il padre Vespasiano.

     In realtà la tresca amorosa tra Tito e Berenice era cominciata ben prima della morte di Vespasiano,  allorquando l’imperatore aveva mandato proprio il suo prediletto figlio, Tito, che era stato allevato ai più nobili principi ed era un esempio di moderazione, in Palestina, per sedare le rivolte che erano scoppiate. Tito diede alle fiamme Gerusalemme, dove si erano asserragliati gli ebrei, distruggendo completamente il Tempio, e ottenne una vittoria completa.
     
      Quando tornò in patria, trovò che suo padre gli aveva preparato un tributo eccezionale (con l’erezione del celebre Arco che ancora fa mostra di sé nel foro Romano), ma l’anziano genitore rimase interdetto quando si accorse che il valoroso figlio attraversava l’Arco, tra le grida osannanti del Popolo Romano, portando al braccio una preda bellica imprevista, e cioè proprio quella bellissima principessa ebrea – Berenice -  che già numerosi cuori aveva infranto dall’altro lato del Mediterraneo, ma che aveva ben ventuno anni più di suo figlio.
      
       
Uno scandalo in realtà non v’era, perché questa di presentare le proprie conquiste amorose – specie se di rango regale – non era inconsueto per un comandante militare.  Il problema sorse però quando Tito comunicò al padre che non intendeva semplicemente inserire la nuova fiamma nell’elenco delle concubine, ma voleva addirittura sposarla, cioè inserire un’estranea nella linea di successione imperiale.  La vicenda divenne esemplare quando Vespasiano – ripetendo un copione consueto dei padri – cercò in ogni modo di convincere il figlio, adducendo anche la propria esperienza personale: anche lui, rimasto vedovo, aveva ceduto alle grazie di una concubina, ma s’era ben guardato dall’idea di sposarla. In questo caso poi, si trattava di un ebrea e la faccenda era ancora più grave.
           
          I dubbi e le insinuazioni paterne si unirono alle malelingue di corte, alle calunnie interessate, ma per qualche tempo non ottennero risultati e Berenice rimase al suo posto.  Soltanto, però, fino alla morte dell’imperatore Vespasiano: forse in un rigurgito di riconoscenza filiale, Tito, divenuto imperatore, trovò la forza di sottrarsi alla schiavitù amorosa impostole dalla bella e appassionata Berenice, e la cacciò – in omaggio alla ragion di stato – da Roma.  L’infelice, a quanto pare, stremata dai suoi tiramolla per sposarla, aveva finito anch’essa per disamorarsi del suo compagno, e come sintetizza eloquentemente Svetonio, Berenice statim ab urbe dimisit, invitus, invitam, ovvero Tito una volta diventato imperatore, controvoglia allontanò da Roma Berenice che anch’essa non lo voleva.    
      
      La vicenda di questo amore contrastato, che ripercorre l’antico tema del conflitto tra sentimento e doveri,  trovò come abbiamo detto in Racine un cantore memorabile, il quale rovesciò completamente gli stereotipi su Berenice, omettendo del tutto i suoi trascorsi scandalosi e incestuosi, trasformandola in un personaggio totalmente virtuoso, inventando un triangolo amoroso con il principe Antioco, re di Comagene (regione meridionale dell’Anatolia),  e facendone una vittima della bruta ragion di stato.   Nelle memorabili scene finali del dramma scritto da Racine, le reciproche minaccie di suicidio di Tito, di Antioco e di Berenice, finiscono in un nulla di fatto, e i tre decidono di accettare la volontà superiore e di separarsi, sacrificando totalmente l’amore, o quel che ne resta.
      
        È dunque senza alcun dubbio questo elemento romantico ante litteram, ad aver alimentato la leggenda dell’esistenza del fantasma di Berenice che ancora aleggerebbe sulla città di Roma: perché se quella dolorosa separazione fu accettata obtorto collo in vita,  essa brucerebbe ancora nell’intreccio delle anime.  E questo spiega perché la caratteristica attribuita al fantasma di Berenice sia proprio quella di manifestarsi nella zona del Portico d’Ottavia – non è un caso che la tradizione popolare abbia scelto questa zona, dunque,  ricordando le origini ebree della principessa -  per cercare di incontrare nuovamente il suo amante, l’imperatore Tito, e ottenere un tardivo risarcimento a quella inopinata cacciata.

       Il Portico d’Ottavia però, è legato strettamente anche al simbolo del potere esercitato da Tito, e quindi è davvero lo scenario perfetto per le ansie notturne del fantasma di Berenice:  è proprio in questo luogo infatti,  raccontano le cronache dell’epoca, che nel 71 d.C.  Tito e suo padre si presentarono dei tradizionali vestiti di seta color porpora, e con la corona d’alloro sul capo, circondati dai membri del senato e dai più alti magistrati, per ricevere l’omaggio delle truppe prima di iniziare il sacrificio  e la processione trionfale davanti a tutto il popolo di Roma festante.
      Per questo, sembra dire il fantasma di Berenice, per questo potere, oggi divenuto rovina,  tu mi hai sacrificato.











15/08/17

Ferragosto macabro: 1503, la terribile inumazione di Papa Borgia - Alessandro VI.




In una collezione di personaggi famosi maledetti a Roma – intorno ai quali sono sorti racconti di apparizioni post-mortem – non potevano e non possono mancare i rappresentanti della famiglia Borgia, o meglio Borja come sarebbe più corretto chiamarli visto che Rodrigo de Borja (quarto papa spagnolo della storia) eletto al soglio pontificio col nome di Alessandro VI, apparteneva come lo zio, Callisto III (al secolo Alonso de Borja) ad una potente famiglia originaria di Xàtiva, a 50 chilometri da Valencia. 

Eletto cardinale giovanissimo, a venticinque anni, grazie ai potenti influssi dello zio, Papa Callisto III, Rodrigo fu eletto papa nella notte tra il 10 e l’11 agosto del 1492 (due mesi esatti prima della scoperta dell’America da parte di Cristoforo Colombo) , quando aveva già 61 anni. 

All’epoca della sua elezione, Rodrigo era già un personaggio leggendario, a Roma. Dissoluto e libertino, asservito in ogni modo ai piaceri della carne, il futuro Papa aveva già messo al mondo una schiera di figli, tutti illegittimi, e – cosa ancora più grave per un ecclesiastico, ma certamente non rara all’epoca – si era disinvoltamente prestato alla simonia, cioè alla compravendita di cariche ecclesiastiche e della pratica delle indulgenze e delle assoluzioni. Queste cattive abitudini peggiorarono, anziché migliorare, una volta ottenuta la nomina papale

Ebbe altri due figli illegittimi dall’amante, ed esercitò uno spietato nepotismo per garantire ogni sorta di immunità e di potere per il figlio Cesare, detto Il Valentino, uomo particolarmente avido, violento e senza scrupoli, al quale il padre costruì un regno su misura, permettendogli la conquista di città e signorie in Italia, con l’aiuto perfino del nemico storico del papato, l’imperatore Carlo VIII di Francia. 

In questo modo Rodrigo-Alessandro VI riuscì nell’intento di farsi odiare dal popolo di Roma – arringato dalle piazzate del frate domenicano Girolamo Savonarola, che per la sua pubblica denuncia finì per essere arso vivo a Firenze nel 1498 - e dalla corte dei nobili che non vedevano l’ora di sbarazzarsi di un despota di tali dimensioni, sfacciatamente arrogante nella esibizione del lusso e della corruzione, adottata come lingua ufficiale dello Stato, e usata soprattutto per favorire la parte spagnola della corte papale

 Odio e maldicenza nei confronti del Papa si trasmettevano inevitabilmente anche ai suoi figli, soprattutto a Cesare e a Lucrezia, sul conto della quale – nata a Subiaco nel 1480 dalla relazione clandestina di Rodrigo con Vannozza Cattanei – cominciò a circolare ogni sorta di leggenda nera, compresa quella che la vedeva protagonista di vere e proprie orge incestuose, insieme al padre e al fratello. 

 In realtà molti testi recenti hanno riabilitato la figura di Lucrezia, delineando la figura di una donna più vittima degli eventi che realmente depravata: andata in matrimonio a soli tredici anni a un Conte, e dichiarato il matrimonio nullo, Lucrezia si sposò a diciotto con Alfonso, figlio del re di Napoli. Alfonso fu brutalmente ucciso per ordine di Cesare Borgia, forse geloso della sorella, o forse semplicemente desideroso di utilizzare nuovamente Lucrezia come pedina di scambio per i suoi desideri di conquista: cosa che puntualmente avvenne con un terzo matrimonio, stavolta con Alfonso I d’Este. 

Il terzo matrimonio fu anche l’ultimo: Lucrezia morì a Ferrara, a soli 39 anni di età, per una febbre infettiva. 

 Il grande caos messo in piedi da Alessandro VI, e dalla sua dissoluta famiglia, come si vede, autorizzava pienamente i nemici a tentare di escogitare ogni mezzo possibile per liberarsi del papa-tiranno. 

 Ciò che alimentò per molto tempo, e per i secoli a venire – anche se oggi la circostanza è oggetto di forte discussione tra gli storici - la voce che la fine stessa del Papa fosse dovuta ad un avvelenamento. 

Un avvelenamento che in realtà era stato, secondo il racconto, organizzato dallo stesso Alessandro VI ai danni di un cardinale nemico, durante un convivio, ma che per errore aveva finito per ritorcersi contro lo stesso Papa, e contro il figlio Cesare (miracolosamente sopravvissuto) per un banale scambio di calici

 Avvelenamento che fosse – o semplice malaria come si sospetta oggi – il Papa cadde malato l’11 agosto del 1503

 L’11 doveva essere il suo numero fatale: l’11 agosto, infatti era stato eletto, 11 agosto il giorno della malattia letale, e 11 anni esatti, dunque, la durata del suo Regno pontificio.

La malattia del Papa tiranno, come raccontano le cronache dell’epoca, assunse da subito contorni macabri: vi fu chi affermò recisamente di aver visto distintamente sette dèmoni in guisa di scimmie nere appollaiate di guardia nel soffitto della camera dove Alessandro moriva, mentre nel delirio invocava proprio il Principe delle Tenebre, il Maligno, affinché – in ossequio al patto maledetto contratto all’epoca della sua elezione - gli consentisse di regnare ancora per qualche anno, e di sopravvivere alla terribile congestione

L’appello, a quanto pare non venne ascoltato, non solo: i servitori del Papa, i funzionari di curia, perfino le suore che lo accudivano – secondo il racconto del cronachista Jacopo da Volterra – abbandonarono in fretta e furia il papa agonizzante, nel terrore certo che i dèmoni sarebbero presto giunti a impossessarsi dell’anima del defunto. 

 Il corpo di Alessandro VI andò così in fretta incontro ad una spaventosa putrefazione, al punto tale che i falegnami dovettero incassarlo a calci e martellate per come e quanto si era gonfiato, si trattava insomma del « più orribile e mostruoso corpo di defunto mai visto. Un cadavere talmente deforme che non aveva più figura umana » come annotò il diplomatico veneziano Antonio Giustiniani nel suo resoconto ufficiale

 Ora, se è pur certo che molti di questi particolari furono alimentati necessariamente dall’alone macabro che circondava la figura di Alessandro, resta il fatto che le circostanze della sua inumazione furono particolari, se non altro per il fatto che si svolsero nel caldo torrido di ferragosto: il cadavere del Papa, esposto parzialmente (soltanto i piedi, per l’adorazione dei fedeli) dietro l’inferriata del coro, cominciò ben presto a puzzare orribilmente. 

 Cosa che consigliò l’immediata inumazione che fu celebrata a mezzanotte (!) nella Rotonda degli Spagnoli (l’antica cappella che fiancheggiava la vecchia Basilica di San Pietro, che venne distrutta nei lavori di riedificazione della Cupola). 

 Narrare le peripezie del sepolcro dei Borgia – di quello di Alessandro che poi divenne anche quello di suo figlio, Cesare – sarebbe impresa ardua: basti dire che per quattro secoli queste spoglie non trovarono mai pace, più volte violate, riassemblate in casse comuni, trasportate da un luogo all’altro fino all’ultima destinazione, la chiesa di Santa Maria di Via Monserrato, alle spalle di Via Giulia, dove furono inumate nel 1881 e dove ancora si trovano, nella prima cappella dal lato dell’Epistola. 

 E proprio questo luogo, o meglio questa antica zona di Roma è teatro delle apparizioni del fantasma di Rodrigo de Borja: per molti anni, le spoglie dei Borgia giacquero nella chiesa del tutto dimenticate, ragione per cui non fu facile mettere in relazione quella misteriosa apparizione di un uomo avvolto da una tunica rossa e dal viso deforme più volte segnalata da terrorizzati passanti che ne riferivano l’incontro a notte fonda nei vicoli intorno a Piazza Farnese, in Via Giulia o lungo il Ponte Sisto. 

Quando dei Borja si ricominciò a parlare - anche per via della riabilitazione storica che qualche studioso ne tentò, e per l’interesse suscitato dagli spagnoli che vivevano a Roma, e che erano desiderosi di visitare quelle spoglie di cui nemmeno i diretti discendenti (i conti di Gandìa) avevano voluto occuparsi – fu naturale mettere in relazione la leggenda del terrorizzante fantasma che agitava le notti romane con il Papa dissoluto le cui ossa più volte profanate giacevano nella Chiesa di Santa Maria in Monserrato, denominata degli Spagnoli. 

 La leggenda nera dei Borja o dei Borgia, non poteva poi coinvolgere anche la bella Lucrezia. Anche il fantasma di colei che aveva soggiogato principi e regnanti, e che così infelicemente si era prestata alle oscure trame famigliari, infatti ha trovato il modo di manifestarsi più volte nella storia: in particolare un pianto accorato sembra che sia il segnale che del fantasma di Lucrezia Borgia è possibile ascoltare passando sotto il vecchio Forte di Nepi, una cittadina non lontano da Roma, in provincia di Viterbo. Di Nepi, Lucrezia divenne in vita Signora grazie ad una solenne cerimonia che si svolse nel 1499, e durante le quali le furono affidate le chiavi della città. 

 Per Lucrezia, il padre Rodrigo fece costruire, alla confluenza di due torrenti, quella grandiosa Rocca, negli appartamenti della quale, la ragazza riuscì a vivere però – insieme allo sposo Alfonso – soltanto per un anno, prima che come abbiamo detto i sicari di Cesare non la resero vedova. Ed è nelle sale e nei giardini di questo castello, a quanto pare, che il fantasma di Lucrezia ancora non ha smesso di cercare pace.

08/07/16

Beatrice Cenci, storia del fantasma più famoso di Roma.


Rappresentazione di Beatrice Cenci in una fotografia di Julia Margaret Cameron



Oggi, 8 luglio ricorre l'anniversario della nascita di Artemisa Gentileschi (8 luglio 1593), la grande pittrice romana. La ricordiamo con questo episodio poco conosciuto della sua vita, quando assistette in piazza alla esecuzione capitale di Lucrezia Borgia. 




La storia di Beatrice Cenci, il più famoso fantasma di Roma.


Il fantasma forse più famoso di Roma è quello di Beatrice Cenci, che con il tempo divenne una vera e propria eroina popolare, per tutti, ma che, prima di diventare un terrorizzante fantasma che si dice compaia ancora oggi portando la sua testa recisa tra le mani, fu la vittima sacrificale in un vero e proprio caso giudiziario, tra i più scandalosi e dibattuti dell’intera storia della Capitale.

Di questo processo infatti, parlò tutta Roma, e per secoli interi la fama della intricata vicenda influenzò grandi scrittori come Stendhal, Percy B. Shelley e Alexandre Dumas.

E c’era tutta Roma quel giorno, l’11 settembre (giorno non proprio fortunato, a giudicare dai corsi e ricorsi storici) del 1599 ad assistere, nella Piazza del Castel Sant’Angelo, alla terribile esecuzione della bella Beatrice, accusata di parricidio, e dei suoi complici.

Una folla incontenibile tanto che, nel caldo afoso in tanti svennero per la calca, altri addirittura finirono nel fiume.

Tra loro c’era anche il giudice Ulisse Moscato che aveva proclamato la sentenza di morte, c’erano i più grandi avvocati dell’epoca, Molella e Farinacci, che si erano divisi i ruoli della difesa e dell’accusa, c’erano turisti e curiosi, frati confessori e tutti i rampolli delle famiglie nobili dell’epoca, c’erano soldati e artisti: tra questi ultimi, perfino Michelangelo Merisi da Caravaggio e Artemisia Gentileschi, i più grandi dell’epoca.

È facile immaginare quale suggestione dovette suscitare l’esecuzione dei condannati. Prima madama Lucrezia, la matrigna di Beatrice e poi la stessa Beatrice furono decapitate a fil di spada.

Dopo di loro, Giacomo, il fratello più grande di Beatrice, fu squartato davanti alla folla, dopo che durante il tragitto fino al patibolo era stato torturato con tenaglie roventi.

Ma cosa avevano fatto costoro di così grave e imperdonabile per essere stati condannati a una fine pubblica così atroce? La vicenda umana di Beatrice, che visse soltanto ventidue anni, è tra le più tristi che si ricordi nella lunga storia di Roma.

Eppure la ragazza, quando era nata, il 12 febbraio del 1577, sembrava possedere tutte le caratteristiche del privilegio.

Beatrice era infatti nata dal matrimonio tra il Conte Francesco Cenci, che aveva ereditato una somma favolosa dal padre, dignitario e tesoriere della Camera Apostolica, ed Ersilia Santacroce. Come si usava spesso all’epoca, era un matrimonio consumato tra due adolescenti: gli sposi infatti avevano soltanto quindici anni.

Nei successivi venti, Ersilia diede al Conte ben dodici figli, tra cui due femmine, Antonina e Beatrice. Tutti i guai, nella vita di Beatrice, derivarono proprio dal padre, uomo terribilmente dispotico, collerico, violento con manie di persecuzione.

Quando Ersilia morì di parto, nel 1584, l’uomo mandò le figlie in un convento. Beatrice aveva allora soltanto sette anni. Restò per otto anni in clausura, finché, ormai adolescente, le fu permesso di rientrare in casa. Qui però trovò una situazione ancora più insostenibile. Il padre era ormai in preda a un vero delirio di dissoluzione: continuamente coinvolto in risse da strada, fatti di sangue, piccoli e grandi scandali (tra cui un’accusa di sodomia) stava minando il suo ingente patrimonio pagando avvocati senza scrupoli che lo liberavano dai guai a prezzo di spaventosi onorari.
La vita in famiglia, specialmente per le due figlie femmine, dovette molto presto tramutarsi in un inferno. E così quando Antonina, dopo aver scritto una supplica al papa, ottenne l’autorizzazione da Clemente VIII di sottrarsi alla autorità paterne e di convolare a nozze con il rampollo di una nobile casata di Gubbio, il padre, il conte Francesco, nel timore di perdere anche Beatrice, decise di segregarla.

La rinchiuse insieme a Lucrezia, la nuova moglie che aveva sposato nel 1593, in un remoto e lugubre castello, chiamato La Rocca, nella provincia del reatino, non distante dalla Valle del Salto.

Tutti i tentativi di Beatrice di evadere dalla prigione, anche con il ricorso a servitori o amici di famiglia, si rivelarono infruttuosi: non solo, per sfuggire ai debiti che stavano diventando insostenibili, ormai anche malato, il Conte pensò bene di trasferirsi lui stesso a La Rocca, portando con sé i due figli più piccoli, Bernardo e Paolo.

 La vita in quel luogo desolato divenne ancora più dura. Beatrice doveva subire ogni tipo di angheria e assistere ai maltrattamenti che il vecchio despota imponeva alla matrigna e ai figli.

Quando il vaso fu colmo, i figli decisero di passare all’azione e di sbarazzarsi con ogni mezzo del terribile padre. I primi due tentativi – un’imboscata organizzata da briganti presi a tradimento, e un avvelenamento – andarono a vuoto. Ma il terzo, andato in scena con la complicità di due servitori di stanza a La Rocca (i quali anche loro non ne potevano più del padrone), Marzio da Fioran, detto il Catalano, e Olimpio Calvetti, riuscì, anche se non così perfettamente come si era sperato: il fratello maggiore, Giacomo, in visita al Castello, preparò la pozione con l’oppio che servì a stordire il vecchio. Quando si fu addormentato, Marzio, senza pietà gli spezzò le gambe con un tortore, e Olimpio lo finì con un chiodo nella gola.

Fatale, per la cattiva riuscita del crimine, fu la decisione di simulare, come causa di morte, la caduta da un ballatoio del castello.

Il cadavere fu ritrovato la mattina dopo, ai piedi delle mura, e figli e moglie piansero finte lacrime per indurre a credere che si fosse trattato di una semplice disgrazia. Sulle prime il depistaggio riuscì.

 Il Conte fu seppellito nella chiesa del posto, e i famigliari fecero ritorno a Roma, nel palazzo della famiglia Cenci, apparentemente liberi dall’ossessiva presenza del vecchio padre-padrone. Ben presto però, in città cominciarono a correre voci e maldicenze sulla fine del Conte. Furono ordinate due inchieste.

La prima senza apparenti risultati, la seconda, richiesta direttamente dal Viceré di Napoli e con il parere favorevole del papa stesso, portò invece alla riesumazione del cadavere, all’esame di tutte le ferite presenti sul corpo, e all’interrogatorio serrato di diversi testimoni, tra cui una lavandaia del castello che confessò di aver nascosto un lenzuolo macchiato di sangue «che la figlia, Beatrice, aveva detto essersi macchiato del suo liquido mestruale».

 I presunti colpevoli, i due servitori, i fratelli Giacomo, Beatrice e Bernardo, e la matrigna Lucrezia furono dunque arrestati e cominciò per loro il calvario delle torture, che venivano usate sistematicamente per ottenere la confessione.

Il primo a cedere fu Olimpio, che in cambio della delazione degli altri complici fu lasciato fuggire, salvo poi essere ucciso da prezzolati sicari al soldo della famiglia Cenci, che temeva nuove confessioni a danno di altri membri del casato.

Anche l’altro servitore, Marzio, morì durante i feroci interrogatori.

Alla sfortunata Beatrice, che inizialmente negò tutto attribuendo le colpe unicamente ai domestici del castello, toccò il terribile supplizio della corda: il condannato, sospeso a mezz’aria a una corda pendente dal soffitto, con le braccia legate dietro la schiena, non poteva resistere.

 Non conosciamo con certezza il ruolo che Beatrice ebbe nel complotto per uccidere il padre. Fatto sta che la sua ammissione bastò per farle meritare la massima condanna, insieme agli altri complici del delitto.

Gli imputati vennero rinchiusi nelle carceri di Tordinona e di Corte Savella e a nulla valsero i tentativi dell’avvocato difensore. Beatrice avrebbe dovuto, per discolparsi, denunciare di essere stata violentata dal padre, ma la ragazza si rifiutò di farlo e la condanna fu emessa, senza indugi, per lei, per madama Lucrezia e per Giacomo.

Il fratello più piccolo Bernardo, ancora minorenne, fu risparmiato, e la sua pena commutata in lavori forzati a bordo delle galere pontificie. Dalla sua cella della prigione di Corte Savella, che sorgeva nei pressi del giardino degli Aranci sull’Aventino, Beatrice cercò di sfruttare anche una occasione che il caso le mise a disposizione: la terribile alluvione dell’inverno del 1598 che, con lo straripamento del Tevere causò anche il definitivo crollo del celebre Ponte Rotto, il più antico di Roma, di cui restarono solo pochi ruderi, in mezzo al letto del fiume.

Tratto da Fabrizio Falconi, I fantasmi di Roma, Newton Compton, nuova edizione, 2015

09/01/16

Tornano in libreria in edizione tascabile "I fantasmi di Roma".



Tornano in libreria dal 14 gennaio I fantasmi di Roma di Fabrizio Falconi

Cop. flessibile € 9,68
Cop. rigida € 4,43


La storia della città eterna attraverso i suoi misteri, le inquietanti presenze, le figure spettrali. Lo spirito di Messalina, le ombre che frequentano le catacombe cristiane, i celebri spettri di Beatrice Cenci e Lucrezia Borgia; altri meno conosciuti come la bella Costanza De Cupis, il fantasma dalle mani mozze o l’infelice Emmeline che abitò la splendida Villa Stuart, e poi i fantasmi di Shelley e Keats fino alle ossessioni di Dario Argento: questo libro ripercorre la storia millenaria della città dei papi e degli imperatori da un punto di vista insolito, attraverso i racconti dei suoi fantasmi e delle sue presenze occulte. Ne emerge una Roma dai tratti magici, legata alle religioni e ai riti misterici del passato, alla tradizione etrusca, ai culti orientali, ai primi riti cristiani. Si parte dai fantasmi che si dice infestino i teatri della città antica e imperiale, per passare a quelli creati dai roghi e dai processi della Santa Inquisizione, e arrivare infine ad alcune presenze più vicine a noi: una finestra su una Roma esoterica misteriosa, inquietante e dal fascino sorprendente. 

Tra i fantasmi di Roma: 
Storia infelice di Berenice, l’amante dell’imperatore Tito, e del suo fantasma 
Il Pantheon, monumento esoterico per eccellenza, e i suoi abitanti misteriosi 
La notte delle streghe e il fantasma di Salomè al Laterano 
Le geometrie di Athanasius Kircher e il suo spaventoso museo del Collegio Romano 
Il fantasma di Donna Olimpia Maidalchini, la Pimpaccia, la donna più temuta di Roma 
Piazza Vittorio e la porta magica degli alchimisti 
Il fantasma di Lorenza, moglie del Conte di Cagliostro 
I fantasmi del Museo delle Anime del Purgatorio 
Beatrice Cenci, il più famoso fantasma di Roma 
I Borgia a Roma, una storia di fantasmi 
Costanza de Cupis, la nobildonna dalle mani mozze 
Il fantasma della chiesa dei Cappuccini e il racconto gotico di Hawthorne 
Shelley e Keats, fantasmi a Roma 
I fantasmi di Emmeline e di Lord Allen e Villa Stuart 
Il Quartiere Coppedè, set per Dario Argento

15/05/15

Il Museo delle anime del purgatorio a Roma. Un luogo misterioso.


          



 C’è un luogo a Roma davvero particolare,  e quasi del tutto ignoto agli stessi romani, che ha una storia meritevole di essere raccontare, in special modo per gli appassionati di misteri.  Sorge in luogo di grande passaggio, sul Lungotevere Prati, esattamente in quel punto, prima del Palazzaccio – il Palazzo di Giustizia – dove fa bella mostra di sé uno dei pochissimi edifici in stile neogotico della Capitale: la Chiesa del Sacro Cuore del Suffragio, quell’edificio che i Romani chiamano ‘il Duomo di Milano in miniatura.’   Si tratta di una piccola chiesa  costruita in cemento armato  alla fine del secolo scorso dall’architetto Giuseppe Gualandi, commissionata dal missionario francese Victor Jouet per ospitare l’Associazione del Sacro Cuore di Gesù per le Anime del Purgatorio, da lui fondata.  

Questa associazione religiosa era nata proprio con l’intento di pregare per quelle anime che si erano manifestate in modo eclatante  – a giudizio del missionario stesso e di molti altri testimoni – nelle circostanze drammatiche che avevano riguardato un edificio che sorgeva proprio sullo stesso luogo dove poi fu realizzata la Chiesa attuale: si trattava di una piccola cappella dedicata alla Vergine del Rosario che un giorno – il 15 settembre del 1897 -  andò distrutta completamente per via di un incendio.  Sembra che in quel periodo la chiesetta fosse stata sottoposta a restauri.  Improvvise si levarono le fiamme, e quando, spento l’incendio, i soccorritori valutarono i danni, si resero conto che su uno dei pilastri rimasto in piedi era rimasta impressa una strana ombra assai rassomigliante alla testa di un uomo.   Ma anche altre strane figure emersero sui muri delle macerie, compresa una immagine di un volto ghignante – subito identificato con quello di Satana – esattamente al di sopra dell’Altar Maggiore, dal punto dove si erano levate le prime fiamme.

Jouet, il missionario, notevolmente impressionato dall’accaduto, non tardò a spiegare la presenza di quelle ‘ombre’,  come nient’altro che tracce lasciate dalle anime del purgatorio.   Secondo una antica tradizione, infatti, le anime in transito dall’inferno al paradiso, possono manifestare la loro presenza su questa terra lasciando impronte infuocate su  vestiti, stoffe, libri, ecc..


Il missionario cominciò così una paziente opera di catalogazione di tessuti, breviari, tavolette di tela e di legno sulla superficie delle quali erano apparse queste impronte misteriose appartenenti a spiriti di defunti, fino a costituire nell’anno 1900 un Museo delle Anime del Purgatorio, che ancora oggi è conservato e che risulta particolarmente suggestivo o impressionante per chi varca la soglia della Chiesa sul Lungotevere.

Il piccolo Museo, dal quale si accede attraverso una porticina della sacrestia, è contenuto in alcune teche  e armadi, il cui numero con il passare del tempo è notevolmente diminuito, a seguito della eliminazione di alcuni pezzi ritenuti spurii, e alla stessa volontà di non concedere troppo spazio alla propagazione di credenze nei confronti delle quali le gerarchie ecclesiastiche preferiscono mantenere una certa distanza.

22/09/14

Lo spaventoso "Pozzo del Merro", alle porte di Roma, l'abisso più profondo del mondo.





Tra le storie di fantasmi contemporanei a Roma ci sono quelle che riguardano le incredibili cavità sotterranee che soggiacciono non solo al territorio urbano, ma anche a quello immediatamente extra-urbano. 

Si tratta di luoghi spaventosi e affascinanti, come il Pozzo del Merro, un pozzo naturale noto sin dai tempi della Roma Antica, simile per morfologia ai cenotes messicani, sito nella campagna del Lazio, nel comune di Sant'Angelo Romano.

In mezzo ad una fitta vegetazione compare quasi dal nulla questa cavità che si presenta come un cratere, sul fondo del quale la proliferazione di alghe superficiali nasconde l’esistenza di un laghetto. 

La particolarità, davvero incredibile è che, si tratta realmente di un pozzo senza fondo: le più recenti esplorazioni, dapprima da parte di speleologi subacquei (che ha permesso il recupero di reperti risalenti al Giurassico), poi con l’ausilio di sofisticati robot, ha stabilito che la profondità del Pozzo del Merro eguaglia e supera l’equivalente dell’altezza della Torre Eiffel: le rivelazioni compiute dai tecnici dell'Università di Tor Vergata, infatti, parlano di circa 400 metri (392 metri per l’esattezza), che è il limite massimo a cui le misurazioni sono giunte, il che ne fa la cavità naturale più profonda del mondo.

Il fondo, però, sottolineano gli esperti, non è stato ancora raggiunto. Ovvio che un luogo così affascini geologi e speleologi di mezzo mondo, e i naturalisti che hanno l’occasione di scoprire e analizzare le forme di vita che riescono a vivere a profondità così assolute.

Di cavità così, anche se non con profondità record come quella del Merro, ne esistono molte a Roma.

Una delle più famose, nel tessuto urbano, è il cosiddetto Abisso Charlie, scoperto dallo speleologo Carlo Pavia nel 1992 (2), che si trova al di sotto della collinetta tufacea di Villa Glori, dove esiste un grande pozzo nel quale gli antichi romani gettavano degli ex voto, dal cui stretto ingresso nascosto tra le sterpaglie vicino ai resti di un tempio si accede ad una cavità, per gran parte occupata da acqua, che scende fino a 50 metri e oltre di profondità.

L’esistenza di questi cenotes romani ha partorito o giustificato la presenza di numerosi racconti di fantasmi fioriti intorno al mito di luoghi che sembrerebbero mettere in comunicazione direttamente con il mondo dei morti o degli inferes.   





Fabrizio Falconi  (C) - riproduzione riservata - materiale  tratto da I Fantasmi di Roma.