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25/04/22

"L'uomo dimentica l'unica cosa che lo distingue dall'animale". Una pagina meravigliosa e terribile di Cechov


La casa col mezzanino
, che ha il sottotitolo Racconto di un artista, scritto nel 1896, è uno dei racconti più famosi di Anton Cechov. 

Due sorelle, Zenja timida e dolce e Lida forte e dura, conoscono un pittore (chiamato Monsieur N., ovvero il Narratore). Le convinzioni idealistiche di progresso di Lida, tra le quali la costruzione di un nuovo ospedale, si scontrano violentemente con quelle pessimistiche e mistiche del pittore, convinto assertore del bene dell'anima. Quando Zenja si innamora dell'uomo, Lida la manda lontano ed il pittore non le vedrà mai più.

In questo racconto, dove si incontrano e si scontrano due diverse concezioni del mondo, che si potrebbero far risalire a Marta e Maria del racconto evangelico (In Luca, 10,28) c'è una meravigliosa e terribile pagina in cui il pittore descrive con poche e definitive parole la brutalità della condizione umana che ahimé - nonostante sia passato più di un secolo - non sembra cambiata, almeno in molte parti del mondo.

L'importante non è che Anna sia morta di parto, ma che tutte queste Anne, Mavre, Pelageje, debbano curvare la schiena dalla mattina alla sera, ammazzarsi di fatica, tremare per i loro bambini affamati e ammalati, vivere nel terrore delle malattie e della morte, che imbruttiscano e invecchino presto, che muoiano nella sporcizia e nel fetore; e i loro figli, crescendo, ricominciano la stessa musica, e così per centinaia di anni: miliardi di uomini vivono nel terrore, peggio delle bestie, solo per conquistarsi un pezzo di pane.

La cosa più spaventosa della loro situazione è che non hanno un minuto per ricordarsi che hanno un'anima, che sono esseri umani fatti a immagine e somiglianza di Dio; la fame, il freddo, il terrore animale, la fatica, come valanghe di neve, hanno chiuso loro tutte le strade verso qualsiasi forma di vita spirituale, ossia verso l'unica cosa che distingue l'uomo dall'animale e per cui vale la pena vivere.

Voi credete di aiutarli con scuole e ambulatori, ma non li liberate dalle catene, anzi, peggiorate la loro condizione di schiavitù, introducendo nuovi pregiudizi e di conseguenza nuovi bisogni, senza parlare poi del fatto che per medicine e libri devono pagare e quindi curvare la schiena ancora di più. 

Tratto da Anton Cechov, Racconti, 2004 Gruppo Editoriale L'Espresso, p.243 

04/08/17

L'Euforia della distruzione, l'Umiltà della costruzione.





Sembra la cosa più difficile del mondo, essere - come scrive Ezra Pound nell'ultimo verso dei Cantos - uomini, non distruttori

Gli esseri umani, da sempre, provano una euforia profonda nel distruggere.  

Distruggere esaudisce un desiderio di potenza che l'uomo tenta ad ogni passo di decretare nel breve corso della sua esistenza, schiacciata da grandezze incommensurabili (la Terra, l'Universo, l'Infinito). 

Essere capaci di distruggere è la massima espressione della individualità umana, che appaga la certezza di essere al mondo e quindi di poterne essere arbitro della sua esistenza (del mondo), anche se di una piccolissima porzione di mondo. Si potrebbe dire: distruggo quindi sono.

Oltretutto distruggere è enormemente più facile e breve (e quindi gratificante) che costruire. Grazie a questo, distruggere procura anche una consistente euforia, che è quella ribelle, iconoclasta e soddisfatta di Dioniso:

ci vogliono decenni e secoli interi per costruire il centro di una città - le sue difficili armonie architettoniche, le sue delicate strutture;  ma bastano i pochi secondi del fischio delle bombe sganciate da un B52 per mettere fine a tutto, e fare tabula rasa;

ci vogliono anni, lustri e decenni per costruire relazioni umane - amicizia, amore - fondate sulla fiducia, sulla comprensione, sulla cura; ma bastano due sole parole pronunciate o scritte per distruggerle definitivamente; 

ci vogliono mesi e anni per costruire pazientemente un mandala, l'umiltà di stare chini per ore e ore in piena concentrazione per disporre la sabbia - l'elemento più volatile che esista - in un ordine armonico pieno;  ma bastano 15 secondi per distruggerlo, raccogliere la polvere, metterle in un'urna e gettarla nel mare. 

L'Euforia del distruttore è potenzialmente molto più energetica della pazienza o dell'umiltà del costruttore, e anche riferita al destino complessivo della razza umana - sembra destinato a prevalere, proprio perché fa parte dell'essenza più intima e in-guaribile dell'animale umano.

Fabrizio Falconi





26/01/15

In fuga dall'Isola.






Una volta abitavamo, insieme, sul Continente. Il Continente era fatto di terra odorosa e solida. Il Continente è da dove veniamo. Sul Continente abbiamo imparato – a prezzo di guerre e catastrofi – a convivere. Il Continente è la nostra storia, la nostra maledizione e il nostro rimpianto. I greci, sul Continente, hanno prodotto idee. I romani strade. I cristiani una fede.  E per molto molto tempo questo è bastato. Poi, tutto questo non è bastato più. 

Il Continente divenne, senza che quasi ce ne accorgessimo, inabitabile. I nostri padri ci abbandonarono. Molti di loro morirono ammazzati, altri, molti, si disinteressarono di noi. Venti contrari e siccità, una intollerabile promiscuità ci convinse che era l’ora di abbandonare il continente, e andare per mare. 

Qualcuno di noi, per primo, trovò l’Arcipelago. Ora viviamo qui, e la situazione nuova ci mette a disagio. La luce è abbagliante, e ci costringe a tenere gli occhi socchiusi. Il silenzio è abitato da un rumore di fondo indistinto, il rumore del mare, che rende pazzi. Ciascuno di noi è solo. 

 Per comunicare con gli altri di noi, che sono sulle altre isole, abbiamo bisogno di mezzi meccanici. Non sempre funzionano. Ma hanno il vantaggio di illuderci. 

E l’illusione è sempre meglio della realtà, così almeno ci illudiamo che sia. Vivendo sull’isola non sappiamo più bene chi siamo. 

Il tempo è indistinto. Sull’isola, ogni giorno vale come un altro. Sull’isola, non abbiamo punti di riferimento. 

Al punto tale che anche l’isola potrebbe muoversi, nella corrente, senza che ce ne accorgiamo. 

Un barlume di orientamento potrebbe venire soltanto dal cielo, di notte, quando brillano le stelle. Ma alla sera, siamo troppo stanchi per alzare gli occhi al cielo. 

Sull’isola, poi, tutto è relativo: non esistono bello e brutto, perché ci sono soltanto io qui, a giudicare. E ciò che sulla mia isola è bello, non lo sarà sulla tua. Non esiste giusto o ingiusto perché sono io il promulgatore della giustizia dell’isola e non pretendo di amministrarla su un’altra isola. Le isole sono collegate da canali. E’ difficile attraversarli, ma non impossibile. 

Ogni tanto mi assale una feroce nostalgia del Continente. Ma so già che non potrei mai tornarvi. Lo troverei cambiato per sempre, preda della giungla e degli animali feroci. Sull’isola, scavo ogni giorno un pezzetto di terra, e vi deposito qualcosa di me: unghie, denti che cadono, capelli. Fecondo la terra, ma so che nessuna terra può essere fecondata in mezzo alle tempeste del mare. Di notte imbastisco una preghiera. Qualcosa che ricordo di aver imparato da bambino. Poi mi perdo le parole, e devo ricominciare daccapo. 

Lo so, impazzirò se le cose continueranno così. Nessun colore di frutto o di foresta, di corallo o di mare, nessuna visione potrà salvarmi. La mia salvezza è la fuga dall’Isola. E’ quel che farò. Come un folle, mi lascerò portare alla deriva su qualche letto di canne. Sono sicuro che il mondo non è sparito, oltre queste isole. Ne sento, anzi, il soffio in lontananza. Ne sono sicuro. 

Oggi, nel mio taccuino rilegato in pelle scura ho scritto queste parole. Le ho ricopiate, le ha scritte quaranta anni fa un uomo che è morto, quattro mesi dopo averle scritte, in un incidente aereo, in Congo: 

Io non so chi – o che cosa – abbia posto la domanda. Non so quando essa sia stata posta. Non so neppure se le ho dato una risposta. Ma una volta ho risposto sì a qualcuno – o a qualcosa. Da quel momento è nata la certezza che l’esistenza ha un senso e che perciò, sottomettendosi, la mia vita ha uno scopo. Da quel momento ho saputo cosa significhi non guardare dietro a sé, non preoccuparsi del giorno seguente. Guidato attraverso il labirinto della vita dal filo d’Arianna della risposta, ho raggiunto un tempo e un luogo, in cui venni a sapere che il cammino porta a un trionfo, e che il crollo a cui esso conduce è il trionfo; venni a sapere che il premio per l’impegno nella vita è l’oltraggio, e che l’umiliazione più profonda costituisce l’esaltazione massima che all’uomo sia possibile. Da allora la parola coraggio ha perduto il suo senso, in quanto nulla poteva venirmi tolto.  

Queste parole mi hanno dato speranza. E mi sono ricordato che la speranza era la qualità di mio padre, e prima di lui di mio nonno, e dei padri dei miei padri. Ho preso il largo, di sera, e non temevo la notte.

L’isola si allontanava, ma era dentro di me. Io ero l’isola. E la nuova terra, la nuova fertile terra, sarebbe stata l’anima vivente di tante nuove isole, senza più mare a confonderle, a perderle. Pensavo, mentre nuotavo, alla solita domanda insistente: To be or not to be ? E' stato allora che di fronte alla disperazione di Amleto:  the time is out of joint (il mondo è fuori dei cardini), mi sono ricordato della risposta giusta del Bardo: born to set it right (nato per rimetterlo in sesto). E sono arrivato al termine del mare. 


 Fabrizio Falconi - (C) riproduzione riservata) - 2009

06/11/13

Epicuro e il giardino nel quale vorrei abitare.





Il corpo è stanco della tirannia della mente.

Sembriamo sempre più incapaci di abbandonarci, di mettere a dormire la mente, di dedicarci alle virtù che nobilitano l'essere umano. 

Incollati agli specchi riflettenti il nostro io (quello più superficiale) sembriamo diventati impermeabili all'ascolto di se stessi. 

Cambiare è possibile.

Nel 306 avanti Cristo un ateniese di nascita (ma ionico d’adozione), Epicuro, acquistò una casa nell’esclusivo quartiere di Melite e un piccolo giardino appena fuori dalla porta del Dipylon (la stessa strada che portava all’Accademia di Platone).
In questo giardino Epicuro – che ai tempi d’oggi abbiamo tristemente umiliato come epigono della filosofia del carpe diem, cioè della soddisfazione edonistica dei desideri (niente di più lontano da quanto egli ricercava e sosteneva) – edificò la sua Accademia, per un mondo che immaginava nuovo, per la conquista dell’ataraxia (la pace dell’anima o tranquillità spirituale).

I mezzi che Epicureo identificò sono gli stessi che anche oggi servirebbero a fare di un uomo una persona, e di un gruppo una comunità di umana, vera.

La principale virtù epicuree è l’amicizia: di tutti i beni che la saggezza procura per la completa felicità della vita, il più grande di tutti è l’acquisto dell’amicizia, scrive Epicuro.

Dalla amicizia discende l’importanza della conversazione. Non c’è piacere più grande né forma più alta di felicità mortale di una conversazione intelligente tra amici che sappiano ascoltarsi e trarre ispirazione, imparando gli uni dagli altri.

Con lo stesso spirito il filosofo greco raccomandava di coltivare la soavità nei modi e nel carattere. La soavità è agli antipodi della rudezza dei cinici, dell’altezzosità dei platonici e dell’austerità degli stoici.

Strettamente legata alla soavità è poi l’epieikeia, la considerazione per gli altri.  Che si manifesta attraverso la gentilezza, la civiltà, la cortesia, il rispetto.

C’è poi la franchezza nel parlare, contro l’adulazione e la ruffianeria.

E infine le ultime tre virtù pazienza, speranza e gratitudine, proiettate come disposizioni esistenziali verso le estasi temporali - presente (pazienza), futuro (speranza), passato (gratitudine).
Di queste, la più importante dice Epicuro è la gratitudine: la vita dello stolto,  scrive, è ingrata e sempre rivolta al futuro. 

Ecco:
amicizia, conversazione, soavità, considerazione per gli altri, franchezza nel parlare, pazienza, speranza, gratitudine. 

Ecco il giardino nel quale vorrei abitare.