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21/12/21

Qual è il libro più incomprensibile mai scritto? Il mistero del Codice Voynich

 


Se si potesse stilare una classifica dei libri più incomprensibili mai scritti, non v'è dubbio che la palma d'oro andrebbe al Manoscritto Voynich

Di che si tratta, esattamente?

Il manoscritto Voynich è un codice illustrato scritto a mano con un sistema di scrittura altrimenti sconosciuto , denominato "voynichese"

La pergamena su cui è scritta è stata datata al carbonio all'inizio del XV secolo (1404-1438) e l'analisi stilistica indica che potrebbe essere stata composta in Italia durante il Rinascimento italiano. 

Le origini, la paternità e lo scopo del manoscritto sono dibattute. 

Sono state suggerite varie ipotesi, inclusa quella che si tratti di uno scritto altrimenti non registrato per un linguaggio naturale o un linguaggio completamente inventato, un codice cifrato, o altra forma di crittografia; o semplicemente una bufala senza senso. 

Il manoscritto è attualmente composto da circa 240 pagine, ma ci sono prove che mancano pagine aggiuntive. Alcune pagine sono fogli pieghevoli di varie dimensioni. 

La maggior parte delle pagine presenta illustrazioni o diagrammi fantastici, alcuni a colori rozzamente, con sezioni del manoscritto che mostrano persone, piante fittizie, simboli astrologici , ecc. 

Il testo è scritto da sinistra a destra. 

Il manoscritto prende il nome da Wilfrid Voynich, un libraio polacco che lo acquistò nel 1912. 


Il manoscritto Voynich è stato studiato da molti crittografi professionisti e dilettanti, inclusi decodificatori americani e britannici della prima e della seconda guerra mondiale

Resta un incredibile rompicapo, visto che il manoscritto non è mai stato decifrato in modo dimostrabile e nessuna delle tante ipotesi proposte negli ultimi cento anni è stata verificata in modo indipendente. 

La cosa certa è che il mistero del suo significato e della sua origine ha eccitato l'immaginario popolare, rendendolo oggetto di studio e speculazione, soprattutto da parte di cultori dell'esoterismo.

24/10/21

Cagliostro a Roma: Una incredibile avventura

 



L’eretico Conte Cagliostro e il rogo di libri maledetti a Santa Maria Sopra Minerva


Uno dei personaggi più controversi del Settecento fu sicuramente quel Giuseppe Balsamo, palermitano, passato alla storia con il ben più famoso appellativo di Conte di Cagliostro. 

La storia di Cagliostro a Roma nasce quando Giuseppe – alias Alessandro, come scelse di chiamarsi in seguito il sedicente Conte – sposò Lorenza, la figlia analfabeta e a quanto pare bellissima di un orafo. Il matrimonio si consumò nel giorno dell’anniversario della fondazione di Roma – il 21 aprile del 1768 -  in una storica chiesa del rione Regola: San Salvatore in Campo. 

Cagliostro all’epoca aveva venticinque anni,  ma si era già lasciato alle spalle  un passato turbinoso fatto di fughe, ribellioni, piccole truffe che dalla sua Sicilia lo avevano poi portato, dopo viaggi avventurosi,  a Roma.  Qui l’intraprendente giovane aveva aperto una fiorente bottega di falsario (i documenti erano la sua specializzazione) al Vicolo delle Grotte, sempre in quel quartiere della Regola, a due passi da Via dei Giubbonari.

A Roma, il futuro Conte di Cagliostro non si fece certo passare inosservato: venne arrestato per una rissa scoppiata in una taberna al Pantheon,  e dopo qualche giorno venne rilasciato soltanto grazie all’interessamento di un amico che svolgeva le mansioni di maggiordomo in una delle case più importanti di Roma, quella abitata dal Cardinale Orsini

Lorenza e Giuseppe, sposandosi, stipularono una specie di patto di sangue che li portò nel giro di un trentennio  a sconquassare le nobili corti di mezza Europa: lui imbastendo improbabili traffici, stregonerie, guarigioni miracolose,  pseudo artifici alchemici, riti esoterici, che gli guadagnarono la fama del più grande furfante del secolo, lei mettendo a disposizione le sue arti amatorie per sedurre e ammorbidire mecenati, conti (veri) e marchesi, ricchi gentiluomini, e farli diventare strumenti in mano all’ingegnoso e mai domo marito. E ciò ovunque: nel nord Italia – a Bergamo vengono arrestati e poi rilasciati – in Francia,  Spagna, a Lisbona, Londra, e ancora in Francia, Belgio, Germania, Malta, Olanda, Lettonia, San Pietroburgo. Non c’è angolo della vecchia Europa che non li veda protagonisti di qualche intrigo, di qualche teatrale messinscena, di qualche fuga rocambolesca, magari seguita ad un arresto, di qualche scandalo sessuale.

Giuseppe, chimico e ipnotizzatore, inventore e alchimista, trasforma anche la sua identità: comincia a farsi chiamare Alessandro e si inventa il titolo di Conte di Cagliostro. Conosce le grandi personalità del secolo, da Casanova ai sovrani di Francia e di Russia, si mette in testa anche l’idea di fondare un nuovo rito massonico egizio che pretende addirittura sia riconosciuto dal papa, organizza la clamorosa truffa della collana ai danni della Regina Maria Antonietta, finisce nuovamente in carcere, alla Bastiglia, quattro anni prima della Rivoluzione Francese, da cui riesce ad uscire grazie all’intervento dei migliori avvocati del Paese che perorano la sua causa presso il Parlamento.

Ma anche dalla Bastiglia, Cagliostro riesce a fuggire. Ripara a Londra, e per la prima volta Lorenza comincia a prendere le distanze da quell’uomo impossibile, fosco e tiranno.

Qualche anno più tardi, quando Giuseppe si presenta di nuovo a Roma con un prezioso salvacondotto predisposto per lui dal potente principe di Trento, Pietro Virgilio Thun, il vero scopo di Cagliostro è quello di ottenere udienza dal papa e di riuscire nell’intento folle di ottenere il suo riconoscimento dell’ordine egizio da lui fondato. 

A Roma comunque Cagliostro ricevette la massima attenzione dai circoli massonici dell’epoca (frequentati in gran parte da diplomatici stranieri) e in particolare dai Cavalieri di San Giovanni di Gerusalemme che avevano la loro sede a Villa Malta, nell’odierno quartiere pinciano.

A Villa Malta Cagliostro diede spettacolo: organizzando sedute massoniche, dando prova delle sue doti di medium e di veggente, convertendo nuovi adepti al neo ordine da lui fondato.

Questi movimenti però non passarono inosservati agli emissari della Inquisizione, nei cui ambienti si sospettava fortemente che Cagliostro fosse un agente segreto (o un commissario mandato dagli Illuminati di Weishaupt) inviato nella capitale per sobillare le migliaia di massoni che, nascosti, attendevano un segnale per ribellarsi al potere papale.

Non contento, nello studio del pittore francese Augustin Belle, Cagliostro allestì una specie di tempio della sua nuova religione: una stanza completamente ricoperta di drappi neri, e ornata di colonne e simboli massonici, nella quale venivano compiuti i riti di iniziazione.

Ed è a questo punto della vicenda, nel settembre del 1789, quando il conte si sente ormai spiato e seguito ovunque, che Lorenza rompe gli indugi e lo denuncia ad un chierico, parroco della chiesa di Santa Caterina della Rota, a due passi dalla sua casa avita.

La denuncia viene immediatamente spedita al temibile Sant’Uffizio. Lorenza, in un estremo empito di pentimento si rifiuta di firmarla, ma ormai è troppo tardi; le autorità pontificie hanno già deciso la sorte del Conte: bisogna mettere fine alla sua pericolosa intraprendenza, alle sue scandalose e oscure trame.

Il 27 dicembre di quell’anno il Papa (Pio VI) firmò l’istanza speciale per l’arresto di Cagliostro e un manipolo di soldati pontifici fece irruzione negli alloggi del pittore Belle e prese il Conte in flagranza di reato, incatenandolo e portandolo a Castel Sant’Angelo.

Le accuse contenute dalla denuncia della moglie e quelle derivate dagli stessi scritti del Conte, sequestrati, oltre che le delazioni dei molti nemici, causarono al Conte l’imputazione per reati gravissimi che andavano dall’eresia alla pratica di magia nera, al falso contro la Chiesa. 

Per scongiurare il pericolo di una nuova fuga, venne raddoppiata la guardia alle segrete di Castel Sant’Angelo, dove Cagliostro era detenuto in totale isolamento.

Nel processo di fronte al Sant’Uffizio l’imputato viene anche coinvolto in dispute teologiche delle quali egli non poteva minimamente disquisire.

Cagliostro fu interrogato, nel corso di un anno, per ben quarantatre volte e torturato a fuoco dagli inquisitori.

La sua rovina era ormai completa, e il Conte cercò di difendersi in ogni modo  riversando ogni colpa sulla moglie, e sui suoi costumi licenziosi, e giunse fino al punto di scrivere direttamente al Papa, negando ogni accusa di massoneria e chiedendo la grazia. 

Ma la sentenza, pronunciata il 21 marzo 1791 fu di colpevolezza, con la pena prescritta per eretici, eresiarchi e maestri di magia nera, ovvero il rogo.

Pio VI però, per evitare di trasformare il truffatore in un martire, decise di trasformare la sentenza di morte in ergastolo.  Il frate cappuccino Fra’ Giuseppe di San Maurizio, ritenuto corresponsabile (si era fatto convincere ad aderire alla società massonica dal Conte) viene condannato a dieci anni, mentre una assoluzione piena viene dispensata a Lorenza, la cui testimonianza è stata decisiva per l’arresto e la condanna del furfante.

I documenti del processo però sono rimasti segreti per secoli e gli archivi del Vaticano non hanno mai messo a disposizione i documenti: quel che sembra certo è che il Conte arrivò anche a confessare un incontro segreto con gli Illuminati di Weishaupt allo scopo di convertire la massoneria francese alla nuova causa.

Per umiliare in pubblico Cagliostro, fu deciso di costringere il condannato a camminare scalzo e con abiti laceri, tenendo una candela tra le mani, tra due file di monaci, lungo le vie di Roma, da Castel Sant’Angelo e fino a Santa Maria sopra Minerva, la chiesa sorta sui resti del tempio romano dedicato ad Iside.  Giunto nel sacro edificio, Cagliostro fu obbligato ad inginocchiarsi di fronte all’altare e a rendere pubblica abiura delle sue eresie.

Poi, in piazza, proprio di fronte all’Obelisco – il cosiddetto Pulcino della Minerva – fu dato alle fiamme il manoscritto di Cagliostro, nel quale enunciava i principi del suo nuovo Ordine, gli altri testi (andati perduti) e tutti gli emblemi massonici sequestrati nel Tempio del pittore Belle.

Questo rito fu particolarmente simbolico: l’Ordine di Cagliostro, tutto fondato sui crismi della sapienza massonica egizia, veniva eloquentemente distrutto proprio nel luogo di Roma che ricordava più da vicino i contenuti del paganesimo orientale-egizio.

Dopo l’umiliazione pubblica, il Conte venne trasferito a piedi (e al buio, temendo che la presenza del noto prigioniero fosse notata da qualcuno), nella fortezza di San Leo, in cima alle montagne di Montefeltro, la prigione più malfamata d’Italia, dove i detenuti si diceva impazzissero: la cella a lui destinata fu il terribile Pozzetto,  un cilindro di pietra sprovvisto di porta (il detenuto venne calato da una fessura in alto), con una sola misera feritoia e un nudo letto di paglia.

Qui, in questa oscura e spaventosa prigionia, Cagliostro trascorse gli ultimi cinque anni di vita, in un alternarsi di crisi mistiche ed estatiche (durante le quali finirà perfino nel credersi un santo, mandato sulla Terra per convertire gli infedeli), deliri disperati, e una febbrile attività di pittura delle pareti della sua stessa cella, con immagini sacre, e autoritratti.  

Nel giugno del 1795 riuscì a diffondere il suo ultimo annuncio profetico: “Sarò l’ultima vittima dell’Inquisizione, perché quando raggiungerò l’aldilà pregherò talmente tanto che su questa terra ci sarà un nuovo Ordine.”

Morì il 26 agosto del 1795, a cinquantadue anni, per un colpo apoplettico, dopo tre giorni di agonia, rifiutando la confessione e l’estrema unzione.  Il suo corpo fu sepolto nella nuda terra non consacrata, avvolto in un lenzuolo, e ancora oggi c’è qualcuno che rivendica il ritrovamento delle ossa del suo scheletro.

Quel che la leggenda tramanda è che nel dicembre del 1797 la fortezza di San Leo fu occupata dai soldati della legione polacca della repubblica cisalpina di Napoleone. Liberati tutti i prigionieri, i soldati si misero alla ricerca della sepoltura di Cagliostro, la cui fama continuava a propagarsi in tutta Europa, anche post-mortem, e  trovato il suo teschio, lo usarono come coppa per bere il vino.

Qualche tempo dopo, quando le truppe francesi del generale Massena fecero irruzione a Roma, a Castel Sant’Angelo scoprirono un misterioso manoscritto sequestrato a Cagliostro il giorno del suo arresto: un prezioso testo, decifrato nel XX secolo che conteneva e descriveva un rituale autentico della Confraternita dei Rosacroce, opera si disse, del Conte di Saint-Germain, pieno di riferimenti alchimistici e cabalistici.

Circostanza che alimentò a lungo la fama oscura del Conte e la leggenda del suo fantasma: di Cagliostro si continuerà a sostenere per decenni che il Pozzetto di San Leo non fu affatto la sua ultima dimora terrena, e che egli invece, riuscito a fuggire travestendosi con il saio del frate, venuto per confessarlo e ucciso a mani nude, continuò ad imperversare a lungo, sotto mentite spoglie, nelle corti nobili di Roma.  Ma di questo, ovviamente non v’è alcuna prova documentale.


Tratto da Fabrizio Falconi - Roma Segreta e Misteriosa, Newton Compton, 2015


04/08/21

Mogol spiega L'Arcobaleno, la canzone "dettata" dall'aldilà da Lucio Battisti



Non tutti probabilmente conoscono la storia della canzone L'Arcobaleno, portata al successo nel 1999 da Adriano Celentano, scritta da Gianni Bella e Mogol.  La riporto qui - nel racconto diretto di Mogol, assai godibile, in un video - non tanto per il valore artistico della canzone (che resta comunque una bella canzone di musica leggera italiana), ma per la storia - piuttosto esoterica - che nasconde e che ha incuriosito migliaia di persone  e non soltanto i fan del compianto Lucio Battisti, genio della musica pop italiana, morto davvero troppo prematuramente, nel 1994 e come si sa era molto amico sia di Adriano Celentano che di Mogol, suo paroliere per interi decenni. 

Qui di seguito il video della canzone:




22/01/21

Platone esoterico: le incredibili proprietà del numero 5040


Nei Dialoghi di Platone, diversi sono i brani in cui affiora una concezione pitagorica del numero. Il più celebre è quello del Timeo, che, in accordo con l’astronomia pitagorica, vede nella struttura del cosmo un’armonia retta da proporzioni matematiche.

Nel Libro V de Le Leggi, in cui Platone descrive la sua Città Ideale, viene indicato 5040 come numero di abitanti. E così egli giustifica la sua scelta:

“Adottiamo questo numero per le ragioni di convenienza ch’esso ci offre. Territorio e abitazioni siano del pari divisi nel medesimo numero di parti, in modo che ad ogni uomo corrisponda una parte di essi. L’intiero numero si divida dapprima in due parti, poi in tre: esso è divisibile anche per quattro, per cinque, e così di seguito fino a dieci. In fatto di numeri bisogna che ogni legislatore sappia per lo meno quale numero riesca maggiormente utile a tutti gli stati. Orbene questo numero è quello che contiene moltissimi divisori e soprattutto consecutivi. Il numero infinito è pienamente suscettibile di tutte le divisioni; il numero cinquemila e quaranta non può offrire, sia per la guerra sia per ogni sorta di convenzioni e commerci del tempo di pace, così per le contribuzioni come per le distribuzioni, più di cinquantanove divisori, di cui consecutivi quelli da uno fino a dieci.”

(cit. da Platone, Tutte le opere, trad. di G. Pugliese Carratelli, Sansoni, Firenze 1974, pag. 1249).

Il numero 5040 è pari a 7!, il prodotto dei numeri interi da 1 a 7, che poi è anche il numero delle permutazioni di 7 elementi. Platone ne apprezza la divisibilità per tutti i numeri da 1 a 10, che costituisce un grande vantaggio al fine della spartizione dei beni tra gli abitanti

Lo storico E.T. Bell va oltre nell’interpretazione del 5040, che egli chiama un “numero enciclopedico”. 

Egli sottolinea che esso comprende, fra i suoi divisori, il “7 super-sacro, per non parlare del femminile 2, del maschile 3, del giusto 4, dei 5 solidi regolari, e del perfetto 6.” I significati dei numeri sono tratti dal misticismo pitagorico. 

Bell rileva anche che 7 sono i colli che, secondo Platone, devono essere superati per giungere alla sapienza. Ed inoltre “Ogni numerologo cosmico osserverà che 5040 ha esattamente 60 divisori, mentre 60 ne ha esattamente 12, e 12 ne ha il numero perfetto di 6, e 6 ne ha il numero giusto di 4, mentre 4 ne ha esattamente 3, e 3 ne ha esattamente il numero femminile di 2, che ne ha esattamente 2, e così via, 2-2-2…”

Questa sequenza, piena di numeri cari ai Pitagorici, termina con una ripetizione infinita, una “eterna ricorrenza”: la circolarità del tempo, incarnata dal serpente che si morde la coda, apparteneva alla visione babilonese dell’universo, e venne ripresa da Platone. È anche significativo il fatto che la successione numerica descritta sopra si stabilizzi esattamente dopo il quarto passo, in corrispondenza, cioè, del simbolo della giustizia. Il numero 3 rappresenterebbe la Famiglia Ideale della Città Ideale, il 12 sarebbe un’esplicita allusione allo zodiaco.

Bell vuole vedere, inoltre, un riferimento al numero nuziale, che secondo alcuni è da identificare con 12.960.000, cioè la quarta potenza di 60, e di cui 5040 è un divisore. 

Quel numero, che figura anche nella matematica babilonese, possedeva un notevole valore cosmologico, in quanto divisibile per 360 (la durata in giorni dell’anno degli antichi) e per 36.000 (il numero di giorni di 10´10 anni, dove 10 è il sacro numero della tetractys). Secondo l’astronomia pitagorica (e forse già per l'astronomia babilonese), 36.000 anni era la durata dell’anno cosmico, ossia la durata di un ciclo completo di precessione degli equinozi.  

Come osserva il Chambry, inoltre, 60 è il prodotto di 3, 4 e 5, cioè dei numeri della prima terna pitagorica. Come Platone asserisce nella Repubblica, l’altra sua opera a contenuto politico, questi tre numeri governerebbero, secondo un complesso calcolo aritmetico, i periodi favorevoli alla generazione dei figli

Un altro brano dello stesso dialogo descrive la struttura del cosmo, che Platone immagina formata da una serie di sfere cave, che si incastrano perfettamente l’una nell’altra, e rappresentano i cieli dei pianeti, secondo l’ordine stabilito da Pitagora: dall’esterno verso l’interno si trovano le stelle fisse, Saturno, Giove, Marte, Mercurio, Venere, il Sole, la Luna. 

Nel dialogo La Repubblica Platone insiste molto sull’importanza dell’apprendimento della matematica nella formazione della classe politica e militare dello stato ideale. Ecco cosa fa dire a Socrate:

“Sarà perciò conveniente, Glaucone, di rendere obbligatoria questa conoscenza, e persuadere quelli, che nella città dovranno coprire i più alti uffici, di dedicarsi al calcolo e studiarlo non superficialmente, ma fino a pervenire con la pura intelligenza a contemplare la natura dei numeri, non già come i commercianti e i bottegai per servirsene a comperare e vendere, ma in vista della guerra, e per facilitare all’anima stessa la possibilità di volgersi dal mondo sensibile alla verità ed all’essenza.”[…]

E Glaucone:

“Per quanto almeno si riferisce […] alle operazioni guerresche, è evidente che ci conviene, giacché e nel porre gli accampamenti e nell’occupare certe posizioni e nell’ammassare o spiegare le truppe, come in tutte le altre formazioni che può assumere un esercito in battaglia o in marcia, un generale esperto di geometria sarà in miglior condizione di chi la ignora.

Risponde Socrate:

“Veramente […] per questo basterebbe anche una cognizione elementare di geometria e di calcolo. Bisogna però esaminare se la parte maggiore e più alta di questa scienza non tenda in qualche modo a quest’altro fine: a permetterci, intendo, di scorgere più facilmente l’idea del bene. E, secondo me, tende a tal fine tutto ciò che costringe l’anima a volgere lo sguardo verso quel luogo ov’è l’essere tra tutti gli altri sovranamente felice, che l’anima deve contemplare ad ogni costo.”

(cit. da Platone, Repubblica, Libro VII (525-527) in: Tutte le opere, trad. di G. Pugliese Carratelli, Sansoni, Firenze 1974, pagg. 1025-1026)



22/09/20

Il misterioso viaggio di Fellini in Messico e l'incontro con il mito Castaneda


Lo scrittore Andrea De Carlo, 67 anni, parla sul Venerdì di Repubblica di Federico Fellini, rivelando particolari inediti del famoso viaggio, compiuto insieme al grande maestro riminese in Messico, sulle tracce di Castaneda.

Fellini aveva chiamato De Carlo come aiuto regista sul set de La Nave Va, nel 1983, e l'amicizia tra i due era culminata nel viaggio messicano che Fellini voleva fortemente compiere sull'onda delle suggestioni esoteriche che aleggiavano intorno a Carlos Castaneda, scrittore di origini peruviane, trasferitosi negli USA e poi in Messico, personaggio fantomatico e inafferrabile, letterato eclettico e iniziato allo sciamanesimo mesoamericano.
Il viaggio si rivelò, come prevedibile, un fallimento: Castaneda dopo un paio di brevi incontri, si dileguò, rendendosi irrintracciabile come era il suo stile: non solo. Nell'albergo dove dormivano Fellini e De Carlo, all'indirizzo del regista cominciarono ad arrivare messaggi misteriosi e minacciosi.
Racconta oggi De Carlo: "C'è Frank Horton, un giornalista americano, che ha ricostruito la storia; secondo lui fu proprio Castaneda a organizzare le minacce per troncare il progetto (di un film sceneggiato proprio da Castaneda e girato da Fellini). Chissà. Certo fu l'incontro tra due grandi bugiardi affascinati dell'esoterico, in un momento critico della carriera di tutti e due."
Al ritorno dal Messico, l'amicizia tra De Carlo e Fellini si incrinò quando lo scrittore decise di scrivere un romanzo, "Yucatan" ispirato a questo viaggio, "bruciando" di fatto l'idea di Fellini, che non glielo perdonò.
Il film comunque, secondo De Carlo, difficilmente si sarebbe realizzato: " Fellini era troppo inquietato da tutta la storia. A Chichen Itzà, camminando intorno a quelle piramidi maya, dove un tempo si svolgevano sacrifici umani, e il sangue colava dalle gradinate di pietra, era sconvolto.
In lui c'era anche l'umiltà che incontri solo negli artisti veri, di chi sa che rispetto ai misteri dell'universo non siamo nulla. In quel viaggio non era giovane, non era in forma, forse fu l'episodio di maggior coraggio fisico della sua vita. Prendere l'aereo, arrivare a Cancùn, girare in jeep seguendo indicazioni misteriose..."
Insomma, sarebbe bello ricostruire per bene, un giorno questo viaggio. La cosa ancor più sorprendente - e in perfetto climax con la vicenda e con il personaggio di Castaneda - è che non esiste una sola foto pubblica di questo viaggio, e di Fellini in Messico (io almeno non sono riuscito a trovarla).

Fabrizio Falconi - 2020

08/01/18

Libro del Giorno: "Per amica silentia Lunae" di William Butler Yeats.



E' un libro stranissimo, che ancora oggi affascina e inquieta. Scritto in pieno Primo conflitto mondiale, nel 1917, Per amica silentia lunae è una delle opere più misteriose del grande William Butler Yeats, qui impreziosita da una bellissima edizione SE, curata da Gino Scatasta, cui è fatta precedere il prologo con la lettera scritta a Maurice, ovvero Iseult Gonne, la figlia di Maud Gonne, uno dei grandi amori di Yeats; la lunga poesia Ego Dominus Tuus, scritta nel 1915; e a cui viene fatta seguire oltre alla postfazione, una minuziosa cronologia della vita di Yeats e, dulcis in fundo, una appendice iconografica con molte preziose foto del poeta che vanno dal 1896 agli ultimi anni di vita. 

Il 1917 - l'anno in cui scrive Per amica silentia lunae - è un anno molto importante nella vita di Yeats: dopo le cinque proposte di matrimonio fatte nel corso degli anni a Maud Gonne, l'amore di una vita, il poeta, dopo aver chiesto alla madre il permesso di corteggiare la bellissima figlia, Iseult, le propone a sua volta di sposarlo. Ma la ragazza rifiuta (pochi anni dopo sposerà Francis Stuart, dichiarando che non aveva mai preso sul serio la proposta di Yeats).  Il poeta allora, il 20 ottobre di quell'anno sposerà George Hyde-Lees che gli darà due figli e che poco dopo le nozze, pensando che Yeats sia ancora innamorato di Iseult, per distrarlo inizia a fare esperimenti di scrittura automatica. 

E' dunque il periodo più intenso degli interessi esoterici di Yeats, che già fa parte (dal 1890) della Golden Dawn, un ramo della organizzazione esoterica chiamata Stella mattutina. 

Per amica silentia lunae è una divagazione su due temi molto cari a Yeats: la maschera e la visione.

E lo fa in due intense sezioni chiamate Anima Hominis e Anima Mundi

Nella prima, Yeats considera i rapporti dell'uomo con il suo destino, con il suo Daimon: desiderio e sconfitta sono i compagni del poeta-eroe chiamato ad amare il mondo fino alla fine. Un lento cammino iniziatico che conduce allo scoprimento di ciò che dalla maschera (e quindi dalla illusione) è celato. 

Nella seconda, Yeats dà voce ai morti, ai poeti morti, fonte di ispirazione per i vivi. Morti e vivi sono calati nell'Anima Mundi,uno scrigno di tesori formato dalle opere dei grandi predecessori, un crogiolo soprannaturale, pullulante di richiami e di voci che si incarnano e infondono il cammino dei vivi. Un grande stagno, scrive Yeats, o un vasto giardino dove i nostri pensieri e le nostre immagini crescono nel modo a esse destinato come grandi piante acquatiche o si diramano nell'aria spandendo tutt'attorno il loro profumo. 

La prosa poetica di Yeats è abbagliante e oscura. Ogni frase rimanda a altro. Questi monologhi procedono senza nessuna logica o coerenza apparente. Sono appunto illuminazioni, sguardi, pensieri incarnati nella sofferenza, nell'impotenza, nella gioia estatica degli attimi concessi ai viti, nel loro continuo interrogarsi sul da dove venga la voce che essi ascoltano dentro se stessi e nel cielo. 

Fabrizio Falconi 





06/01/18

Il Daimon e la Donna, una pagina di William Butler Yeats.



Riporto una bellissima pagina - misteriosa e da meditare - di William Butler Yeats tratta da Per amica Silentia Lunae (1917), libro composto da due sezioni, 'Anima Hominis' e 'Anima Mundi'.

Credo che tutti gli uomini devoti abbiano la certezza che negli eventi della vita ci sia una mano diversa dalla nostra e che, come qualcuno afferma in Wilhelm Meister, ciò che avviene per caso è destino; e credo sia stato Eraclito a dire che il Daimon è il nostro destino

Se penso alla vita come a una lotta contro il Daimon, che vorrebbe sempre che ci dedicassimo all'opera più difficile tra quelle non impossibili, comprendo il motivo della inimicizia profonda fra l'uomo e il proprio destino e perché l'uomo ama solo il proprio destino. 

In un poema anglosassone c'è un uomo chiamato Doom-eager, "avido di destino", uno nome che vorrebbe racchiudere in sé tutto l'eroismo possibile. 

Sono certo che il Daimon ci libera e ci inganna, che sia stato lui a tessere quella rete di stelle per poi scrollarsela via dalle spalle. 

E allora la mia immaginazione va dal Daimon all'amata, e intuisco una analogia che sfugge all'intelletto. Penso agli antichi greci che invitavano a cercare le stelle primarie, che governano sia l'inimicizia che l'amore, fra quelle che stanno per tramontare nella settima casa, direbbero gli astrologi; e che forse "l'amore sessuale", che "è fondato sull'odio spirituale", è un immagine del conflitto che esiste tra uomo e Daimon; e mi chiedo perfino se non ci sia una comunione segreta, un mormorio nel buio fra il Daimon e l'amata. 

Penso al fatto che spesso le donne innamorate diventano più superstiziose e sono convinte di portare fortuna agli uomini che amano; e penso ancora a quella antica storia irlandese dei tre giovani che andarono a Slieve-na-mon, nella casa degli dèi, per chiedere protezione durante la battaglia.  "Dovete prima sposarvi", disse loro un dio "perché la buona o la mala sorte dell'uomo derivano da una donna". 

Al tramonto a volte tiro di scherma per una mezz'ora, e quando poi sono a letto, con gli occhi chiusi, vedo un fioretto ondeggiare davanti a me, il suo bottone sul mio viso. Sempre, nelle profondità della mente, qualsiasi cosa ci portino le nostre azioni, dovunque ci trascinino le nostre rêveries, sempre incontriamo la Volontà dell'altro. 

traduz. Gino Scatasta, SE 2009 

25/07/17

Raffaello esoterico. La tomba provvisoriamente scomparsa e poi ritrovata al Pantheon.



L’ordine iniziatico dei Fedeli d’Amore anche se ufficialmente scomparso, è secondo alcuni ancora vivo, in Occidente anche ai nostri giorni. Quel che è certo è che esso ha origini antichissime. Uno dei suoi presunti padri è il notaio e poeta Francesco da Barberino, nato nel 1264 nella omonima località in Val d’Elsa, autore di un’opera capitale della primissima letteratura italiana, I documenti d’amore, composti tra il 1309 e il 1313.

L’Ordine si ispirava ad una disciplina dell’Arcano e composto da sette diversi gradi iniziatici: le donne cantate dagli adepti di questo ordine segreto traevano origine da un unico modello di donna simbolica, una donna trascendente, una Madonna intelligente nella quale si ritrovavano anche diversi elementi della simbologia orientale.

Questo Ordine così come altri simili, intendeva il Cristianesimo come una via iniziatica (accessibile a pochi), in grado di compiere trasmutazioni personali evolutive delle basi di conoscenze individuali.

Dell’Ordine si riteneva – e si ritiene anche oggi, non senza polemiche – facessero parte molti dei più grandi intellettuali dell’epoca, come Cecco d’Ascoli, poeta e scienziato, condannato al rogo, Guido Cavalcanti, Raffaello Sanzio e perfino Dante Alighieri, oltre a Boccaccio e Petrarca.

Raffaello è stato secondo alcuni, colui che meglio di altri, incarnò con la sua arte l’ideale supremo di bellezza e armonia (estetica ed interiore) che nel Rinascimento trovò sua piena compiutezza e che i Fedeli d’Amore inseguivano come scopo realizzativo.

Una lunga tradizione legava la radice esoterica di questo Ordine all’esoterismo esseno di matrice gnostica, che a sua volta si riteneva proveniente dalla più solida tradizione egizia.

Del fatto che Raffaello fosse un iniziato, ci si ricordò nella prima metà dell’Ottocento, quando si decise di rintracciare la tomba del grande pittore che la tradizione voleva sepolto nel Pantheon.


In effetti dopo la morte avvenuta nel giorno di Venerdì Santo (circostanza quanto mai profetica), il 6 aprile del 1520, a soli trentasette anni di età, che aveva profondamente rattristato l’intera corte papale (il pontefice era Leone X), Raffaello era stato sepolto, secondo le sue espresse volontà, nel Pantheon, il monumento esoterico romano per eccellenza, ponte di collegamento tra la terra e il cielo, gigantesco astrolabio in pietra, di perfezione sublime, massima espressione dell’armonia umana e divina.

L’umanista Pietro Bembo, amico personale di Raffaello, aveva composto il celebre epitaffio: Ille hic est Raphael timuit quo sospite vinci/ rerum magna parens et moriente mori, anch’esso di sapore esplicitamente esoterico: qui giace quel Raffaello, dal quale, lui vivo, la gran madre di tutte le cose, ovvero la Natura temette di essere vinta e quando morì, temette di morire con lui.

All’inizio dell’Ottocento, autorevoli studiosi misero in dubbio che le cose fossero andate veramente così e che la tomba di Raffaello si trovasse davvero al Pantheon. 

Si avanzò cioè il sospetto che si trattasse di una leggenda originata dagli stessi confratelli del divino urbinate, i quali desideravano legare per sempre il suo nome a quello del Pantheon, e che invece le sue spoglie si trovassero conservate nella poco distante Basilica di Santa Maria Sopra Minerva.

Si decise dunque di effettuare degli scavi per ritrovare il prezioso sarcofago, ma i primi saggi di ricerca, compiuti il 9 di settembre del 1833, sotto il pontificato di Gregorio XVI non diedero risultati, rafforzando l’ipotesi del complotto.


Ma quando le pale furono spostate in un’altra direzione, quasi subito si imbatterono nella cassa d’abete dove, senza alcun dubbio, era stato deposto il corpo di Raffaello.

Si procedette allora al recupero delle ossa e ad una nuova inumazione in un’urna di marmo, la quale fu collocate dietro l’altare della Madonna del Sasso, nello stesso luogo dove i resti erano stati ritrovati per tre secoli.


E ancora oggi il sepolcro di Raffaello costituisce un’altra delle attrattive della visita al Pantheon, con il sarcofago conservato dietro una teca di vetro, con il distico di Bembo iscritto sul bordo superiore,  e due colombe in bronzo che sembrano baciarsi in volo, a suggello della perfezione quasi divina che il pittore seppe rappresentare con la sua opera.



20/10/16

J.S.Bach "esoterico" e la sua passione per la crittografia.



Come tutti sanno la musica di Johann Sebastian Bach (185-1750), prodigio di misura ed armonia, è strettamente imparentata con la matematica. 

Forse non è altrettanto noto che Bach era affascinato proprio dalla natura bifronte delle note - suoni da una parte, numeri dall'altro. 

Non per niente decise di inserire il suo nome, come una sorta di firma musicale, in alcune composizioni, approfittando del fatto che nella notazione musicale tedesca B sta per si bemolle; A per la; C per do e H per si. 

Un'altra crittografia usata da Bach si basava sulla cosiddetta gematria: Se A = 1 B=2, C=3, eccetera... BACH (B+A+C+H) = 14 e J.S.Bach = 41 (dato che I e J erano equivalenti nell'alfabeto tedesco dell'epoca). 

Nel suo libro Bachanalia uscito nel 1994 il matematico e appassionato di Bach, Erich Altschuler fornisce molti esempi in cui compaiono nella musica del grande compositore numeri come il 14 (BACH cifrato) e il 41 (JSBACH cifrato), che lui ritiene siano stati inseriti di proposito. 

Per esempio, nella prima fuga (in do maggiore) del primo libro del Clavicembalo ben temperato, il soggetto ha 14 note. 

Inoltre, delle 24 fughe del libro, ventidue sono portate a compimento e la ventitreesima è portata quasi a compimento; solo una - la quattordicesima - non è completa né quasi completa. 

Alschulter paragona la mania di Bach di firmare in forma crittografica le sue opere - inserendo in forma criptica, cioè esoterica, il suo nome - a quello del regista Alfred Hitchcock di comparire con fugaci e quasi impercettibili camei in ciascuno dei suoi film. 




J.S.Bach esoterico e la sua passione per la crittografia.



Come tutti sanno la musica di Johann Sebastian Bach (185-1750), prodigio di misura ed armonia, è strettamente imparentata con la matematica. 

Forse non è altrettanto noto che Bach era affascinato proprio dalla natura bifronte delle note - suoni da una parte, numeri dall'altro. 

Non per niente decise di inserire il suo nome, come una sorta di firma musicale, in alcune composizioni, approfittando del fatto che nella notazione musicale tedesca B sta per si bemolle; A per la; C per do e H per si. 

Un'altra crittografia usata da Bach si basava sulla cosiddetta gematria: Se A = 1 B=2, C=3, eccetera... BACH (B+A+C+H) = 14 e J.S.Bach = 41 (dato che I e J erano equivalenti nell'alfabeto tedesco dell'epoca). 

Nel suo libro Bachanalia uscito nel 1994 il matematico e appassionato di Bach, Erich Altschuler fornisce molti esempi in cui compaiono nella musica del grande compositore numeri come il 14 (BACH cifrato) e il 41 (JSBACH cifrato), che lui ritiene siano stati inseriti di proposito. 

Per esempio, nella prima fuga (in do maggiore) del primo libro del Clavicembalo ben temperato, il soggetto ha 14 note. 

Inoltre, delle 24 fughe del libro, ventidue sono portate a compimento e la ventitreesima è portata quasi a compimento; solo una - la quattordicesima - non è completa né quasi completa. 

Alschulter paragona la mania di Bach di firmare in forma crittografica le sue opere - inserendo in forma criptica, cioè esoterica, il suo nome - a quello del regista Alfred Hitchcock di comparire con fugaci e quasi impercettibili camei in ciascuno dei suoi film. 




J.S.Bach esoterico e la sua passione per la crittografia.



Come tutti sanno la musica di Johann Sebastian Bach (185-1750), prodigio di misura ed armonia, è strettamente imparentata con la matematica. 

Forse non è altrettanto noto che Bach era affascinato proprio dalla natura bifronte delle note - suoni da una parte, numeri dall'altro. 

Non per niente decise di inserire il suo nome, come una sorta di firma musicale, in alcune composizioni, approfittando del fatto che nella notazione musicale tedesca B sta per si bemolle; A per la; C per do e H per si. 

Un'altra crittografia usata da Bach si basava sulla cosiddetta gematria: Se A = 1 B=2, C=3, eccetera... BACH (B+A+C+H) = 14 e J.S.Bach = 41 (dato che I e J erano equivalenti nell'alfabeto tedesco dell'epoca). 

Nel suo libro Bachanalia uscito nel 1994 il matematico e appassionato di Bach, Erich Altschuler fornisce molti esempi in cui compaiono nella musica del grande compositore numeri come il 14 (BACH cifrato) e il 41 (JSBACH cifrato), che lui ritiene siano stati inseriti di proposito. 

Per esempio, nella prima fuga (in do maggiore) del primo libro del Clavicembalo ben temperato, il soggetto ha 14 note. 

Inoltre, delle 24 fughe del libro, ventidue sono portate a compimento e la ventitreesima è portata quasi a compimento; solo una - la quattordicesima - non è completa né quasi completa. 

Alschulter paragona la mania di Bach di firmare in forma crittografica le sue opere - inserendo in forma criptica, cioè esoterica, il suo nome - a quello del regista Alfred Hitchcock di comparire con fugaci e quasi impercettibili camei in ciascuno dei suoi film. 




30/09/14

Gli ambasciatori di Hans Holbein e il teschio nascosto - Un quadro/trattato sulla vanità della vita.




Il più grande trattato sulla vanità della vita e dei beni materiali è un quadro.

Per l'esattezza, uno dei più quadri più belli e misteriosi del mondo. 

Lo ha dipinto il tedesco (originario di Augusta, in Baviera) Hans Holbein (1497-1543).

Il quadro, conservato alla National Gallery di Londra, rappresenta due ambasciatori francesi, un gentiluomo e un vescovo, ritratti a grandezza naturale, davanti ad un tavolo su cui sono sparsi vari simboli massonici e alchemici: una squadra, un compasso, vari orologi, un astrolabio, libri, un liuto, un goniometro, che rappresentano le arti del quadrivio (musica, aritmetica, astronomia, e geometria). 

Il pavimento splendido è quello dell'Abbazia di Westminster. 

E il quadro, oltre ad essere una allegoria delle arti, contiene un gioco prospettico formidabile. 

Quella strana macchia allungata che si profila nella parte bassa del dipinto, infatti, se si cambia la prospettiva, e si osserva il quadro di taglio, di lato, dalla posizione coincidente con la mano sinistra del vescovo, rivela una grande sorpresa: un teschio terrificante. 

Questo quadro è uno dei prototipi della cosiddetta tecnica anamorfica.

La capacità cioè di ritrarre immagini nascoste, sfruttando le leggi della prospettiva. 

Il significato profondo di questa opera magnifica ed enigmatica è evidente: in mezzo ad ogni attività umana e mondana, in mezzo alla gloria degli ambasciatori, in mezzo ai loro costumi potenti, ai loro alambicchi, e al loro essere indaffarati nei destini del mondo, c'è sempre e soltanto la morte. 

Questa capacità di esposizione metaforica, e letteralmente esoterica (εσωτερικός)  propria dei grandi geni del passato, rende ancora più stridente l'epoca nostra che gioca e si fonda sulla banalizzazione o rimozione della morte e delle sue conseguenze tra i vivi.  


04/04/13

Somerset Maugham e Alister Crowley, la "Bestia": un incontro ad alta tensione.





E' circondato da un alone di mistero - ma molto affascinante - l'incontro che ebbe luogo, un certo giorno del 1906 a Parigi, tra uno dei più grandi scrittori del novecento, William Sumerset Maugham, autore di libri famosissimi come Il filo del rasoio, Schiavo d’amore, La luna e sei soldi e Aleister Crowley, detto La Bestia, il grande occultista (e satanista). 

Nella capitale francese Maugham era nato, nel 1874 e ad essa era tornato dopo l’infanzia e l’adolescenza trascorsa in Inghilterra, dove era stato allevato dallo zio, un pastore protestante e dopo aver peregrinato per mezza Europa. 

A Parigi, dunque, Maugham – che è sempre divorato da una fame incontenibile di incontri e di scoperte di caratteri umani, vero serbatoio per la sua ispirazione – incontra, in un noto caffè - Le Chat Blanc in rue d’Odessa – quell’Aleister Crowley, di cui ha già sentito molto parlare negli scandalizzati salotti della ville lumière: forse soltanto un abile ciarlatano dalla conversazione fin troppo brillante, provocatore, irriverente, vagamente minaccioso, dall’aspetto inquietante, calvo e con occhi magnetici che sembrano in grado di trapassare l’interlocutore.  


Anche Crowley ha trovato a Parigi terreno fertile: nella capitale francese l’occultismo sembra essere diventato una nuova moda, dopo la pubblicazione di un libro maledetto, firmato da Joris-Karl Huysmans, Là-bas, ovvero L’abisso, pubblicato nel 1891, testo che aveva messo a soqquadro i salotti buoni di Parigi con la sua minuziosa descrizione di una messa nera. 

Non sappiamo esattamente cosa accadde in quell’incontro: Maugham, incuriosito da Crowley e da quel che si racconta su di lui, dai trucchi (o quelli che vengono ritenuti tali) che usa per spaventare gli ospiti durante le sue serate parigine, ne ricava sicuramente una impressione negativa, di totale repulsione, pur avvertendone, evidentemente, le doti carismatiche. 

Usa Crowley, plasma completamente su di lui il personaggio di Oliver Haddo, il protagonista del suo nuovo romanzo The Magician, il Mago, pubblicato qualche anno più tardi, nel 1908. 

Uno strano romanzo, nel quale Maugham descrive la discesa agli inferi di una giovane donna, Margaret, promessa sposa di un medico, abbandonato per fuggire con il ripugnante Haddo e precipitare con lui là bas, nell’abisso per l’appunto. In The Magician, Maugham esplora i misteri della psiche umana e del male, annidato nell’anima di alcuni uomini, capace di contagiare chiunque e di proliferare come le cellule malate di un organismo. 

Crowley, all’uscita del libro, quasi si compiace di tanta attenzione, al punto di scriverne la recensione sulle pagine di Vanity Fair, firmandosi proprio con il nome di Oliver Haddo. 

Su quel romanzo poi, la Grande Bestia, tornerà ancora più tardi: nei suoi libri e nei suoi diari si vanterà di essere l’autore di molte delle frasi che Maugham ha usato nel suo libro e accuserà lo scrittore di averlo tradito, insultandolo e accusandolo di aver costruito un artificioso pasticcio di materiale rubato. 

Ciò che comunque aveva interessato Maugham, era proprio la capacità di Crowley di plagiare i suoi adepti, un fenomeno non nuovo nella storia, ma certamente moderno nelle modalità – le stesse che gli valsero le accuse, in Sicilia su quel che di scandaloso si svolgeva nelle stanze della Abbazia di Thelema - precursore di molte di quelle sette, esoteriche o parareligiose, che vedremo poi proliferare in tutto il Novecento, in Occidente.

© Fabrizio Falconi