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08/07/19

100 film da salvare alla fine del mondo: 34. "Stalker" di Andrej Tarkovskij (1979)


Questo blog dedica, ad appuntamenti fissi - ogni lunedì e ogni venerdì - un catalogo personale dei miei 100 film da salvare "alla fine del mondo".  Non saranno ovviamente vere e proprie recensioni, ma un piccolo campionario degli affetti per queste opere che hanno segnato epoche e vite di molti, se non di tutti. 

100 film da salvare alla fine del mondo: 34. "Stalker" di Andrej Tarkovskij (1979)

A Piranesi e al suo mondo fantastico di rovine fatiscenti e territori ombrosi da esplorare, si sono ispirati in tanti, negli ambiti più diversi. 

Emmanuel Carrère, in un saggio di parecchi anni fa citava Piranesi, proprio paragonando la sua imagerie a quella di un regista indimenticato, uno dei grandi del novecento, proveniente dagli estremi territori della Russia, Andrej Tarkovskij.

E lo faceva a proposito di uno dei film più visionari e misteriosi del regista di Zavraz’e (un minuscolo villaggio sulle rive del Volga), Stalker.

In quel film, Tarkovskij prendeva le mosse (come aveva già fatto per il precendete Solaris) da un racconto lungo di fantascienza, Piknik na obocine (Picnic sul ciglio della strada), scritto dai fratelli Arkadij e Boris Natanovic Strugackij nel 1971.

Stalker (girato tra grandi difficoltà produttive, lunghe pause e riprese tra il 1977 e il 1979) racconta del viaggio di tre uomini – uno scrittore alcolizzato,  uno scienziato, e la loro guida, cioè lo stalker (termine che deriva dall’inglese to stalk, avanzare furtivamente), attraverso la Zona, un territorio misterioso e molto pericoloso che attrae e spaventa, nel cui cuore esiste una misteriosa stanza dove vengono realizzati i desideri.

Nessuno sa cosa sia la Zona, esattamente.  Lo stesso Tarkovskij perdeva la sua proverbiale pazienza quando qualche giornalista, durante i festival ai quali Stalker partecipò, chiedeva di spiegare cosa fosse esattamente. La Zona, come ogni simbolo disseminato nei film di Tarkovskij è ad uso e consumo dello spettatore.  E’ lo spettatore a decidere cosa sia la Zona. 

Il film non lo spiega. C’è l’eventualità che sia il lascito di una civiltà extraterrestre, oppure il risultato di una serie di esperimenti militari. Fatto sta che l’accesso al territorio è severamente precluso. E che solo gli intrepidi stalker osano violarlo.  Il paesaggio che si delinea oltrepassato il filo spinato è oscuro e minaccioso: come scrive Carrère, tutto il viaggio dei tre uomini (accompagnato da dispute di carattere filosofico tra lo scrittore e lo scienziato) è costantemente spiazzato dalla collocazione sul paesaggio di “rovine del futuro”  che fanno pensare proprio al genio di Piranesi.

Mi hanno sovente domandato cos’è la Zona, ha scritto Tarkovskij nel suo celebre Scolpire il tempo, che cosa simboleggia, ed hanno avanzato le interpretazioni più impensabili. Io cado in uno stato di rabbia e disperazione quando sento domande del genere. La Zona, come ogni altra cosa nei miei film, non simboleggia nulla: la Zona è la Zona, la Zona è la vita: attraversandola l’uomo o si spezza, o resiste. Se l’uomo resisterà dipende dal suo sentimento della propria dignità, dalla sua capacità di distinguere il fondamentale dal passeggero.

In queste poche righe Tarkovskij dice già molto, suscitando molte nuove domande.

La Zona che è la protagonista del suo film, è un cumulo di rovine; moderne rovine: edifici abbandonati, strade spettrali, anfratti incolti e paludosi: la luce è sempre invernale o notturna, il cammino dei tre uomini è accidentato, irto di difficoltà, e senza nessun vero piacere. 
Rivedendo il film oggi ritorna alla mente il motto di Piranesi: sporcare per trovare.

I tre uomini devono sporcarsi, e parecchio per trovare quello che cercano e che in fondo non sanno nemmeno loro cosa sia.  E’ la sete di conoscenza, in fondo, la curiosità, il desiderio di risposta alle domande che risposte non hanno, a guidarli in questi caseggiati dai vetri sfondati, a questi pavimenti sfondati o pieni di cumuli di terra, a questi canali pieni d’acqua putrida.

Se la Zona è la vita, come dice Tarkovskij, attraversare questo territorio vuol dire sporcarsi le mani e i piedi, come accade a chi vive.  Solo chi rifiuta la vita, rimane pulito e diafano, ma la terra non germoglia in lui, ed è come essere già morti. Sporcarsi insomma è la prerogativa dei vivi.

Attraversare il luogo della catastrofe alla ricerca di risposte. E soprattutto con l’obiettivo di esaudire il proprio desiderio.

Solo che, Tarkovskij, lo sa, spesso gli uomini non sanno nemmeno cosa vogliono veramente.  E così mette in bocca allo Stalker il racconto tragico di un collega, un altro Stalker, un certo Porcospino che, riuscito a penetrare fino alla stanza dei desideri, e chiesto che potesse tornare in vita il fratello, ha finito per diventare ricco una volta uscito dalla Zona, e però, infelice più di prima si è poi suicidato.

Cosa succede ai due viaggiatori, allo scrittore e allo scienziato ?

Giunti sulla soglia della stanza, nessuno dei due ha il coraggio di entrare.  Lo scienziato vorrebbe addirittura distruggere per sempre quel luogo angosciante, estraendo dalla sua bisaccia un ordigno nucleare;  ma anche lo scrittore si rifiuta di entrare, asserendo che i desideri sono, alla fine, quasi sempre ignobili.

Il ritorno dei tre uomini appare dunque come una sconfitta.  L’attraversamento del mare di rovine, sembra non aver prodotto nulla in loro, di non aver procurato nessun cambiamento.

Ma non è così.

Dopo essersi separati nello stesso bar – in rovina – dove si sono incontrati la prima volta, è lo Stalker che seguiamo nel suo ritorno a casa.

Qui egli dà sfogo alla disperazione: ha visto due degli uomini più celebrati, arrendersi di fronte alla porta della fatidica stanza; in definitiva rinunciare alla conoscenza, sopraffatti dai rispettivi pregiudizi.

E’ la constatazione della perdita della fede: il tema che più di ogni altro sta a cuore a Tarkovskij. E’ proprio la mancanza di fede a negare ai due viaggiatori la possibilità del cambiamento.  Ed è proprio lo Stalker l’unico di loro che sarà, misteriosamente, ricompensato. La moglie cerca di consolarlo. Ma alla loro figlia, che è protagonista dell’ultimo lentissimo piano sequenza del film, e che non ha l’uso delle gambe, succede qualcosa: la vediamo recitare a mezza voce una poesia, poi poggiando il viso sul tavolo fissare gli oggetti posati sopra – un bicchiere ed una bottiglia – che si muovono sotto il suo sguardo.  La bambina ha dunque ricevuto in dono misteriosi poteri ?  Se non riuscirà a camminare riuscirà però a spostare gli oggetti con il pensiero ? Non lo sappiamo. Ma ascoltiamo, in sottofondo, le inconfondibili note dell’Inno alla Gioia di Beethoven (sembrano provenire da lontanissimo) che chiudono il film.

Lo Stalker,  che ha attraversato la Zona, sembra, secondo quanto ci dice Tarkovskij aver resistito. Non si è spezzato. In qualche modo, la sua fede (la fede nella vita più che la fede religiosa) è sopravvissuta anche ai dubbi e alle diffidenze dei due uomini sapienti che ha accompagnato con sé; ha saputo distinguere il fondamentale dal passeggero. 

E forse per questo la Zona ha esaudito il suo desiderio (un desiderio altruistico, rivolto alla figlia).

Le rovine dunque, sembrerebbe suggerire Tarkovskij, hanno anche quest’altra incredibile proprietà: non solo quella di far rinascere, ma anche di salvare.

Un tema che stava personalmente a cuore al regista, avendo egli sperimentato la durezza dell’essere un artista libero e creativo negli anni dell’Unione Sovietica.

Gli anni della realizzazione di Stalker sono particolarmente difficili per Tarkovskij.  La notorietà improvvisa che gli ha portato l’aver vinto il Leone d’Oro di Venezia ad appena trent’anni (ex aequo con Valerio Zurlini per Cronaca Familiare) con L’infanzia di Ivan nel 1962, gli ha creato in patria parecchi problemi.  Andrej Rublev, il film seguente arriva al Festival di Cannes del 1966 in ritardo e avventurosamente, dopo aver sopportato molti tagli.  Ciò nonostante la critica internazionale reputa Tarkovskij già un maestro e gli consegna il Premio Speciale della Giuria al Festival di Cannes del 1972 per Solaris.  Ma il crescente apprezzamento internazionale, e il rifiuto di prestarsi in qualsiasi modo alla propaganda interna gli attira forti critiche e un clima sempre più irrespirabile.  Il regime, pur senza sconfessarlo pubblicamente, sa come mettere i bastoni tra le ruote, sa come rendere la vita difficile al regista, anche semplicemente negando permessi burocratici, procrastinando gli appuntamenti con i funzionari, ostentando il silenzio degli uffici amministrativi, negando i fondi e i luoghi per le locations.

Ma Tarkovskij non può che seguire la sua piena libertà creativa, comunque.
Realizza tra mille difficoltà e ostacoli sempre più gravosi prima Lo Specchio (1974)  che raggiunge il culmine del biasimo nazionalistico per la sua scelta di narrare una storia puramente autobiografica, e poi Stalker, che sarà l’ultimo film girato da Tarkovskij in Russia, prima della fuga in Italia.

Negli anni in cui realizza Stalker, il regista vive una stagione di umiliazioni in patria.  La distribuzione dei suoi film è relegata alla terza categoria (opera di èlite) e quindi fuori dai grandi circuiti. Per girare Stalker deve ottenere l’autorizzazione direttamente dal Presidium del Soviet Supremo. Ciò nonostante il film viene presentato fuori competizione al festival di Rotterdam e di conseguenza inibito a partecipare al concorso per la Palma d’Oro al Festival di Cannes.

Tarkovskij è un artista sempre più ingombrante e scomodo. E’ solo un anticipo di quello che avverrà qualche anno dopo quando, a seguito della scelta di Tarkovskij di non tornare in patria, il regime si vendicherà impedendo alla moglie Larissa, insieme ai figli Andrej e Arsenij, di raggiungere il marito: riunione che si concretizzerà soltanto sul letto di morte di Tarkovskij, pochi giorni prima della sua morte avvenuta a Parigi la notte del 28 dicembre 1986.

Nei lunghi mesi di riprese di Stalker, Tarkovskij annota nei suoi diari lo sconforto e la disperazione per il lavoro andato a monte, per tutte le incredibili difficoltà insorte, in gran parte procurate dai grigi burocrati con cui ha a che fare costantemente. Scrive:
Sono successe molte cose. Una specie di catastrofica distruzione, di tale portata che, senza la minima ambiguità, ciò che ne rimane è solo e comunque l’impressione di una tappa superata e di un nuovo traguardo da raggiungere e ciò suscita almeno un po’ di speranza. (…)  Tutto quello che abbiamo girato a Tallin è da buttare. Tutto è fermo per almeno un mese. Alla vigilia dell’inizio della lavorazione di Stalker. Ma se così dev’essere, tutto sarà nuovo. (…) Bisogna ricominciare tutto da zero.  Ne avremo la forza ? 

Le rovine di cui la trama di Stalker è disseminata sembrano dunque coinvolgere anche il film stesso. Tarkovskij descrive la catastrofica distruzione che lo costringe a ripartire da zero. O comunque su quelle fatiscenti rovine che sono state l’inizio del suo film (andato a male per causa soprattutto di un operatore incompetente e per lo sviluppo dei negativi Kodak condotto maldestramente dai laboratori della Mosfilm.

Preso dal nuovo inizio, Tarkovskij non scrive più nulla nel diario per i successivi quattro mesi. Riprende la penna in mano solo a dicembre di quell’anno e il giorno 28  (28 dicembre, lo stesso giorno della sua morte qualche anno più tardi) scrive un solo passo di una citazione tratta da Lao-Tze, che ha inserito alla fine nella sceneggiatura del film, e ha messo in bocca allo Stalker,  in una delle scene più importanti:

La debolezza è sublime, la forza spregevole. Quando un uomo nasce, è debole ed elastico. Quando muore è forte e rigido.
Quando un albero cresce, è flessibile e tenero; quando diviene secco e duro, esso muore. La durezza e la forza sono le compagne della morte. La flessibilità e la debolezza esprimono la freschezza della vita. Perciò chi è indurito, non vincerà. 

Sembra un vero manifesto dell’opera di Tarkovskij.
Lo Stalker recita questo monologo proprio in opposizione alle presunte (rigide) certezze dello scrittore e dello scienziato.

La fragilità e la debolezza sono i paradigmi in cui crede Tarkovskij, e ciò che permette alla fragile e debole poesia dello Stalker di essere ascoltata ed esaudita.
E cosa esiste di più fragile e debole delle rovine ?

Si capisce così per quale motivo Tarkovskij abbia scelto soltanto un teatro di rovine come sfondo per il suo film. Rovine che torneranno ancora – nella magnificenza autunnale della Toscana dell’Abbazia di San Galgano -  a  popolare molte scene del film successivo, Nostalghia.

La vita stessa del regista, durante le riprese del film sembra andare in pezzi. Sempre più angosciato per il suo futuro lavorativo, per la sorte dei familiari e per quelle del film che non riesce a compiersi, Tarkovskij subisce un infarto.

Sono inchiodato a letto ormai da 9 giorni, scrive il 15 aprile del 1978 (14), i medici dicono che forse oggi mi sarà concesso di stare a letto seduto.  Era proprio una cosa che non avrei mai pensato mi potesse succedere: avere un infarto a 46 anni. E al contempo sarebbe stato molto strano se non fosse successo. Che Dio li perdoni.

Il regista si riprende in fretta. Due settimane dopo annota che l’infarto si sta cicatrizzando.

Ma è solo il primo segnale di una salute precaria, che risente delle difficoltà psicologiche, sempre più gravi per Tarkovskij, diviso dalla patria, dalla famiglia e in qualche misura da se stesso.

Il viaggio in Italia, allora che inizia nel luglio 1979, è per lui una vera rinascita. Il regista, accompagnato dal fedele amico Tonino Guerra inizia una peregrinazione in lungo e in largo per la penisola alla ricerca di luoghi idonei per girare il suo vagheggiato progetto di un film italiano, ospite nelle case degli intellettuali, attratti dal carisma di quel russo mistico che non parla una parola né di italiano né di russo.

Per Tarkovskij è anche una occasione di sperimentare nuove vie. Un tratto lo accomuna agli altri due maestri, Bergman e Fellini ed è il fascino per il magico, l'inconsueto, il soprannaturale, l'inspiegabile.

Nella sua curiosa voracità intellettuale, Tarkovskij che ha già avvicinato in patria i temi più lontani come la parapsicologia e gli avvistamenti UFO,  si imbatte anche nella Meditazione Trascendentale.

In quel mese del 1979 è infatti ospite insieme a Guerra di Michelangelo Antonioni,  nella sua splendida villa in Sardegna, sulla Costa Paradiso.

Tarkovskij descrive nei diari la bellezza della villa ("Tamarindi, alberi nani, ammassi rocciosi, c'è dell'acqua tutto intorno...Una spiaggia straordinaria"); descrive i suoi ospiti (Michelangelo è molto gentile, sua moglie Enrica è piena di attenzioni, una padrona di casa perfetta); manifesta i suoi dubbi  (A sentire Tonino, questa casa costa circa 2 miliardi di lire, un milione e settecentomila dollari. La casa. Michelangelo ha troppo "buon gusto"). 

Il 31 luglio, tre giorni dopo il suo arrivo, annota: Oggi ho compiuto il mio primo esercizio di Meditazione Trascendentale, sotto la guida di Enrica.  Domani faremo l'esercizio individualmente.  Gli esercizi, o le tecniche da imparare sono quattro. Alla fine della prima lezione, l'allievo deve offrire al suo maestro (in segno di riconoscenza) un mazzo di fiori, due frutti e un pezzo quadrato di stoffa bianca (un tovagliolo oppure un fazzoletto). Domani dovrò andare a fare un po' di compere con Michelangelo. 
Prima meditazione: Mantra. 

E il giorno dopo, 1 agosto:

Meditazione al mattino. Più profonda, ma avevo la tendenza ad addormentarmi. E'un peccato che il primo giorno di digiuno coincida con il mio giorno di meditazione. Non ho avvertito le "pulsazioni blu". 
In serata la mia meditazione ha funzionato bene. Enrica ha tenuto lezione a me e a Lora (ndr la moglie russa di Tonino Guerra), Ho visto di nuovo dei lampi blu. (15)

Fa una certa impressione immaginare Tarkovskij, Antonioni, Guerra, in quella magica estate del 1979. 

Appena sei anni dopo, nel dicembre 1985, appena terminate le riprese del suo ultimo film,Sacrificio (Offret), sorta di testamento spirituale con la storia di un uomo che assiste al crollo di ogni cosa in cui crede in seguito all'improvviso scoppio di una guerra nucleare, Tarkovskij a Parigi si sottopone ad una radiografia e scopre di avere “un’ombra” nel polmone sinistro. Dieci giorni dopo gli viene diagnosticato un tumore incurabile.

I diari registrano la reazione umana di Tarkovskij, la disperazione, che si rivolge quasi subito ad altro, agli altri, a coloro che ama. La malattia ottiene almeno questo effetto: l’interessamento personale del presidente francese Francois Mitterrand fa sì che Mikhail Gorbaciov, divenuto Segretario Generale del Partito Comunista Sovietico da qualche mese, prenda a cuore la vicenda dei famigliari del regista concedendo finalmente a madre e figlio di uscire dalla Russia e ricongiungersi al padre.

Sono arrivati, Andrjusa e Anna Semenovna ! scrive a grandi lettere Tarkovskij nel suo diario, il 19 gennaio del 1986 e questa pagina è accompagnata dalla prima foto che ritrae insieme padre e figlio, di nuovo insieme dopo cinque anni. Andrjusa è un adolescente,  Tarkovskij è un uomo malato, nel suo letto, gli occhiali sulla federa,  un libro (la Bibbia?) accanto al cuscino.   Gli ultimi mesi trascorrono a Parigi, tra  momentanei miglioramenti, progetti per nuovi film e fitte notazioni sul diario.

Eppure anche l’attraversamento di questa rovina, regala a Tarkovskij, squarci di luce inaspettata.      L’11 aprile, quando la malattia si è fatta più dura, con fortissimi dolori al petto e alla schiena, e i conati di vomito causati dalla chemioterapia, scrive:  Un’immensa speranza è penetrata oggi nell’anima mia: non so come definirla, semplicemente come felicità.   La speranza che la felicità sia possibile.  Fin da stamattina le finestre della mia stanza d’ospedale sono inondate di sole. (16)

Un mese dopo, Sacrificio viene presentato al Festival di Cannes.  La giuria, all’ultima votazione gli preferisce, per la Palma d’Oro, Mission di Roland Joffé. A Sacrificio viene assegnato, tra le polemiche (17), il Gran Premio Speciale della Giuria.  Il figlio,  Andrei, va a ritirare il premio sulla Croisette  al posto del padre.

Nelle settimane successive, che gli restano da vivere,  Tarkovskij continua a riflettere e a scrivere, febbrilmente, su un vagheggiato film sui Vangeli.  Torna sul tema del sacrificio: l’amore è sempre un donarsi agli altri, scrive. E nonostante il termine sacrificio, sacrificale,  comporti un significato quasi negativo ed esteriormente distruttivo (se preso nella accezione del linguaggio parlato) riferito alla persona che si sacrifica, in effetti l’essenza di quest’atto è sempre amore, cioè un fatto positivo, creativo, divino. (18)      Sul tema del sacrificio, dell’incontro tra il sacrificio umano – quello di Giuda Iscariota, ma anche quello di ogni uomo, e dello stesso Tarkovskij, ormai giunto al termine della sua vita  - e quello divino di Cristo, si giocano le ultime riflessioni del grande regista, che sembra consegnare la sua anima, “faccia a faccia con la propria vita”, come scrive il 4 novembre, un mese prima di morire.

Sono anche le considerazioni che concludono il suo libro più famoso, quello nel quale Tarkovskij ha riassunto il suo pensiero teorico, sul cinema, sulla creazione, sull’arte (19) . Nelle ultime pagine di Scolpire il Tempo, scrive:  Il nostro mondo è scisso in due parti: il bene e il male, la spiritualità e il pragmatismo.  Il nostro mondo umano è costruito, è modellato sulla base delle leggi materiali poiché l’uomo ha costruito la propria società sul modello della morta materia. Perciò egli non crede nello Spirito e rifiuta Dio. C’è una speranza che l’uomo sopravviva, nonostante tutti i segni del silenzio apocalittico preannunciato dall’evidenza dei fatti ?  La risposta a questo interrogativo, forse, è  contenuta nell’antica leggenda sulla resistenza dell’albero inaridito, privato dei succhi vitali, che ho preso come base del film più importante nella mia biografia artistica (20).  Un monaco, passo dopo passo, secchio dopo secchio portava l’acqua sulla montagna e innaffiava l’albero inaridito, credendo senz’ombra di dubbio nella necessità di quel che faceva, senza abbandonare neppure per un istante la fiducia nella forza miracolosa della sua fede nel Creatore e perciò assistette al Miracolo: una mattina i rami dell’albero si rianimarono e si coprirono di foglioline. Ma questo è forse un miracolo ?  E’ soltanto la verità.   (21)

I rami dell’albero si rianimano e si coprono di foglie. Rinasce ciò che è inaridito. Guarisce per sempre ciò che è malato: il sogno di Tarkovskij è sempre lo stesso. E’ il sogno dello Stalker.  Le rovine generano. Solo il chicco di grano che muore, germoglia. Non importa se si muore. L’arte rivela la vita, e la conserva. Anche oltre la morte.


Stalker
di Andrej Tarkovskij 
URSS, 1979
Durata 161 minuti
con Anatoliy SolonitsynNikolaj GrinkoAleksandr KaydanovskiyAlisa Frejndlikh, Natasha Abramova, Y. Kostin, R. Rendi, F. Yurma, Oleg Fyodorov




19/10/13

Dieci grandi anime - 2. Andrej Tarkovskij (3./)




Dieci grandi anime. 2. Andrej Tarkovskij (3)

Tarkovskij si sente a un bivio, e sa che sta per arrivare l’ora di una difficile scelta, che appare però inevitabile.  Sono divenute sempre più frequenti le visite, in Russia, di Tonino Guerra, uno dei maggiori sceneggiatori italiani. Guerra parla il russo, è un poeta, come il padre di Andrej.  Nasce una grande amicizia, un rapporto profondo e creativo, il progetto di lavorare insieme ad un nuovo film (7) .  Ogni nuova visita di Tonino Guerra a Mosca, rappresenta una tentazione per Tarkovskij, il quale capisce che si tratta forse dell’occasione che il destino gli ha messo davanti per abbandonare definitivamente il suo paese, e lavorare finalmente senza più pressioni, senza più censure, liberamente all’estero, dove il suo lavoro è apprezzato e pienamente riconosciuto.

Il 5 gennaio del 1979, scrive nei Diari:

Larisa (8) e io stiamo pensando molto seriamente a Tonino.  Non si può continuare così. Come farò a restituire i debiti che abbiamo ? Non so come riuscirò a consegnare Stalker. Che non accetteranno senza che io apporti cambiamenti radicali al film, cambiamenti che io, in ogni caso, mi rifiuto di introdurre. Solo un vero miracolo mi può aiutare.
       E se me ne andassi sull’onda di un grosso scandalo ? Questo significherebbe almeno due anni di tormenti: per Andrjuska a scuola, per Marina, la mamma, mio padre. Sarebbero sottoposti a continue vessazioni.   Cosa posso fare ?! Non mi resta che pregare! E avere fede.     E la cosa più importante è che questo (quello della croce) è un simbolo che non bisogna capire, ma soltanto sentire, capire…  Nonostante tutto, credere…     Siamo crocefissi in una sola dimensione, mentre il mondo è pluridimensionale. E noi questo lo sentiamo e soffriamo per l’impossibilità di conoscere la verità…. Ma non serve conoscere ! Bisogna amare. E credere. Perché la fede è conoscere tramite l’amore. (9).
      
E’ un passaggio molto importante questo, per Tarkovskij.

La fuga dalla Russia si concretizzerà prima con il permesso ottenuto nel 1979 per raggiungere Roma e contattare i dirigenti RAI per la realizzazione del progettato film italo-russo scritto con Tonino Guerra, e poi, dopo un breve intermezzo moscovita, con il definitivo distacco dell’aprile 1980, quando Tarkovskij sfrutta l’invito del premio David di Donatello -  Lo Specchio ha ottenuto il massimo riconoscimento dalla giuria - per raggiungere nuovamente l’Italia.  

Gli anni dell’esilio significano per Tarkovskij una ulteriore chiusura in se stesso. L’isolamento a cui lo costringe la lingua – non parla inglese, soltanto russo e poco francese – le difficoltà continue con le autorità del suo Paese, che negano l’espatrio con ogni pretesto a Larisa e al figlio,  la frequentazione di ambienti estranei e completamente diversi (molto più disinvolti, superficiali, mondani) da quelli che è stato abituato a frequentare nel suo paese, lo portano a intensificare le note dei suoi Diari, e a spingere la sua ricerca spirituale a una radicalità estrema.

Sono anni di viaggi continui, di esplorazioni – insieme a Tonino Guerra girano in lungo e in largo l’Italia alla ricerca di locations per Nostalghia – di partecipazioni a festival e cerimonie in suo onore, a salotti borghesi nei quali egli rappresenta l’ospite esotico, l’intellettuale russo in esilio, che lo fanno sentire sempre più un pesce fuor d’acqua.

Si fa più profondo, in quest’uomo troppo intelligente e introverso, un rifiuto delle inutili apparenze. Una continua ricerca della vera sostanza.


Nel mondo si possono riscontrare in assoluto un numero assai maggiore di squarci verso l’Assoluto di quanto possa sembrare a prima vista. Solo che non li sappiamo vedere e riconoscere, scrive nel luglio del 1981, la nostra conoscenza non è che sudore, secrezione organica, prodotto delle funzioni naturali dell’organismo inseparabili dall’esistenza, che non ha nessun rapporto con la Verità.  L’unica funzione della nostra coscienza è quelle di creare finzioni, mentre la conoscenza è data dal cuore, dall’anima. (10) 

(segue -3./) 

Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. 


1.   Sarà Nostalghia, che uscirà quattro anni dopo, nel 1983, verrà scritto a quattro mani da Guerra e Tarkovskij e sarà girato interamente in Italia, prodotto dalla RAI.
2.   Larisa Pavlova Egorkina è la moglie di Tarkovskij, sposata in seconde nozze nel 1969 e da cui l’anno seguente il regista ha il suo secondo figlio, Andrej Andreevic. Larisa resterà fedelmente  – nonostante i sette anni di forzata separazione – al fianco di Tarkovskij fino all’ultimo giorno della sua vita.
3.   Op.cit. pag.237
4.   Op.cit. pag. 400

23/03/12

Neruda: all'asta "Los versos del Capitan", scritto a Capri, che ispirò "Il Postino" (uno dei libri più rari al mondo).


Va all'asta il libro del poeta cileno Pablo Neruda, "Los versos del Capitan", che ispiro' "IlPostino", il romanzo di Antonio Skarmeta pubblicato nel 1986 e divenuto celebre per la trasposizione cinematografica realizzata da Massimo Troisi nel 1994. 

E' un libro di mitica rarita' di cui non si registrano copie vendute in asta nei decenni scorsi. Sara' messo in vendita dalla casa Bloomsbury a Roma (Palazzo Odelscalchi) martedi' 27 marzo con una stima che oscilla tra 15.000 e 20.000 euro. 

Neruda lo scrisse a Capri nel 1951, esule e ospite nella villa che era stata di Curzio Malaparte, e lo pubblico' l'anno successivo a Napoli, presso Arte Tipografica (8 luglio 1952), finanziato dai compagni italiani comunisti e socialisti. 

La tiratura fu di sole 44 copie, 3 per lo stesso Neruda e le altre 41 per i suoi famosi sottoscrittori, tra cui Renato Guttuso, Salvatore Quasimodo, Giulio Einaudi, Elsa Morante, ma anche Giorgio Napolitano, allora giovane dirigente comunista napoletano. Notevole la rarita' di questo volume originale di Neruda sul mercato antiquario: nessuna copia e' stata battuta prima all'asta da quando e' uscito alle stampe e solo di recente, nel marzo 2011, un libraio antiquario pugliese offriva la copia n.19 (quella per Salvatore Quasimodo) a 40.000 euro, per poi venderla presumibilmente a 30.000 euro. 

La copia proposta da Bloomsbury e' in brossura editoriale verdina con testa di Gorgone al centro, al frontespizio una figura mitologica che ritorna a pagina 13 in posa diversa, e a pagina 177 una veduta di Capri con barche in primo piano. 

La copia riporta l'elenco dei sottoscrittori, con il colophon con l'indicazione della tiratura di soli 44 esemplari destinati ai sottoscrittori (in questo caso il n.35), delicati restauri al dorso e alla cuffia superiore della copertina, con un piccolo strappetto al primo foglio di guardia. 

Nel 1951 Neruda fu ospite in esilio a Capri nella villa dello storico italiano Edwin Cerio (la medesima di Malaparte), dove compose gli struggenti versi d'amore per Matilde Urrutia, la sua musa ispiratrice dopo la separazione con Delia del Carril. "I versi del Capitano" e' un libro che occupa un posto particolare nella vasta produzione di Neruda. 

Fu pubblicato inizialmente anonimo, precauzione presa dal poeta per non offendere la prima moglie, Delia del Carril, a cui si sentiva ancora sentimentalmente legato. Questi versi costituiscono infatti un unico canto d'amore per la donna che da poco era entrata nella sua vita e che non si sarebbe mai distolta dal suo fianco, nei momenti buoni e in quelli cattivi: Matilde Urrutia. 

Alla prima edizione di soli 44 esemplari per amici e sottoscrittori, segui' un'edizione argentina ad ampia diffusione e l'autore dei versi fu facilmente smascherato, non senza qualche dispiacere da parte di chi vedeva in questi versi "intimi" un abbandono dell'impegno e della lotta. Timore fuori luogo, perche' in Neruda amore e lotta non sono mai in constrasto: l'amore e' anche lotta per un futuro migliore

Neruda lascera' l'Italia prima ancora di veder stampato il volume, che gli verra' inviato solo l'anno successivo in Cile. La vicenda di questo breve soggiorno, durato pochi mesi, ha ispirato il romanzo "Il Postino" di Skarmeta