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06/09/12

"L'amore fa male, ma è necessario" - Una intervista di Enrique Vila-Matas.




Ognuno di noi crede di essere stato invitato davvero, e personalmente, all’amore – Un’intervista a Enrique Vila-Matas

di Elena Stancanelli

Mi piacerebbe riuscire a rendere con le parole tutti quei silenzi. Il modo in cui, alla fine di una frase, Enrique Vila-Matas si fermava e mi guardava senza parlare, con i suoi occhi grandissimi. E quando finalmente mi decidevo io a dire qualcosa, lui mi interrompeva e, dal profondo del suo semplice stare, mi diceva una cosa sublime. Non si deve mai tornare su una storia d’amore finita, per esempio. Perchè se ti volti indietro, se rifai la strada al contrario la prima cosa che incontrerai, di quell’amore, è la sua morte.

Ci siamo incontrati a Firenze, in occasione del premio Von Rezzori che Vila-Matas ha vinto con la raccolta di racconti “Esploratori dell’abisso” (Feltrinelli). Nato a Barcellona nel 1948, ha scritto saggi, romanzi e racconti. E’ uno scrittore che scrive di letteratura anche quando racconta il mondo, che non conosce il peccato di realtà. Nel salotto di un albergo elegante, mentre fuori il caldo bruciava la città, gli ho chiesto di parlarmi d’amore.

È un argomento difficile. Vede, il tema dell’amore è strettamente legato a quello della verità. Nel 1939, uno scrittore francese scrisse un saggio, intitolato “L’amore e l’occidente” (Rizzoli).  Denis Rougemont, questo era il suo nome, sosteneva che nel nostro mondo l’amore fosse fondato su un’idea narcisistica. Partendo dal mito di Tristano e Isotta, spiega che ciò di cui noi fatalmente ci innamoriamo, non è l’altro, ma l’idea stessa di amore. Che appunto prescinde dalla persona amata, ed è invece un’auto-esaltazione di colui che ama, del suo coraggio nell’affrontare gli ostacoli. Un amore-martirio, infelice e non sensuale, che si esaurisce nella passione che brucia. Questo concetto, centrale nella poesia trobadorica e i romanzi medievali, è arrivato intatto fino ai nostri giorni.

C’è una scena bellissima ne “Il Grande Gatsby”  di F. S. Fitzgerald, ce ne sono tante in verità in quella che io considero forse la più perfetta storia d’amore mai raccontata. Ma quella a cui mi riferisco è il primo incontro tra Gatsby e Daisy, dopo cinque anni. Nick ha invitato la ragazza a prendere un the a casa sua, su suggerimento di Gatsby. Vuole andarsene, lasciarli soli. Ma loro insistono che rimanga. Perchè, si chiede Nick. “Forse”, scrive Fitzgerald, “la mia presenza li faceva sentire più piacevolmente soli”. È una frase sibillina. Siri Hustvedt, la scrittrice moglie di Paul Auster, ha parlato di questo momento in un suo saggio. Mi piace molto quello che dice: l’amore, scrive Hustvedt, per esistere ha bisogno di essere visto. È una coppia composta da tre persone. Forse essere innamorati, amare, è una condizione talmente ineffabile che solo un testimone può renderla credibile, reale. Forse Daisy aveva bisogno di Nick per “vedere” il suo amore per Gatsby.

Si possono raccontare solo gli amori infelici?
Non necessariamente. Nabokov per esempio è uno scrittore che ha saputo descrivere anche amori leggeri, compiuti. Però è vero che i più bei romanzi d’amore raccontano di passioni che spezzano la vita. Amori che sono malattie, come quello tra Heathcliff e Catherine, in “Cime Tempestose” di Emily Bronte. Eterni, indissolubili. Amori disperati, come quello di Adele H, la figlia di Victor Hugo, per quello stupido tenente francese, nel film di Truffaut. Il più sublime esempio di amore che trascende la vita stessa, è quello raccontato da Hitchcock in “Vertigo” (La donna che visse due volte). Il legame che unisce il protagonista, James Stewart a Kim Novak, nel doppio ruolo di Madeleine/Judy. Chi è la donna di cui davvero lui si innamora? Un fantasma del passato che lui ricostruisce con pazienza nel corpo di lei, trasformandola in quello che il suo desiderio sta cercando. Questo storia ci rivela la complessità e il mistero di quello che chiamiamo l’amore passionale. Che si contrappone all’amore quieto e razionale che costituisce la base dei cosiddetti matrimoni per convenienza. Fondati non sull’innamoramento ma su un contratto sociale, una logica economica. Chi può dire quale delle due condizioni garantisce maggiore durata e felicità? Quel che è certo è che l’amore, in qualsiasi forma, è l’unico sentimento che ci introduce all’idea dell’altro, che ci permette di uscire dalla condizione stringente dell’identità, dell’io nevroticamente arroccato in se stesso, e conoscere il mondo.

Lamore  dunque fa male ma è necessario.
È ineludibile.