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23/12/21

Covid-19 e No-Vax - Bellissima lettera di Donatella di Cesare ad Agamben: "Ora dobbiamo salvare te e la filosofia dal tuo complottismo"

Giorgio Agamben

Una dei migliori filosofi italiani, Donatella Di Cesare, scrive e pubblica una bellissima lettera a Giorgio Agamben, che merita davvero di essere letta e divulgata su vaccini, Covid e la deriva complottista seguita da Agamben, Cacciari e altri filosofi italiani

Caro Agamben, ora dobbiamo salvare te e la filosofia dal tuo complottismo di Donatella Di Cesare 

È stato il filosofo più significativo di questi ultimi decenni. Ma da quando ha iniziato a commentare gli eventi legati al coronavirus ha abbracciato il negazionismo. Sarà quindi necessario preservare Agamben da Agamben, il lascito del suo pensiero da questa deriva.

Mentre volge al termine il secondo anno della pandemia planetaria non si può fare a meno di riconoscere, tra i tanti devastanti effetti dell’immane catastrofe, un evento tragico che investe in pieno la filosofia. 

Vorrei chiamarlo il “caso Agamben”, non per oggettualizzare il protagonista, a cui invece mi rivolgo, come scrivendogli una lettera da lontano, bensì per sottolinearne l’importanza. Giorgio Agamben - piaccia o no - è stato ed è il filosofo più significativo di questi ultimi decenni, non solo nello scenario europeo, ma in quello mondiale. Dalle aule universitarie statunitensi ai più periferici gruppi antagonisti latinoamericani il nome di Agamben, per qualche verso anche al di là del filosofo, è diventato l’insegna di un nuovo pensiero critico. 

Per quelli della mia generazione, che hanno vissuto gli anni Settanta, i suoi libri - soprattutto a partire da “Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita” del 1995 - hanno costituito la possibilità non solo di scrutare il fondo inquietante e autoritario del neoliberismo, ma anche di smascherare la pseudosinistra vincente e annacquata, che oggi si autodefinisce progressismo moderato. Nessuna critica del progresso, un inventario filosofico fermo tutt’al più agli anni Ottanta, una pratica della politica che la riduce a governance amministrativa sotto il dettato dell’economia. 

Sulla scia della migliore tradizione del Novecento - da Foucault ad Arendt, da Benjamin a Heidegger - Agamben ci ha offerto il vocabolario e il repertorio concettuale per tentare di orientarci nel complesso scenario del XXI secolo. Come dimenticare le pagine sul “campo”, che dopo Auschwitz, anziché scomparire, entra a far parte del paesaggio politico, e ancora quelle sulla nuda vita, anzitutto di chi è esposto senza diritti, o sulla democrazia post-totalitaria che mantiene un legame con il passato? 

Tanto più traumatico è quel che accaduto. Nel blog “Una voce”, ospitato sul sito della casa editrice Quodlibet, Agamben ha preso a commentare l’irruzione del coronavirus in termini semigiornalistici. Il primo post del 26 febbraio 2020 era intitolato “L’invenzione di una pandemia”. Oggi suona come una funesta profezia. Allora Agamben non era però il solo a illudersi che il Covid-19 fosse poco meno che un’influenza. Mancavano dati e l’entità del male non si era ancora rivelata. 

Nel mio pessimismo, che mi spingeva a scorgere nei primi segnali l’ingresso di una nuova epoca, mi sentivo circondata da persone che preferivano minimizzare o rimuovere. Durante il lockdown fummo tutti colpiti dalle misure prese per contrastare il virus, tanto indispensabili quanto scioccanti. La vita confinata tra le mura domestiche, consegnata allo schermo, privata degli altri e della polis, ci sembrò quasi insopportabile - fin quando non emerse la sofferenza di chi, senza respiro, lottava per la vita nelle terapie intensive. 

L’immagine dei camion che a Bergamo trasportavano i feretri segnò per tutto il mondo il punto di non ritorno. 

Il virus sovrano, che i regimi sovranisti, da Trump a Bolsonaro, pretendevano o di ignorare grottescamente o di piegare ai propri scopi, si manifestò in tutta la sua terribile potenza. La catastrofe era ingovernabile. E metteva allo scoperto meschinità e inettitudine della politica dei confini chiusi. L’Europa reagì. Per Agamben era tempo di riconoscere a chiare lettere: «Ho commesso un errore interpretativo, perché la pandemia non è un’invenzione». Ma Agamben non ha mai rettificato. 

I suoi post si sono susseguiti fino a luglio 2020 con lo stesso tenore. Mentre la notizia del suo incipiente negazionismo si diffondeva all’estero, leggevo quelle righe imbarazzanti convinta che l’incubo sarebbe presto finito. Così non è stato. I post sono diventati materia di due libri e la “voce” del blog ha continuato a vaticinare raggiungendo il punto più basso con due interventi del luglio 2021 - “Cittadini di seconda classe” e “Tessera verde” - dove il green pass viene paragonato alla stella gialla. 

Un paragone osceno, che ha dato la stura ai peggiori movimenti no vax legittimandoli. Il resto, compresa la “Commissione per il dubbio e la precauzione”, è storia recente. È motivata la preoccupazione per una deriva securitaria. 

La politica della paura, la fobocrazia che governa e sottomette il “noi” instillando il timore per ciò che è fuori, fomentando l’odio per l’altro, è il fenomeno politico attuale che caratterizza le democrazie immunitarie e precede la pandemia. In modi diversi lo hanno denunciato filosofi, sociologi, economisti, politologi. Altrettanto giusto è sostenere che il contesto italiano è sotto questo aspetto un laboratorio politico senza uguali. Tuttavia non si può confondere lo stato d’emergenza con lo stato d’eccezione

Un terremoto, un’alluvione, una pandemia sono un evento inatteso che va fronteggiato nella sua necessità. Lo stato d’eccezione è dettato da una volontà sovrana. Certo l’uno può sconfinare nell’altro e siamo perciò consapevoli sia del pericolo di uno stato d’emergenza istituzionalizzato sia della minaccia rappresentata da quelle misure di controllo e sorveglianza che, una volta inserite, rischiano di diventare incancellabili. È vero: non c’è governo che non possa valersi della pandemia. Manteniamo il sospetto, che è il sale della democrazia. Ma il passo ulteriore, quello della deriva complottistica, non lo compiamo. Perciò non diciamo né che l’epidemia da Covid-19 è un’invenzione né che viene presa a pretesto intenzionalmente, come fa Agamben nell’avvertenza del suo libro: «Se i poteri che governano il mondo hanno deciso di cogliere il pretesto di una pandemia - a questo punto non importa se vera o simulata…».

Personalizzare il potere, renderlo un soggetto con tanto di volontà, attribuirgli un’intenzione, significa avallare una visione complottistica. E vuol dire anche non considerare il ruolo della tecnica, quell’ingranaggio che, come insegna Heidegger, impiega quanti pretenderebbero di impiegarlo. I progettisti diventano i progettati. Non si può oggi non vedere il potere attraverso questo dispositivo. Proprio il virus sovrano ha mostrato tutti i limiti di un potere che gira a vuoto, ingiusto, violento, e tuttavia impotente di fronte al disastro, incapace di affrontare la malattia del mondo

No, non mi associo alla vulgata anticomplottista di quelli che, certi di possedere ragione e verità, riducono un fenomeno complesso a un crampo mentale o a una menzogna. Con tanto più rammarico dico che le cupe insinuazioni di Agamben, le sue dichiarazioni sulla «costruzione di uno scenario fittizio» e sulla «organizzazione integrale del corpo dei cittadini», che rinviano a un nuovo paradigma di biosicurezza e a una sorta di terrore sanitario, lo inscrivono purtroppo nel panorama attuale del complottismo

Com’è noto Agamben si è ritrovato a destra, anzi all’ultradestra, con un seguito di no vax e no pass. Di tanto in tanto si è perfino scagliato contro chi a sinistra difendeva il piano di vaccinazione. 

Non mi risulta, invece, che in questi due anni abbia speso una parola per le rivolte nelle carceri, per gli anziani decimati nelle rsa, per i senzatetto abbandonati nelle città, per quelli rimasti d’un tratto senza lavoro, per i rider, i braccianti e gli invisibili

Mi sarei aspettata dal filosofo che ci ha fatto riflettere sulla “nuda vita” un appello per i migranti che alle frontiere europee vengono brutalizzati, respinti, lasciati morire. 

Anzi, un’iniziativa che, con la sua autorevolezza, avrebbe avuto certo peso. Nulla di ciò. Ci ha costretto spesso a elucubrazioni fuorvianti e soprattutto, prendendo posizioni paradossali, ci ha spinto verso il senso comune. Per quel che mi riguarda forse questo è uno dei maggiori danni, dato che la filosofia richiede radicalità. Ma i danni sono ulteriori e difficilmente stimabili, a partire da un sovrappiù di discredito gettato sulla filosofia. Per noi agambeniani, sopravvissuti a questo trauma, si tratterà di ripensare categorie concetti, termini, alcuni - come “stato d’eccezione” - divenuti quasi ormai grotteschi. 

E sarà necessario salvare Agamben da Agamben, il lascito del suo pensiero da questa deriva. Né si può sorvolare sulla questione politica, dato che viene meno nel modo peggiore uno dei punti decisivi di riferimento per una sinistra che non si arrende né al neoliberismo né alla versione del progressismo moderato. Il cammino sarà impervio.


Donatella Di Cesare




11/07/18

"L'amore mancato" di Heidegger e Hannah Arendt. Riprendono le pubblicazioni dei Quaderni Neri di Heidegger. Un articolo di Donatella di Cesare.




Dopo una pausa durata più di tre anni, riconducibile al clamore suscitato in tutto il mondo dai primi volumi, riprende la pubblicazione dei Quaderni neri di Martin Heidegger. 

È appena uscito dall’editore Klostermann il volume 98 delle opere complete, curato da Peter Trawny, che contiene le Annotazioni VI-IX e un inserto intitolato Der Feldweg («Il sentiero interrotto»)

... 

Nelle Annotazioni VIII si trova invece la testimonianza velata del primo incontro, nel dopoguerra, con Hannah Arendt, avvenuto a Friburgo, nel febbraio del 1950. L’incipit è una citazione di Agostino: «Nessun invito ad amare è maggiore di questo: prevenire amando». E poi ancora un’altra citazione, questa volta di Meister Eckhart: il «fuoco dell’amore» alimenta il pensiero. 

L’amore è il motivo di fondo. Heidegger si schermisce non senza imbarazzo: «Si dice che nel mio pensiero l’amore non sia pensato. Lo si può forse pensare?» (p. 233). E ancora: «Amare vuol dire privarsi nell’evento; sostenere l’espropriazione» (p. 235)

Nessun possesso dell’altro, dunque. L’amore irrompe inatteso. 

Nella lontana primavera del 1925 Arendt aveva spezzato l’ordo amoris di Heidegger che da quella passione era fuggito, incapace di far fronte alla presenza di lei nella sua vita

Contrario all’«amore borghese», quello dei «viaggi insieme», aveva mancato la chance che si sarebbe rivelata l’unica autentica. 

Senza Hannah era rimasto spaesato, tra la provincia asfittica e l’erranza spensierata. 

L’aveva abbandonata con un augurio apparentemente rispettoso: «amore è la volontà che l’amata sia (…); non desidera, né pretende nulla». 

Ma che amore è quello che non pretende nulla? Dietro quell’augurio si celava a stento la sua fuga. Il sé lasciava andare l’altro, per non esserne a sua volta toccato. Heidegger era tornato alla filosofia.

Dopo quei cinque lustri, il tempo che «ti ha ingiunto di andar via, che mi ha lasciato errare» (così le aveva scritto in una lettera, subito dopo l’incontro del 1950), emergono le inibizioni, gli impedimenti che lo avevano reso prigioniero nel regno della possibilità. 

L’evento, nella sua vita, non aveva saputo accoglierlo. 

Durante il dopoguerra Heidegger teorizza il «passo indietro» («La somma del mio pensiero», p. 57). Nel caleidoscopio dell’amore viene alla luce quell’abbandono che verrà elevato a categoria filosofica, ma anche una rassegnazione amara che lo accompagnerà sino alla fine.

05/01/16

Pubblicati i Quaderni neri di Heidegger: Donatella Di Cesare: "serve riflettere e non fuggire".



All'indomani della pubblicazione dei "Quaderni neri" qualcuno si e' accanito a difendere i testi di Martin Heidegger; qualcuno ha girato le spalle al filosofo tedesco e qualcun altro ha adottato la terza via: riflettere. 

E farlo anche sulla "coscienza infelice", quella che deriva dalla riconoscenza dell'allievo verso il maestro. 

E' questo il caso di Donatella Di Cesare, che dopo "Heidegger e gli ebrei" del 2014, lo scorso novembre ha dato alle stampe "Heidegger & sons", titolo che richiama la "ditta" costituita da soci ed eredi dell'autore di "Essere e tempo", ma anche da investitori in fuga: esemplare il caso di Gunter Figal, autore di cinque libri e numerosi articoli sul filosofo, dal 2003 al 2015 presidente della fondazione Heidegger, che ha improvvisamente dichiarato "la fine dell'heideggerismo". 

Poco amata dalla famiglia Heidegger, e soprattutto dal figlio del filosofo, Hermann (custode a quanto pare poco disinteressato della proprieta' intellettuale del padre), anche Di Cesare nel marzo 2015 si e' vista costretta a lasciare la fondazione (dal 3 marzo vive sotto scorta per le minacce subite dall'estrema destra), senza per questo "diseredarsi", neanche dopo quella che lei stessa definisce la "tempestosa resa dei conti" con il filosofo di Messkirch, che nei suoi Quaderni e' arrivato a sostenere l'aberrante tesi dell'autoannientamento degli ebrei

Di Cesare non fa l'avvocato difensore del filosofo, ma non ama i rottamatori: "Il 'caso Heidegger' e soprattutto la pubblicazione dei Quaderni neri hanno fatto emergere un fenomeno altrimenti inconsueto nella filosofia, quello dell'incursione del rottamatore che si presenta nell'agorà non per discutere, bensì per fare piazza pulita. A questo scopo ha bisogno che tutto sia bianco o nero. Il terzo e' escluso, cosi' come e' escluso quel chiaroscuro che e' il luogo in cui, sopportando l'indecisione e la domanda aperta, soggiorna e si sofferma la filosofia".

 Hans Georg Gadamer, che di Heidegger fu allievo, avrebbe detto che "il comprendere e' l'originario modo di compiersi dell'esserci". 

 Ma la tentazione di proscrivere Heidegger e' molto diffusa e Di Cesare mette in guardia da che potrebbe essere una facile scappatoia: "La filosofia tedesca, incapace di uscire dal cono d'ombra proiettato dal suo pensiero, prova a demolirne la figura. Cosi' diventa molto piu' facile cancellare con un colpo di spugna non solo Heidegger, ma anche il passato recente che pesa sempre di piu': la fine dell'ebraismo tedesco, le leggi di Norimberga, la Shoah"

 Hannah Arendt, che di Heidegger fu allieva e amante, dopo l'adesione del filosofo al partito nazista e l'elezione a rettore nell'ateneo di Friburgo (mentre lei fuggiva prima di essere rinchiusa nel campo di internamento di Gurs) dira' di lui che e' un "potenziale assassino"

Questo non le impedisce, a guerra finita, tornata in Europa da New York, di incontrarlo di nuovo e fare marcia indietro sui suoi giudizi. 

Ma dal dopoguerra fino alla morte, avvenuta nel '76, Heidegger non ha mai pronunciato una parola di condanna della Shoah e dopo la pubblicazione dei Quaderni neri e' chiaro che la sua non era la posizione di un antipolitico per scelta, di cui si servi' persino il suo allievo Herbert Marcuse, il cui "L'uomo a una dimensione" fu "la rilettura in chiave rivoluzionaria di 'Essere e tempo'", spiega Di Cesare

L'autrice definisce quello di Heidegger un "antisemitismo metafisico", accentuandone cosi' la gravita'. 

Del resto il filosofo "ha aderito al nazismo per convinzione - scrive Di Cesare - muovendo dal suo pensiero. Percio' si e' trattato, non di un 'errore', bensi' di un rapporto lungo, profondo, complesso che non si e' esaurito con la fine della guerra". 

 E qui Di Cesare avverte che i Quaderni neri sono motivo per meditare non solo sull'antisemitismo del passato, ma anche su quello a venire". E intravede tracce di razzismo laddove le parole giocano a nascondersi: "Il neoantisemita non scrive sui muri 'morte agli ebrei', ma parla del 'business della Shoah'". 

DONATELLA DI CESARE 
"HEIDEGGER & SONS" 
BOLLATI BORINGHIERI 
PP.148, 13 EURO