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14/10/15

Oltre la Mente - L'elaborazione del lutto e il lutto ineluttabile.




Da qualche giorno mi girava intorno la bellezza ultrasensibile della parola 'ineluttabilità', e ragionavo sulla parola 'lutto' che sembra contenere: perché in fondo 'ineluttabilità' è anche qualcosa che non può essere elaborato come lutto, come distacco o mancanza. 

La radice etimologica però ci spiega che le due parole hanno origini dissimili e diverse. 

'Lutto' viene dalla stessa radice di 'lugubre' che è il latino lugere, ovvero piangere (che ha una radice ancora più suggestiva in leug, 'rompere', e nel tedesco loch 'strappo'), mentre ineluttabilità deriva da luctari, lottare. 

Quindi il lutto è qualcosa che si rompe e provoca dolore, l'ineluttabile è qualcosa contro cui non si può lottare.

Eppure chiunque l'ha sperimentato, sa che un lutto (chi ha perso un genitore, un compagno, un amico, un figlio) è per sua natura ineluttabile. Cioè è qualcosa contro cui non si può lottare. 

O meglio, esiste una fase, nel lutto, nel quale si lotta con le unghie e con i denti contro quel dolore divorante, e lo si rifiuta. 

Questa è per esattezza la seconda fase del lutto, nella definizione classica di Elisabeth Kübler Ross, quella della rabbia (come è noto le fasi sono 5: negazione o rifiuto; rabbia; contrattazione o patteggiamento; depressione; accettazione).

Un lutto dunque, dovrebbe terminare sempre con una accettazione. Che è il mezzo attraverso il quale una persona continua a vivere, ad avere riconoscibilità sociale (oltre il lutto) e a sopravvivere. 

L'esperienza insegna però che la Mente sfugge a ogni catalogazione: le sue risorse sono illimitate anche nella risposta agli stimoli esterni (che in questo caso sono la perdita di una persona cara).

Le risposte dunque sono le più varie, e non accade di rado che un lutto sia realmente inaccettabile e inaccettato. 

In questi casi l'elaborazione non si completa: la persona rimane monca, come mutilata, incapace di accettare il distacco, di viverlo profondamente e com-prenderlo. 

Un lutto ineluttabile è perciò per noi quel lutto che resta come tale e senza che contro di esso si riesca a lottare, ma nemmeno si riesca ad accettare

Nessuna efficace lotta per ristabilire il sopravvento della coscienza e per inquadrare questo sentimento nella ragione, riesce.  Ci si ferma ai bordi, senza essere capaci di fluire dall'altra parte.  Ci si affida a pratiche e terapie nella speranza che i farmaci o i suoi surrogati riescano a far fuoriuscire dal tunnel nel quale ci si sente prigionieri: la mancanza di quella persona che è parte di noi, che c'è ancora ma non c'è, che è finita da un'altra parte dove noi non possiamo arrivare, dove noi non possiamo (più) toccarla.

Il fenomeno mi sembra in crescita - e si allarga anche ad altri tipi di lutto (non solo la morte di una persona, ma anche il suo allontanamento, la perdita amorosa, ecc..)  e ciò è dovuto anche allo spaventoso ridimensionamento di quegli 'ammortizzatori' sociali che fino a qualche generazione fa aiutavano nella elaborazione del lutto: i segni esteriori, la riconoscibilità dell'ambiente intorno, il tempo assegnato alla persona rimasta 'orfana'. 

Oggi chi vive un lutto è spesso lasciato nella più completa solitudine

La morte è un argomento fastidioso, che si evita nei consessi sociali, che si preferisce non nominare. Il distacco dalla persona è brutalizzato da pratiche terrificanti: il morto viene chiuso, seppellito e congedato nel modo più frettoloso possibile. I cimiteri sono luoghi che vengono evitati, al morto si preferisce pensare come ad una entità astratta. Il corpo morto non ha più nessun valore, nessun significato. 

Questa mancata elaborazione esteriore rende sempre più difficile la vera elaborazione interiore. 

Il lutto ineluttabile diventa così sempre più diffuso, sempre più pericolosamente reale nel conto delle nostre vite. 


Fabrizio Falconi-© riproduzione riservata 2015.
foto in testa dell'autore


28/10/13

Il distacco (e il Senso).





Ieri sera ho sentito in televisione Eugenio Scalfari, che ormai da parecchio tempo, ama rivestire i panni del teologo (disquisisce di questioni cattoliche con la competenza di un vescovo), parlare della morte e del senso della vita.  Senza molti problemi ha affermato che "il senso della vita è la vita".  E che l'unica difficoltà, in fondo, è il distacco.

Anni fa ho letto uno straordinario libretto di Michel Serres, intitolato Distacco.

Cosa è esattamente il distacco ? E perché le diverse tradizioni mistiche fanno riferimento a questo ?

Il termine mistico deriva dal greco myo. Che significa letteralmente chiudere (le labbra, gli occhi, lo stesso chiudersi, ad esempio, delle ferite).

Dalla stessa radice my , d’altronde, provengono sia il greco mysterion , sia il latino mutus

La mistica nasce dunque dalla necessità – per l’uomo – di convivere con il chiudere, cioè con il finire, che è connaturale alla vita stessa.

La cosa più difficile per un uomo, per ogni uomo è accettare il distacco

Il distacco che è al termine di ogni vita. Distacco dalle cose che abbiamo amato su questa terra: beni, cose, immagini, ma soprattutto persone amate, sentimenti, emozioni, ricordi. 

Le religioni propongono approcci diversi per governare questo distacco, che all’uomo risulta doloroso, inaccettabile: una specie di dittatura della morte, che porta a privarsi di tutto ciò che si è sperimentato in vita. 

Se l’uomo religioso, soprattutto in ambito cristiano, tenta di  abbandonarsi al distacco rispetto al mondo, al fine di giungere a un rapporto più puro con quel Dio con il quale, in realtà, egli si sente o si vuol sentire già in rapporto, il buddhista, invece, si distacca dalle cose, dalla sfera dell’apparenza, per trovare il vero sé: per giungere, in altre parole, all’illuminazione.

In un certo senso, il buddhista si esercita – nella vita – si prepara al grande distacco della morte, sperimentandolo qui in vita.

Ma anche molte delle parole pronunciate da Cristo nei Vangeli spingono assai chiaramente nella direzione del non attaccamento: 

In verità, in verità vi dico: Se il grano di frumento caduto per terra non muore esso resta solo. Ma se muore, porta molto frutto. Chi ama la propria vita, la perde, e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna. (Gv,12,24) 

 Più esplicito (o più duro) di così.. 

Tutto quello che passiamo in questa vita (anche il sorriso dei nostri figli, anche i nostri amori, le nostre albe, e i nostri tramonti) dovrebbe dunque avere una prospettiva diversa da quella che noi immaginiamo qui. 

Che non può essere goduta appieno, se non distaccandosene.