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18/04/18

L’eremo della Mentorella sul Monte Guadagnolo e il genio di Athanasius Kircher (1602-1680)




 L’eremo della Mentorella sul Monte Guadagnolo e il genio di Athanasius Kircher (1602-1680) 
di Fabrizio Falconi


  
        La prima volta ci sono arrivato per caso molti anni fa.  Sulle tracce degli obelischi.
        Roma, per chi non lo sapesse, è la città al mondo che ne ospita di più. Gli obelischi egiziani -  la maggior parte dei quali molto più anziani di qualsiasi manufatto umano esistente nella ‘città eterna’ - sono ben tredici.   Alcuni assai famosi, come quello di Ramsete II, che svetta ancora in Piazza del Popolo, oppure quello scavato nelle cave di Assuan da Tutmosis III ben millecinquecento anni prima di Cristo. Altri ormai misconosciuti, come quello ‘capitolino’ lasciato ad ammuffire tra le erbacce di Villa Celimontana.
         E anche se oggi se ne parla solo quando si discute di ‘arredo urbano’ , c’è sempre qualcuno, per fortuna, che degli obelischi si interessa alla loro storia millenaria.
         Avevo letto in un libro di Cesare d’Onofrio, che al Collegio Romano esistevano ancora tracce di una antica e prestigiosa collezione di antichi modellini, in scala, degli obelischi egizi di Roma.
       Una mattina varcai la soglia del Liceo Visconti,  che oggi è ospitato nelle sale del Collegio Romano.  Erano appena finite le lezioni, pochi studenti bighellonavano nel cortile, all’ombra della grande torre. Chiesi indicazioni alla segreteria del liceo.   Una impiegata senza molta voglia di rispondere, mi rimandò all’ufficio del preside. Ma anche lui era assente. Una seconda segretaria, questa sua personale, mi chiese il motivo della visita.  Spiegai che stavo cercando la collezione dei modelli degli obelischi.
         La signorina, una donna corpulenta e bionda, dai tratti nordici, chiese di rimando:
         “ Quelli di Kircher ?”
         Non era la prima volta che sentivo quel nome, ovviamente.
         Ma quel giorno, si scatenò definitivamente la mia curiosità.  Anche perché la collezione risultò non visitabile.  I modelli degli obelischi – alcuni dei modelli, quelli superstiti -  mi spiegò la segretaria, effettivamente erano ancora lì, conservati sotto chiave, in alcune normalissime teche, nel sottotetto dell’edificio.  Ma per vederli bisognava disporre di una autorizzazione speciale, della sovrintendenza.
         “ Tra l’altro, “ aggiunse la segretaria, “ non glielo consiglio. Non è che siano tenuti molto bene, sa. Non capisco perché qualcuno non se ne occupi. Non li restauri, per esempio, e vengano esposti in un museo vero.  Qui combattiamo con gli studenti, non sa cosa sono capaci di fare quelli.”
         Ringraziai la ragazza, rimasi ancora un po’ a guardarmi intorno nel cortile dell’antico Collegio dei Gesuiti,  l’ombra dell’edificio l’aveva ormai occupato quasi interamente.
         Quello stesso giorno, anche se archiviata l’idea di vedere i modelli – troppo complicato -  riuscii ad ottenere la commissione di indagare – per conto di una rivista – su alcuni aspetti della vicenda terrena di Padre Athanasius Kircher.
         Sul conto del quale molto sapevo, ma altrettanto ignoravo.
       Illustre gesuita tedesco, massimo erudito, uomo per molti versi misterioso. Autore di bizzarre opere enciclopediche dai titoli solenni:  Ars Magna Lucis et Umbrae;  Itinerarium Exstaticum;  Phonurgia nova; Prodromus coptus sive aegyptiacus.   Avevo visto qualche giorno prima da vicino, nel Romani Collegii, uno dei pochi ritratti esistenti, il tondo con l’incisione del volto di Kircher: quella faccia incorniciata dalla barbetta bianca e dal tricorno nero, il naso imponente e dritto, gli occhi chiari e vispi, sullo sfondo consueto di quella che doveva essere la sua sterminata biblioteca.
        
      
 Uomo religioso, e allo stesso tempo grande scienziato, che  non esitava a farsi calare nella bocca del Vesuvio, per studiare da vicino la meccanica dei vulcani. Pio pastore, eppure anche intrepido esploratore dell’occulto, come di qualsiasi materia del conosciuto: dalla matematica alla geometria dei solidi, dallo studio delle lingue – copto, siriaco, egizio -  alla interpretazione dei simboli ermetici,  cultore di  numerologia, cartografia, ottica. Nel suo gabinetto delle scienze, al Collegio Romano – in quelle stesse  aule dove oggi stemperano le loro furie ormonali gli allievi del decaduto Liceo Visconti -  Athanasius Kircher realizzò tra le altre cose inventò il prototipo della lanterna magica;  una delle più antiche calcolatrici;  compilò la prima rappresentazione cartografica delle correnti marine; fu il primo ad osservare il sangue umano al microscopio; fu il primo a decifrare la grammatica copta, sperticandosi poi nella interpretazione dei geroglifici egiziani (trascrivendone i segni dagli obelischi romani ) e sbagliando quasi tutto, ma fornendo comunque intuizioni geniali senza le quali – probabilmente – non vi sarebbe stato nessuno Champollion.
    Alla ricerca di notizie e fonti, scoprii che la Vita Reverendi Patris Athanasi Kircheri, l’autobiografia scritta in latino da sé medesimo prima di morire,  avvincente come e più di un romanzo, è inedita in Italia. Ma  buone copie erano disponibili nelle biblioteche storiche dei gesuiti.
         Così, la prima volta che sfogliai le pagine della Vita, mi imbattei in quel formidabile incipit:
        Nacqui il 2 maggio 1602, giorno di Sant'Atanasio, alle tre della notte, nell'infelice città di Geisa, a tre ore di viaggio da Fulda. I miei genitori erano Johann Kircher e Anna Gansek, cattolici devoti, rinomati per le loro buone opere.
          Quell’incipit che pare  già tutta una promessa. E in quel nome – Athanasius, dall’aggettivo greco athànatos   l’evidenza di un destino. Athanasius, l’immortale ?  Ho cominciato a pensarlo, quando per l’articolo che dovevo scrivere ho cominciato a cercare la tomba di Kircher, a Roma. Si comincia sempre da lì, dalla tomba, in effetti, quando si vuol conoscere qualcosa di più dei segreti di un uomo.  E nel caso di Kircher, com’era consequenziale a tutta la sua vita, i segreti anziché dipanarsi, si sono moltiplicati.
           La tomba di Kircher, per quanti sforzi abbia fatto per cercarla, semplicemente non esiste più.
           Dovunque sia stato sepolto -  e io ho trovato numerosi documenti antichi che riportano tutti la stessa data e il luogo della sua morte,  Roma, 27 ottobre 1680 – nessuno sa più dire dove si trovino  i resti di quel corpo.   I documenti lo danno sepolto alla Chiesa del Gesù, come doveva essere ovvio per un personaggio di tal guisa, che all’epoca tutti conoscevano, che aveva lungamente collaborato con Gian Lorenzo Bernini alla realizzazione di alcune delle più grandi imprese del barocco romano – e che negli anni aveva allestito, proprio nelle sale del Collegio Romano uno straordinario museo di meraviglie, raccolte da confratelli gesuiti in ogni angolo del pianeta allora conosciuto, quel prodigioso Museo Kicheriano, purtroppo andato quasi del tutto perduto.
        Nessuno al mondo, in quel mondo vantava una collezione simile, con ogni sorta di reperti animali, esposti ed impagliati, con ogni specie di nuova invenzione ottica o matematica destinata a stupire i più blasonati visitatori delle corti di mezza Europa.

           
     Nessuno al mondo poteva conferire consulenze così preziose sulle opere da realizzare nella città museo del mondo, Roma. I mostri della Fontana dei Fiumi scolpiti da Bernini vengono lì, come viene da lì, naturalmente, tutto il complicato, esattissimo corredo simbolico del piccolo obelisco e dell’elefante, poco distante, il pulcino della Minerva commissionato da Alessandro VII, e scolpito da Ercole Ferrata. 
           Eppure, di un così tanto – e a giusta misura – celebrato personaggio, sorprendentemente, in nessuno dei registri anagrafici delle antiche chiese parrocchiali di Roma, conservati nella monumentale registeria storica del Vicariato di Roma,  esiste il certificato di morte e sepoltura di Athanasius Kircher. Sparito. O mai esistito.
           Perché ?
          Che fine aveva fatto quel certificato, che pure avrebbe dovuto risultare, se l’enciclopedico morì – come morì – a Roma ?  E soprattutto perché  nella Chiesa del Gesù, che conserva l’elenco minuzioso e completo di ogni sepoltura, non v’era traccia della tomba di Kircher ?
         Semplicemente, dopo qualche settimana di appassionante investigazione, e consultazione di ogni tipo di archivio, e di contatti fruttuosi con i maggiori studiosi di Kircher, in Italia e all’estero, dovetti rassegnarmi a concludere, che semplicemente la tomba illustre non si trovava, non c’era, non esisteva, e nessuno poteva dire  con sicurezza dove fosse stata una volta. 
            Quasi come se il corpo stesso dell’Athanasius,  si fosse volatilizzato, adattandosi al destino di quel nome.
            Ma le tracce di Kircher, in mancanza del corpo, non si rivelarono del tutto assenti.
            Almeno qualcosa restava.
            E qualcosa di non poco conto: il suo cuore.
            Come molti illustri contemporanei,  Kircher infatti, nelle ultime volontà, dispose per sé che, dopo la morte, il cuore fosse separato dal corpo, e deposto in un luogo a parte. 
            Quel luogo, lo aveva scelto con massima cura.
            Lessi  nella Necrologia alfabetica dei Padri Gesuiti, alla lettera K di Kircher:
            “ Il cuore è sepolto al Santuario della Mentorella, al Monte Guadagnolo.”
            Unica traccia riscontrabile. E, visto il precedente,  meglio verificare di persona.
             Così, un pomeriggio di agosto, ho preso con me una buona cartina stradale,  e in macchina mi sono diretto  fuori città, verso Sud, alla ricerca del Santuario, dove – come molti che abitano a Roma – non ero mai stato in vita mia.
           C’è anche una ragione.
          La Mentorella, pur essendo a un tiro di cannone dalla capitale, è  abbarbicata su un impervio sperone di roccia,  poco oltre Tivoli, sulla cresta del  Guadagnolo, nei monti Prenestini, che è alto milleduecento metri, eremo del tutto fuori dagli itinerari battuti dal turismo di massa.
           Si passa da Palestrina, città dalle nobili origini e dalla grande storia, poi la strada prende a salire su tornanti quasi del tutto spogli di vegetazione, da Capranica Prenestina fino alla cima del monte.  E arrivati al Passo della Fortuna, nome memorabile, laggiù in basso, a sinistra, ecco comparire il dorso di tetti rossi del Santuario.
        Varcato il cancello di ingresso, davanti all’ingresso della chiesetta, su un piccolo rialzo di roccia, una grande croce, moderna.   Di fronte, un altro ventaglio di rocce scoscese, dal profilo piuttosto familiare. 

        Parcheggiata la macchina di fronte al cancello di ingresso, e oltrepassatolo, si scopre subito un cartello verniciato, all’imbocco di un impervio sentiero che discende la montagna: Cammino Athanasius Kircher.
        Lo si capisce immediatamente: questo luogo deve molto a Kircher, ma la sua lunghissima storia non comincia certo con il padre gesuita, che in realtà si limitò a riscoprirlo, a restituirlo a nuova vita dopo secoli di totale abbandono.
        Ma la vicenda cristiana che si fonda sulla Mentorella  può vantare duemila anni di storia.   E comincia, mentre a Roma imperava Traiano,  con la prodigiosa visione dalla solida tradizione attribuita all’ufficiale pagano Placido, che in questa regione possedeva ville e terreni, nei quali esercitava la caccia, tra una campagna militare e l’altra.
        Un giorno fatale, a quell’ufficiale un po’ rozzo accade qualcosa di inspiegabile e anche di inconfessabile.  Tra le corna del grande cervo che sta per ammazzare, e che gli è apparso all’improvviso su una nuda roccia,  vede il volto di Gesù Cristo.  Una luce divina, così forte, una visione così ‘intollerabile’  che lo costringe a cambiare tutta la sua vita, da un momento all’altro.

La visione di Sant'Eustachio del Pisanello

        Torna a Roma, si fa battezzare come fanno i cristiani,  e cambia il nome in Eustachio.  Nella Roma efferata di quei tempi non rinuncia alla nuova fede, non  abiura.  Cosa che gli vale il martirio, prima risparmiato dalle belve feroci, poi insieme a mogli e figli, dentro un toro di bronzo arroventato.
         Sul posto dove apparve il cervo, sulla sommità della rupe, una semplice cappella. Pochi gradini per arrivarci, un piccolo campanile, con una corda che un bimbo si diverte a tirare, gli affreschi scrostati, e la massima visione sull’ampia valle del Giovenzano.
         E la storia prosegue.  Dopo Eustachio, il Santo, venne qui Costantino Imperatore. Impressionato dal sacrificio di Eustachio,  e a lui devoto, si dice, qui fece costruire un primo tempio. Del quale non restano che sparute colonne.

La visione di Sant'Eustachio del Durer
         
           In questo semplice, essenziale compendio di storia del cristianesimo – che è la Mentorella -  arriva poi il tempo del grande monachesimo d’occidente. Con il suo grande patriarca,  Benedetto da Norcia.  Fu abitata da lui, la piccola e bellissima grotta che si apre sotto la rupe di Eustachio ?   Le fonti dicono di sì.  E si fermò due anni interi, sembra, prima di andare a fondare il Sacro Speco.
          Due anni interi in questa grotta ?
          Per entrarci, oggi, ci si deve mettere di traverso, farsi accarezzare dalla roccia, in una fenditura strettissima, sorvegliata all’ingresso da ossa umane, in un tabernacolo incassato dentro la montagna.  Poi, all’interno, poche candele accese, un grande e spoglio crocefisso, un rosario, il silenzio che non smette di martellare le orecchie. 
          La memoria di San Benedetto non deve essere durata a lungo, nel lento oblìo medievale,  anche se si consolidò fino all’anno mille, e dopo, la decisione ripetuta e continua di assegnare il santuario alla pertinenza dei Benedettini di Roma. 


          Per la vera rinascita, però, bisognò aspettare altri secoli, fino all’anno del Signore  1661, quando il volenteroso gesuita di Fulda,  preso da una delle sue frenetiche ricerche storico-mistiche  – stavolta il trattatello si sarebbe chiamato Historia Eustachio-Mariana -  si avventurò da queste parti sulle tracce di Sant’Eustachio, e della miracolosa visione del cervo.
          Non è difficile indovinare il suo stupore, quando egli – con i mezzi dell’epoca, che possiamo immaginare – arrivando sulla cima del monte, in un posto dai molti crepacci come questo, scovò sommerse dagli arbusti le rovine di un antico e perduto tempio cristiano. Lo racconta lui stesso, nella Vita. La cosa che più lo sconvolse fu l’abbandono della veneranda statua della Madonna, che pure, come gli spiegò  la gente del luogo, si era resa protagonista, nel corso dei secoli, di ben evidenti prodigi.
           A Kircher non mancavano mezzi ed intelligenza. E conoscenze.   E in pochi anni rinnovò il luogo e il culto.  Istituendo anche una festa annuale, il 29 settembre, dedicata a San Michele Arcangelo, che cominciò a richiamare migliaia di fedeli ogni volta. Illustri protettori – grazie all’influenza del conosciutissimo e influente gesuita – presero a cuore le sorti del Santuario, da Maria Teresa d’Austria  al conte di Wallenstein, all’Imperatore Leopoldo I d’Austria, al Viceré di Napoli Pedro D’Aragona.
           Non solo. Kircher trasformò la Mentorella, nel suo eremo personale.
           Qui, soltanto qui, ritrovava la pace del cuore.  E il silenzio necessario ad approfondire i suoi studi, che intanto proseguivano fertili in tutte le direzioni. Un silenzio che al Collegio Romano era diventato merce rarissima.
           Così, ogni qualvolta c’era bisogno di lui, come quella volta che a Roma si ritrovarono finalmente giacenti sotto terra i pezzi del magnifico obelisco solare di Augusto, in Campo Marzio,  e solo a lui si poteva chiedere un parere,  bisognava mandare un messo fino alla Mentorella, e chiedergli di scendere in città.
          Sempre più recalcitrante, con l’avanzare della vecchiaia,  Kircher si disponeva a sopportare l’umida e stagnante aria di Roma, salvo tornarsene, il prima possibile,  nell’alto delle vette prenestine.
           Fino a quel 27 ottobre del 1680, quando la morte lo colse alla veneranda età di 78 anni. 
           Ed esattamente il giorno dopo, il 28 ottobre, per uno di quegli scherzi del caso che lascia allibititi, morì a Roma Gian Lorenzo Bernini. 
           Non è difficile supporre che i due eventi luttuosi, così ravvicinati, dovettero suscitare enorme eco a Roma. Kircher e Bernini, le due facce di una stessa trionfante, erudita, popolarità.
           Oggi, cosa resta di tutto questo ?  Alla Mentorella, forse è la suggestione ad indurre a pensarlo, resta molto. 
            Il Santuario, da un secolo e mezzo è custodito dai padri polacchi resurrezionisti. Da quando, nel 1857 i fondatori Semenenko e Kajsiewicz riuscirono ad ottenere da papa Pio IX la cura del Santuario, realizzando per prima cosa la strada di accesso, dal Passo della Fortuna al picco della Mentorella.
            Alcuni dei padri, giovani e silenziosi, li incontri oggi nel piazzale di ingresso. Ti salutano con un sorriso, e pregano soltanto di mantenere la quiete che il posto ha conservato miracolosamente nei secoli.  Ti raccontano sussurrando, che il loro Papa polacco, Giovanni Paolo II, pochi lo sanno, fece proprio qui la sua prima uscita, dopo l’inaspettata elezione al Soglio Pontificio. Era il 29 ottobre 1978, e ventimila persone – in maggioranza giovani – parteciparono insieme  a lui a quel memorabile pellegrinaggio. Questo luogo mi ha aiutato molto a pregare, disse una volta papa Wojtyla, e non è difficile crederlo, visto che qui tornò molte volte, anche fuori dell’ufficialità, durante il suo lungo pontificato.

Giovanni Paolo II alla Mentorella, 29 ottobre 1978

           Vi ritrovò forse quelle stesse caratteristiche ricercate a suo tempo da Kircher: pace, silenzio assoluto, raccoglimento, vicinanza al cielo e ai Misteri.
           Entrati nella Chiesa, un canto gregoriano appena udibile in sottofondo, accoglie insieme al senso di intimità e di purezza.
           Tre navate, la centrale più grande con capriate in legno. Preziosi reperti d’arte, ovunque.  Nella cappella di sinistra all’altare l’antichissima tavola di quercia, con la scena della consacrazione della Mentorella, che l’onnipresente Papa Silvestro I, secondo la tradizione, dovette dispensare.  E, sull’altare il ciborio del 1305,  con all’interno quella piccola statua in legno della Madonna, seduta con il Figlio in braccio,  che suscitò l’attenzione e la venerazione di Padre Kircher. 
           Ai suoi piedi, per esplicita volontà, egli volle che fosse deposto il suo cuore.
           Dunque basta spostare di poco lo sguardo, in terra, ed ecco, incastonata nel pavimento, la pietra che copre l’urna che cercavamo:
Leggo e rileggo l’iscrizione: ATHANASIUS KIRCHER SAC. SOC. IESU / TEMPLI HUIUS INSTAURATOR/ET SACRAE QUAE HEIC QUOTANNIS CELEBRATUR / EXPEDITIONIS AUCTOR / COR SUUM AD ARAE MARIAE D.N. PEDES / CONDI  VOLUIT  /  OBIIT. ROMAE A.MDCLXXX / AETATIS LXXX.


La lapide con l'iscrizione posta ai piedi dell'Altare della Mentorella che indica il luogo della sepoltura del cuore di Athanasius Kircher (foto dell'autore)

            Non solo il restauratore, quindi, ma anche l’ideatore e il promotore del nuovo rito di venerazione.  E poi: il cuore suo ai piedi dell’altare della Signora Nostra Maria.
            Un esempio destinato ad essere imitato, se è vero che spostandosi di poco all’interno della Chiesa, nel  pilastro di destra, si scopre un altro ‘cuore illustre’, quello di Papa Innocenzo XIII, che pur non essendo propriamente un amico dei gesuiti, destinò la parte più nobile di sé a fianco di quella di uno dei più celebri rappresentanti della Compagnia. 

L'urna murata con il cuore di Papa Innocenzo XIII alla Mentorella (foto dell'autore)


            Oggi, dissolta nell’aria la serenità immota di venti secoli, se non altro per la comodità dei collegamenti, arrivano quassù sparute comitive  di visitatori, gruppi parrocchiali in gite domenicali, e di scout attratti dal contorno naturalistico.  D’estate, il numero dei fedeli cresce,  diventa enorme la vigilia del giorno dell’Ascensione, il 14 agosto, quando una processione notturna di fiaccole illumina la cima del monte, portando in processione l’immagine del Salvatore. 
             I padri resurrezionisti ti confidano allora che il senso di quell’antico isolamento si ritrova solo in certi giorni d’inverno, quando i mezzi spazzaneve non hanno tempo di spingersi fino alla cima, e il Guadagnolo resta immerso nel silenzio del vento gelido che soffia senza ostacoli.
           In quei giorni, dicono, sporgendosi dalla Rupe di Sant’Eustachio, sulla sommità del Santuario, si apprezzano colori unici, e lo spettacolo pieno di stupore di un silenzio che sigilla le opere del creato con il loro Creatore.
             Athanasius Kircher, mistico e scienziato, scienziato e mistico, conosceva meglio di chiunque i segreti di quel silenzio.
             Nella seconda pagina della sua monumentale Ars Magna, scriveva:
             Le pianticelle che giacciono sepolte nel ventre dei loro semi, sotto lo sguardo del Sole, germogliano ebbre di gioia e presto sbocceranno in foglie, fiori, frutti.  Tutti gli animali, sospinti dalla gioia dei cieli, vale a dire dalla fertile radiazione di luce, sono stimolati, come da un sorriso, al piacere da movimenti fecondanti. Persino le rocce, remote come appaiono a ogni contatto con la luce, attratte da qualche forza di radiazione occulta, inturgidiscono, e nella loro tumescenza si abbracciano l’un l’altra, tutte unendosi alla danza delle sfere celesti.


Fabrizio Falconi 
Riproduzione riservata 2018 
testo estratto da: Fabrizio Falconi, Dieci Luoghi dell'Anima, Cantagalli, Siena, 2009

30/07/16

L'incredibile fascino di Roncisvalle (Dieci Luoghi dell'Anima).




Quando, spostandosi da est ad ovest si attraversa la regione del Midi-Pyrénées, la più estesa dell’intera Francia, sembra che il ventaglio di creste scure, a Sud possa davvero essere impenetrabile, invalicabile. I Pirenei confondono lo sguardo, non forniscono l’adito di valli profonde, come le Alpi.  Appaiono come una muraglia compatta e severa.   Dai profumi del Mediterraneo, in pochi chilometri, sovvengono nuove e inaspettate sollecitazioni: sono i venti floreali dei Pirenei,  arricchiti da migliaia di specie che proprio un italiano, nato a Bagnocavallo, il dimenticato Pietro Bubani, detto il Botanicus Peregrinator,   passò più di vent’anni, nell’Ottocento,  a catalogare.  E’ un vento fresco ed aspro, il cui odore si mischia a quello di legna fradicia. 
  Non per questo la terra dell’immensa Occitania, che abbracciava anticamente Mediterraneo e Atlantico -  pianure verdi, spiagge sconfinate e oscure montagne -   smette di interrogare il visitatore nel cuore della sua storia personale, e insieme collettiva.  Si lasciano alle spalle le euforie zigane di Perpignan e le eresie catare di Carcassonne, i racconti che lasciano insonni,  e sembra di penetrare ancora più profondamente nel senso di un arcano che sempre chiama l’uomo a interrogarsi sulla natura di Dio.
   .....
 Senza sbagliare,  si può affermare che da qui in poi, i Pirenei diventano ancora più presenti, ancora più vivi, con la vetta del Pic d’Orhy che si può quasi toccare,  perché l’aria è diventata chiara, tersa, e il colore bruno e verde scuro delle montagne disegna un contrasto vibrante con il topazio del cielo.  Il mare, infatti, non è lontano. Poche decine di chilometri sono lontane le spiagge atlantiche decadenti e assolate di Bayonne, Biarritz, St-Jean-de-Luz.
  E allora si infittisce il mistero riguardo al destino umano, che sembra scegliere sempre – per compiersi pienamente -  la strada più ardua, quella più tortuosa. Gli uomini infatti, sia che si recassero in battaglia,  sia che fossero in cammino per il pellegrinaggio millenario sulla tomba di San Tiago, hanno privilegiato sempre, la via più impervia. Forse le coste, all’epoca, costituivano una minaccia più grande, per trappole o imboscate ? Ma queste scoscese e oscure strade che risalgono il vallone fino a Saint-Jean-Pied-de-Port non erano altrettanto pericolose ? 


  Non sarebbe stato più sicuro, o se non altro meno faticoso -  per i pellegrini delle tre vie francesi – la TuronensePodense e la Lemovicense – transitare da Hendaye, e da lì direttamente a San Sebastiàn,  per poi discendere su crinali certamente più docili verso il miraggio di Compostela ?  
  No. Il cammino degli eserciti e dei pellegrini in cerca di Dio – lo stesso, sulle stesse strade – ha preferito passare di qui, issarsi sui versanti ripidi che conducono su, da Saint-Pied-de-Port, fino a Arneguy che è chiamata anche Aduana – i nomi cominciano a indicare concretamente la direzione geografica intrapresa -  e poi ecco: inaspettatamente, la moderna e triste insegna di un  distributore di benzina Campsa è il benvenuto in terra di Spagna.  Da Valcarlos fino al passaggio dell’alto di Ibaneta, 1057 metri sul livello del mare: è qui, in questi pochi chilometri, tra questi due versanti ampi e ombrosi, che la storia di secoli, passati a rimasticare le chansons de gestes , si è tramandata attraverso l’eloquio puro dei trovatori, di bocca in bocca, di generazione in generazione.
  Valcarlos non è che un piccolo borgo, che soltanto per due giorni all’anno, la Domenica di Pasqua, e  il 25 luglio -  nella settimana che precede la festa patronale di San Giacomo - improvvisamente si anima di centinaia di Bolantes, coloratissimi ballerini e ballerine, i quali attraversano il villaggio nei costumi tradizionali, tenendosi per mano. Il rosso è il colore predominante. Rosse le gonne delle ballerine, rossi i fazzoletti degli uomini. Rosso come il sangue  che per molti secoli ha bagnato le strade della Navarra.
  A dieci chilometri da Valcarlos, proprio a Puerto de Ibaneta, ecco il punto esatto: il passo dove l’antica e  invincibile tradizione da sempre racconta la triste sorte di Orlando, uno dei massimi e più popolari eroi della cristianità,  qui dove i suoi uomini furono attesi, affrontati,  e non risparmiati, anzi, ferocemente sterminati.
  I francesi hanno sempre chiamato questo valico Col de Roncevaux,  ed in virtù della loro egemonia letteraria nei salotti d’Europa,  questo nome è diventato da tutti riconosciuto come il luogo della battaglia.
  Così, anche se oggi non v’è che un brutto monumento moderno a ricordo di un mito - alimentato e contraffatto nei secoli da una schiera sconfinata di poeti francesi, spagnoli, italiani, tedeschi -  ogni visitatore di passaggio, si ferma, cerca nell’aria una memoria o una traccia della lontana leggenda, alla quale sa in fondo - anche magari soltanto confusamente -  di appartenere,  come gli appartiene ognuno che discenda da una qualsiasi delle stirpi che abitano il  vecchio continente. 


   Non è che un sasso enorme e sformato questo monumento, e non vi sono incise che un nome e due date:  

Roldan -  778 – 1967

Neanche, dunque, l’occasione di una ricorrenza vera e propria,  eppure nessuno si sottrae al rito di  mettersi in fila per la classica foto che ritrae il pellegrino all’inizio del suo Camino, davanti al monumento a Rolando, sullo sfondo delle immense foreste di pino uncinato che ricoprono le montagne.

  Chi era Orlando, o Roldan, o Rolando, o Hruodlandus come pare si chiamasse in realtà il personaggio storico, realmente esistito, che diede origine al racconto ?  Chi era dunque ? E perché non possiamo dimenticarci di lui ? 

15/02/16

La statua del Redentor sul Corcovado a Rio de Janeiro (Dieci luoghi dell'anima).


  


   Num cantinho um violao,
este amor uma cancao
pra fazer feliz a quem se ama,
muita calma pra pensar
e ter tempo pra sonhar,
da janela ve se o Corcovado,
o Redentor que lindo….

              I versi di Antonio Carlos Jobim, il padre della musica Brasiliana, di quella rivoluzione chiamata Bossanova, teorizzata e compiuta insieme a Joao Gilberto e Vinicius De Moraes, risuonano nella mente quando si intraprende un viaggio nel cuore del Brasile.  
              A me è capitato qualche anno fa, in una circostanza speciale, per la realizzazione di un reportage sulla deforestazione in Amazzonia.
              Rimasto in Brasile per quasi un mese,  e attraversato quel paese grande come un continente da est ad ovest, da nord a sud, ebbi l’impressione di apprezzarlo pienamente, di percepirne il senso della storia, e di quella filosofia di vita soltanto quando, lasciati alle spalle gli spazi sterminati del sertao, il bassopiano arido che abbraccia gran parte del nord-est,  e del bacino fluviale più esteso del mondo, feci visita al riconosciuto simbolo universale carioca.
              Come ogni simbolo, il Redentor, la monumentale statua eretta sulla sommità del Corcovado, che domina dalle sue altezze la città di Rio de Janeiro, parla molti linguaggi, e ad ognuno suggerisce qualcosa di diverso, un frammento o una suggestione di quella grande anima latino-americana che ha parlato nella storia di questo paese  attraverso i  preludi di Villa Lobos, le saghe bahiane di Jorge Amado, le imprese calcistiche, il cinema novo di Glauber Rocha.
          
           E ha parlato, appunto, anche grazie all’arte inconfondibile di Antonio Carlos Jobim.  Il quale, per sfuggire alle ombre lunghe di una infanzia grandemente sofferta – il padre, uomo religioso e tormentato, morì suicida, forse per una dose eccessiva di morfina usata per combattere la depressione – scoperta la magia di un pianoforte, si inventò una carriera di musicista, rifiutandosi in questo modo di proseguire le tradizioni diplomatiche della famiglia.
           Scelse, per vivere, una casa meravigliosa – intatta ancora oggi – immersa nel verde rigoglioso e nella pace (sembrerebbe incredibile a dirsi)  del quartiere di Ipanema.  Ci andò a vivere con la giovane moglie Thereza, e con i due figli Paulo ed Elisabeth. E qui scrisse  le canzoni di Orfeo Negro (il film che fece scoprire il Brasile a tutti, europei e americani compresi), A felicidade, Chega de Saudade, e la stessa Corcovado. Un pugno di canzoni che cambiarono la musica di quegli anni, e rimasero patrimonio di tutti.
           Erano gli anni del Brasile del presidente Juscelino Kubitschek, detto JK, eletto nel 1956,  gli anni di un memorabile e dissonante sviluppo economico che portò il Brasile alla ribalta del mondo, nella musica, nell’arte, nell’industria, nell’architettura.  A scapito di quello che in pochi decenni divenne il più grande indebitamento pubblico di un paese, destinato a pesare per così tanto tempo sulle spalle del popolo brasiliano, non si esitava a costruire l’utopia della città del futuro: la capitale Brasilia, disegnata dal genio di Oscar Niemeyer e di Lucio Costa,  sorta come un fungo nel deserto nel giro di pochi anni.
             Intanto il Brasile, quinto paese al mondo per estensione e per popolazione, diventava sempre più povero, e uno dei giganti cattolici del paese si trovava a fare i conti con la revanche dei riti sincretisti degli Orixas e di Nossa senhora da Bahia.
             Non era la prima volta che il Brasile provava a legittimarsi, nelle ambizioni più che nei fatti, potenza mondiale.
             Era già successo negli anni ‘30.  In quel tempo il Nord del pianeta si accorse del Sud non solo come deposito di ricchezze naturali, da depauperare. Il Sud era anche  ricchezza, mito primigenio, forza  creativa,   rinnovamento.
             In quegli anni dunque – esattamente il 12 ottobre 1931 – il Brasile si diede il simbolo che desiderava: una statua di Cristo alta 38 metri, e pesante 1.145 tonnellate. Scelse la data dell’anniversario della scoperta americana di Colombo, anche se quel giorno inaugurò per il Sud America (e per il Brasile) la lunga e terribile stagione dei massacri indiscriminati di ogni cultura indigena, vecchia di secoli. 
In realtà si parlava già da anni di porre una statua di Cristo in quel punto esatto. Probabilmente se ne parlava anche a causa del fatto che il primo nome che nel secolo sedicesimo i conquistatori portoghesi diedero a quel monte, dominante la spettacolare baia di Rio, fu Pinàculo de la Tentaciòn, perché  - ripido così come l’aveva disegnato la mano di Dio -  ricordava proprio il monte dal quale Cristo viene invitato dalle lusinghe del Diavolo a gettarsi nel vuoto.   Ma la prima iniziativa concreta per realizzare una scultura in quel luogo fu presa molto tempo dopo, intorno al 1850,  dal padre lazarista Pedro Maria Boss, che ne aveva parlato, senza molti risultati alla principessa Isabella, figlia dell’imperatore Pietro II, alla quale il Brasile deve l’abolizione della schiavitù. L’idea poi fu abbandonata con la proclamazione della Repubblica, nel 1889.
             E’ davvero incredibile come, nel cuore stesso di una città tentacolare e assurda come Rio de Janeiro, ancora oggi si possa respirare la magia di  quella natura incontaminata, di quel lussureggiante spettacolo naturale che per milioni di anni ha regnato incontrastato sul continente australe americano, prima della comparsa dell’uomo, e poi insieme ad esso.

tratto da: © Fabrizio Falconi - Cantagalli editore - Dieci Luoghi dell'Anima, 2009.
(continua a leggere sul libro). 



07/10/14

Cefalonia e Fiskardo - (Dieci luoghi dell'anima).

Fiskardo

Lo Ionio è diverso da tutti gli altri mari. 

E’ forse per via del blu. Sono le schiere di navi passate dalla notte dei secoli che lasciando tracce impercettibili, hanno reso questo colore più denso, oleoso? O forse è per causa del contrasto con il particolare verde di pini e cipressi delle isole ? La terra si è aperta un’infinità di volte, da queste parti: terrificanti sismi, bombardamenti a tappeto. 

Eppure, il dito puntato verso il Nord di Cefalonia, quello non è stato mai toccato. 

Quando l’aereo di linea la sorvola, l’isola si svela per essere proprio come la forma di una mano bruna distesa nel blu, e il promontorio di Fiskardo nient’altro che il suo dito indice. 

L’aeroporto è vuoto eppure colmo di quell’allegro, tipico disordine di ogni scalo ellenico. Una fila di taxisti inoperosi aspetta soltanto un turista da scarrozzare. Li evito perché la solerte agenzia di viaggi internazionale ha disposto una macchina a noleggio a tariffa ridotta, da bassa stagione. L’addetto è un corpulento tizio dai capelli lucidi che sembra in libera uscita dal film Z - l’Orgia del Potere

Firmo il foglio e mi tocca una utilitaria giapponese col cambio automatico, l’abitacolo che odora di nuovo. La litania dei nomi dei luoghi che si susseguono lungo le strade deserte è suadente: Argostoli, Dilinata, Divarata, Anomeria, Assos, Vassilikades, Tsamarelata, Ventourata. 

Nomi caramellati, di zucchero. Sono perlopiù villaggi addossati sul fianco della montagna che scende rapida nel mare. Questo angolo di Ionio così speciale, scaturigine di mille leggende, di ogni possibile narrazione metaforica, fonte, destino della civiltà d’occidente. 
Di fronte a Cefalonia si staglia infatti Itaca. 

Isole gemelle separate da un breve braccio di mare. Odysseus e Paolo di Tarso. Sebastiano Venier e Roberto il Guiscardo. Ed è proprio a causa dell’ultimo rifugio terreno di colui che fu chiamato ‘l’astuto’, e cioè il Guiscardo, che Cefalonia, o Kefalonia come la chiamano in tutto il resto del mondo, ha una storia in più da raccontare . 

Sull’isola, la strada verso Nord sale e scende, accarezzando il mare, la cui vista da questo lato si perde. E’ una carrettiera a rapide curve pericolose, ostruita da rallentamenti di vecchi camion con motori esausti che si arrampicano senza costrutto su e giù, fino a dove l’asfalto riesce ad arrivare. 

A metà del percorso c’è una grande spiaggia, immensa, che si vede dall’alto, chiamata Myrtos, dove l’acqua per qualche strana magia dei fondali, appare splendidamente turchese. Nei dintorni soltanto qualche chiosco con le finestre sbarrate da assi di legno, la stagione dei turisti non è ancora arrivata, ma il sole è tambureggiante, e le bouganville già sono in fiore. Punto dritto verso quel nome: Fiskardo. 

Mano a mano che il dito si allunga nel mare la strada diventa dolce e i saliscendi meno severi.

Tratto da Dieci luoghi dell'anima, Fabrizio Falconi, Cantagalli editore, 2009.


01/09/14

Meraviglie romane: la falsa cupola di Sant'Ignazio e il sepolcro di Kircher.




Una delle meraviglie romane è la Chiesa di Sant'Ignazio, nella piazza omonima tra Via del Corso, il Pantheon e il Collegio Romano. 

Ogni anno attrae visitatori da tutto il mondo, in primis per il prodigio pittorico realizzato dal pittore gesuita Andrea Pozzo: mago della prospettiva, realizzò una finta cupola, affrescata su una parete completamente piatta (a Sant'Ignazio per vari motivi, la Cupola progettata non fu mai costruita). 

Così chi entra nella Basilica, dal fondo della navata non si accorge di nulla, e viene illuso dalla esistenza di una Cupola che in realtà non c'è. 

Soltanto  avanzando e disponendosi sotto l'affresco si scopre l'inganno prospettico.

La Falsa Cupola fu realizzata da Andrea Pozzo nel 1685 cinque anni dopo la morte di Athanasius Kircher, il grande gesuita (scienziato, esploratore, vulcanologo, paleografo, enciclopedico, ecc..) alla ricerca del sepolcro del quale mi sono messo qualche anno fa. 

Durante questa lunga (e infruttuosa) ricerca (soltanto il cuore di Kircher è accertato trovarsi nel Santuario della Mentorella sui monti Prenestini), ebbi modo anche di esplorare i sotterranei di Sant'Ignazio. 

C'era infatti la possibilità che  la tomba di Kircher potesse trovarsi non al Gesù, come indicato dalle fonti (senza riscontro), ma alla Chiesa di Sant'Ignazio. Le due chiese in realtà sono distanti poche centinaia di metri. Un amico mi segnalò il fatto che a Sant'Ignazio vi era stato un recente ritrovamento di tombe antiche.

E per fugare il dubbio che tra queste potesse trovarsi anche quella di Kircher un giorno ho chiesto il permesso di visitare il Sotterraneo della Chiesa. 

Esattamente sotto la Falsa Cupola, al centro della navata, vi è, incassata nel pavimento una pesante botola di marmo. Che si può sollevare mediante due grossi anelli di bronzo dorato (ci vuole un bel po' di forza..). 

Con una normale scala a pioli, inserita nella botola (in orario di chiusura della Chiesa), siamo scesi nel sotterraneo, dove non esiste illuminazione, e bisogna portare una lanterna elettrica, per orientarsi. 

In quella occasione ho potuto verificare l'esistenza di un centinaio di sepolture, ottimamente conservate e allineate con ordine, che corrono in diversi larghi ambienti sotto il pavimento della Basilica. I nomi dei morti sono perlopiù scritti direttamente sulla superficie di cemento che chiude i loculi, con nerofumo o carboncino. 

Per quanto riguarda Kircher, ricerca ebbe esito negativo: le sepolture risultarono essere quasi tutte posteriori al 1720-1730, e comunque non sono risultate traslazioni più antiche, né tanto meno quella di  Kircher. 

Una esperienza comunque notevole. Di questa ho scritto in Dieci luoghi dell'anima, pubblicato qualche anno fa.

Fabrizio Falconi