Visualizzazione post con etichetta destino. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta destino. Mostra tutti i post

20/09/19

Nulla succede per caso. Sincronicità e coincidenze nei periodi di transizione della nostra vita




Ci sono nella vita periodi che possiamo chiamare di transizione: sono quei periodi in cui la stabilità non è tale da darci soddisfazione interiore, e allora sentiamo di dover operare dei cambiamenti in un'esistenza diventata noiosa e paralizzante;  oppure momenti in cui eventi incontrollabili gettano lo scompiglio in una situazione che avevamo ormai accettato.   Talvolta questi periodi di transizione possono essere provocati da entrambi gli elementi: una necessità interna di cambiamento e una serie di eventi esterni che ci fanno uscire da un solco nel quale non sapevamo neppure di trovarci. 

Molti individui, durante questo processo di transizione, ricevono un aiuto non soltanto esterno o sociale, ma di carattere interno e psicologico: senza che lo desideri o lo si cerchi esso giunge nella forma di una sequenza accidentale di eventi che si verifica nel momento più adatto per aiutarci a proseguire, spesso proprio quando abbiamo la sensazione che ci sia ormai poco da fare. 

Uno dei tratti distintivi della concezione junghiana della psiche è la convinzione che essa sia un fenomeno naturale e che tutti i suoi aspetti, compresi quelli in apparenza patologici o distruttivi, abbiano in realtà la funzione di far sì che lo sviluppo psicologico non si arresti. 

La visione di Jung, secondo la quale i fenomeni psicologici hanno sempre una loro funzione, rafforza la sua concezione di sincronicità. Quando accadono eventi acausali, significativi sotto il profilo emotivo e sotto quello simbolico, il fatto di sperimentare psicologicamente una sincronicità consente in qualche modo di procedere.  

Ecco perché le sincronicità si verificano sempre in momenti di transizione cruciali.

Come l'aiuto che spesso riceviamo dall'esterno, la psiche ci fornisce a volte un aiuto interno e psicologico in forma di coincidenze significative. 





06/11/18

L'amore si costruisce ?





L'amore si costruisce ?  

Ricordo una bella canzone di qualche anno fa di Ivano Fossati, che si intitolava proprio: La costruzione di un amore. La costruzione del mio amore/ Mi piace guardarla salire/ Come un grattacielo di cento piani/ O come un girasole diceva quel testo. 

Eppure si fatica sempre a immaginare l'amore come una costruzione.  Perché siamo dominati dall'idea che l'amore è il meno razionale dei sentimenti e il meno suscettibile di ordine esteriore. Proprio a causa del fatto che l'amore risponde soltanto al suo ordine interiore. 

Non è però in contrasto con questo, affermare che anche l'amore ha bisogno di cura. Tutti nella vita sperimentano che - come una pianta formata dall'essenza delle due anime che si amano - nessun amore resiste se non vi è una cura continua, assidua, dativa. 

L'amore vive cioè di una sua vita propria - nasce spontaneamente e molto spesso neanche da un perché: nasce da un riconoscimento reciproco e nasce come dono molto raro - ma nello stesso tempo ha bisogno di nutrirsi. Ha bisogno di nutrirsi soprattutto quel complesso di cose che sostengono l'amore: la stima, la coerenza, la fiducia, la presenza, il rispetto, la considerazione, la felicità, la festa, la gioia, la sincronia dei gesti, dei pensieri, l'ascolto. 

Questo, potrebbe definirsi più generalmente è il volersi bene. Che è la cura dell'amore, ciò che sostiene l'amore. 

Lo ha espresso bene uno scrittore molto (troppo?) prolifico come Erri De Luca con queste parole: Il volersi bene si costruisce. L'amore lo senti immediato, non ha tempo. E' dire "ti sento" , un contatto di pelle, un abbraccio, un bacio. Mantenersi, il mio verbo preferito, tenersi per mano. Ti può bastare per una vita intera, un attimo, un incontro. Rinunciarvi è folle sempre e comunque. 


Fabrizio Falconi 





15/09/18

Palestra della durezza.




Ci sono tanti modi per allevare un ragazzo o una ragazza alla palestra della durezza.  Nei primi anni di vita - Bettelheim sosteneva che fondamentali per la determinazione del carattere fossero i primi 6 - basta mettere in scena nel teatro famigliare comportamenti e modelli come: l'instaurazione del senso di colpa come dogma, la repressione, il rispetto di regole dogmatiche, la propensione all'istinto di fuga, la ribellione, la competizione, la freddezza o l'assenza. 

Certo, ha ruolo fondamentale anche la predisposizione, il carattere, quello che è il proprio destino personale, quello con cui si nasce. 

Ma non c'è dubbio che ciò che si assorbe nell'ambiente famigliare nei primi anni, soprattutto a livello di sofferenza interiore - quando il bambino e poi l'adolescente si sentono abbandonati a se stessi e obbligati a trovare una strada propria, una regola morale o non morale interna, indipendente - racconterà molto della vita di un adulto. 

Esercitato a lungo alla palestra della durezza, il bambino diventato adulto tenderà a ripetere quei modelli, a metterli nuovamente in scena, ciclicamente, periodicamente, nevroticamente per poterli poi smentire, tradire o con-traddire.  

Non servirà ricoprire questo adulto di rassicurazioni o bene, dispensato più o meno gratuitamente. Il carattere tenderà a imporsi non appena sarà libero di farlo, cioè non appena i vincoli o le sovrastrutture - un sentimento, un obbligo, un legame - si saranno spezzati. 

Il carattere anzi, segretamente, lotterà sempre, già da prima e durante, contro questi vincoli e queste "sovrastrutture". Remerà contro, per poter un giorno dire all'altro se stesso, trionfante: "ecco, vedi, io avevo ragione". 

La palestra della durezza lascia segni come cicatrici, che non si cancellano con il tempo.  Rifiutando, fingendo di accettarlo, ciò che è mansuetudine, malleabilità, comprensione, genuinità. 

E' come se - e la storia della letteratura mondiale e del cinema è piena di modelli/stereotipi di questo tipo - l'eroe della durezza avesse bisogno di dimostrare a se stesso molto prima che al mondo, che occorre essere duri, non lasciarsi ingannare, non scendere a patti.  Jake La Motta prenderà a testate le pareti della prigione (come avviene nel finale di Toro Scatenato), pur di non dover ammettere con/a se stesso - che è stato, per molto tempo, forse per tutta la vita, il principale, inutile nemico di se stesso. 

Fabrizio Falconi



06/01/18

Il Daimon e la Donna, una pagina di William Butler Yeats.



Riporto una bellissima pagina - misteriosa e da meditare - di William Butler Yeats tratta da Per amica Silentia Lunae (1917), libro composto da due sezioni, 'Anima Hominis' e 'Anima Mundi'.

Credo che tutti gli uomini devoti abbiano la certezza che negli eventi della vita ci sia una mano diversa dalla nostra e che, come qualcuno afferma in Wilhelm Meister, ciò che avviene per caso è destino; e credo sia stato Eraclito a dire che il Daimon è il nostro destino

Se penso alla vita come a una lotta contro il Daimon, che vorrebbe sempre che ci dedicassimo all'opera più difficile tra quelle non impossibili, comprendo il motivo della inimicizia profonda fra l'uomo e il proprio destino e perché l'uomo ama solo il proprio destino. 

In un poema anglosassone c'è un uomo chiamato Doom-eager, "avido di destino", uno nome che vorrebbe racchiudere in sé tutto l'eroismo possibile. 

Sono certo che il Daimon ci libera e ci inganna, che sia stato lui a tessere quella rete di stelle per poi scrollarsela via dalle spalle. 

E allora la mia immaginazione va dal Daimon all'amata, e intuisco una analogia che sfugge all'intelletto. Penso agli antichi greci che invitavano a cercare le stelle primarie, che governano sia l'inimicizia che l'amore, fra quelle che stanno per tramontare nella settima casa, direbbero gli astrologi; e che forse "l'amore sessuale", che "è fondato sull'odio spirituale", è un immagine del conflitto che esiste tra uomo e Daimon; e mi chiedo perfino se non ci sia una comunione segreta, un mormorio nel buio fra il Daimon e l'amata. 

Penso al fatto che spesso le donne innamorate diventano più superstiziose e sono convinte di portare fortuna agli uomini che amano; e penso ancora a quella antica storia irlandese dei tre giovani che andarono a Slieve-na-mon, nella casa degli dèi, per chiedere protezione durante la battaglia.  "Dovete prima sposarvi", disse loro un dio "perché la buona o la mala sorte dell'uomo derivano da una donna". 

Al tramonto a volte tiro di scherma per una mezz'ora, e quando poi sono a letto, con gli occhi chiusi, vedo un fioretto ondeggiare davanti a me, il suo bottone sul mio viso. Sempre, nelle profondità della mente, qualsiasi cosa ci portino le nostre azioni, dovunque ci trascinino le nostre rêveries, sempre incontriamo la Volontà dell'altro. 

traduz. Gino Scatasta, SE 2009 

06/02/16

Il Destino, una parola fuori moda.




Anche alle parole, come ai vestiti e ad ogni altra cosa umana, capita di passare di moda. 

Succede ora alla parola Destino, che quasi nessuno ormai pronuncia più.  Fa parte di un comune sentire, che riguarda il tentativo di esorcizzare quello che non comprendiamo e che tutto sommato ci disturba. 

Il pensiero dominante infatti è tetragono oggi nel credere e nell'affermare che in definitiva tutto è sempre nelle nostre mani, tutto possiamo decidere, tutto possiamo scegliere e alla fine siamo noi gli artefici di tutto quello che (ci) accade. 

Una pubblicità della TIM anzi, ultimamente alletta i suoi consumatori con lo slogan: La libertà di non scegliere.  Il sottotesto è che ormai siamo così ricchi, così pieni di opzioni (ricordate l'altro spot della Vodafone: Tutto intorno a te ?) che possiamo anche concederci di non scegliere nulla, tanto - verrebbe da dire - qualcun altro ha scelto per noi, e questo va comunque bene anche per noi. 

Eppure è così evidente - agli antichi questo lo appariva ancor di più, esposti com'erano alle furie naturali, delle guerre, dei massacri, delle epidemie - che c'è una grossa parte di quello che (ci) accade sulla quale noi non abbiamo proprio nessun controllo. 

Per gli spagnoli la parola 'Destino' significa arrivo. Noi per lo stesso significato abbiamo destinazione.  Destino invece, per noi, ha un senso profondamente arcaico che ha sostituito il Fatus dei Romani. 

Le due cose infatti, per i Romani, erano molto diverse. Il Destino  (fortuna) era infatti legato alle caratteristiche umane e si sposava perciò con le volontà individuali (e il libero arbitrio) che determinano la propria sorte.  Il Fatus invece per i romani indicava l'essere sottoposti a una necessità che non si conosce e che non si può controllare. Che appare come casuale (ma per i romani non lo è). 

Oggi per noi Destino significa il Fatus dei Romani. E come ogni cosa che non comprendiamo, tendiamo a rimuovere.  Se proprio poi si deve dedicare attenzione a questo fenomeno degli eventi, vi si attribuiscono gli attributi di caso, accidente, fatalità.

Eppure la tradizione umana, in occidente come in oriente, ha sempre attribuito al Destino, cioè al Fato, una caratteristica non legata fondamentalmente/esclusivamente al caso. Che un vaso di fiori cada in testa ad un passante dunque, è certamente casuale.   Ma sotto questo mantello del caso inviolabile,  la tradizione orientale ha individuato le più diverse necessità del Karma (per i buddhisti), quella occidentale un disegno non leggibile dagli umani, ma che può essere variamente interpretato, fino alle moderne scuole di psicologia del Novecento. 

Tutto questo appare oggi cancellato.  Tutto è nelle nostre mani.  E quel (poco) che non è nelle nostre mani è puro caso ( e questo sentire è ad esempio diffusissimo anche tra chi si dichiara credente di una qualche confessione religiosa), ruota della roulette. E quindi, non vale nemmeno la pena di discuterne.

Ecco dunque che si spiegano le reazioni nevrotiche di fronte ai grandi e improvvisi lutti, alle grandi e improvvise tragedie, di fronte alle quali siamo sempre più impreparati, senza strumenti (anche soltanto interpretativi) di qualunque senso. 

Fabrizio Falconi

foto in testa: frame dal video Losing my religion, dei R.E.M.


03/09/15

SaggiaMente. La sofferenza dell'anima.




La mente non è (solo) il cervello.  Gli occidentali ci hanno messo parecchio a giungere a questa conclusione che nel pensiero orientale era già assodata migliaia di anni orsono. 

Non è solo il cervello - l'organo biologicamente preposto al pensare - l'autore dei nostri stati d'animo, delle nostre ansie, delle nostre intuizioni, dei nostri dolori.   La mente si muove oltre i confini strettamente biologici, oltre le semplici connessioni neuronali (cellule neuronali fra l'altro non esistono solo nel cervello, ma anche in altri organi del corpo): si pensa anche quindi con il cuore, si pensa con lo stomaco, si pensa con gli organi genitali, si pensa con l'intestino. 

Si è felici o tristi anche con il cuore, con lo stomaco, con gli organi genitali, con la pelle, con l'intestino. 

Ma c'è qualcosa che trascende ancora il pensiero, la mente, biologicamente intesa come cervello o in modo più esteso come prosecuzione del/nel corpo. 

Questo qualcosa è stato variamente denominato nel corso dei millenni della storia dell'uomo.  Ad esso, a questo quid, ci si è riferito e ci si riferisce, non sapendo cosa sia, nei più diversi modi.  James Hillman, ne Il codice dell'anima, ha meticolosamente e dettagliatamente elencato questi nomi, che seppure con sfumature diverse, indicano questo quid, che non è, è non sembra essere soltanto mente: carattere;  predisposizione; anima; Sè; destino; istinto; talento.

Si tratta di quel nucleo originario della nostra personalità, della nostra individualità.  

Anche nella consapevolezza e nella accettazione e ricerca di questo quid, il pensiero orientale ha trovato strade di comprensione molto tempo prima, anche se dal pensiero greco platonico in poi, anche la tradizione occidentale ha preso le misure di una componente così essenziale della natura umana. 

Per verificare la potenza di questo quid - e anche la sua reale sussistenza - ci sono diverse strade e diversi cammini personali.   La strada più evidente è quella della sofferenza.   Cioran scrive che è proprio la sofferenza che plasma e crea la coscienza.  

Ma un certo tipo di sofferenza, rende evidente la potenza del quid, cioè dell'anima. 

Sono quelle sofferenze che non appartengono a stati mentali o a patologie o processi meramente cerebrali/neuronali.  Quasi tutti hanno sperimentato quel particolare malessere dell'individuo che non dipende da una malattia biologica - si è perfettamente sani nella mente e nel corpo - ma che sembra insinuarsi direttamente nella nostra radice più profonda dell'essere. 

Si può essere molto felici, esteriormente - avere tutto ciò che apparente-mente serve per essere felici, ogni condizione di bisogno appagata - ed essere al contempo interiormente enormemente infelici. 

Nel recinto di esistenze normali, si dibattono inquietudini interiori, vere crisi, mancanze di senso, infelicità diffuse che dipendono da ciò che il nostro quid silenziosamente o rumorosamente richiede, e che se non ascoltato procura danni enormi. 

La sofferenza dell'anima può infatti generare vere malattie della mente e del corpo. O del corpo e della mente, che appaiono così inestricabilmente legati. 

Ma la sofferenza dell'anima è anche un meraviglioso segnale, di cui disponiamo - se riusciamo a dare ascolto ad esso, e spazio, spazio, spazio - per capire cosa la vita ci chiede e cosa noi possiamo dare alla vita.


Fabrizio Falconi - 2015 


23/06/14

Indaco e porpora: i due colori della vita.




In fondo tutto ma proprio tutto non è altro che passaggio dall'indaco al porpora, e viceversa.

Alla saggezza appartiene l'indaco. Il cui nome deriva proprio dalle Indie. Affondano le radici dell'essere umano, la sua comparsa sulla terra. Indaco è il colore dei Tuareg, che vivono nel deserto e prima del deserto e dopo il deserto, e non hanno casa perché la loro casa è la rotondità del mondo intero. Quindi il Sé stesso

Al dolore e al sangue appartiene il porpora.   Ogni molecola del nostro corpo si fa parente del porpora. Ogni cosa di noi è porpora, ogni inizio e ogni fine dell'umano terrestre nasce e muore nel porpora. 



Ogni simbolo si esprime nell'indaco.
Ogni vita si esprime nel porpora.

Ogni vita aspira all'indaco.
Ogni simbolo si incarna nel porpora.

Il nostro proveniente mondo è indaco, il nostro oggi è porpora. Il nostro tornare è indaco. Il nostro lasciare è porpora.  Dopo ogni porpora c'è un indaco, dopo ogni indaco un porpora.  Indaco e porpora, come sapienti oscuri immateriali dioscuri tengono in bilico ogni destino umano. 



Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. 

29/05/14

L'obiezione all'astrologia (di chi non conosce) - Marco Pesatori.





Coloro che deridono l'astrologia, spesso non sanno ciò di cui parlano. 

Molti infatti confondono la tradizione astrologica millenaria basata sulla conoscenza simbolica dell'animo umano con le varie tecniche divinatorie.

Ma come sanno tutti coloro che si avvicinano all'astrologia seriamente, nessun astrologo serio si sognerebbe mai di divinare il futuro di una persona, ciò che gli succederà esattamente domani o dopodomani. 

L'astrologia infatti si basa - come ogni scienza dei simboli - sulla individuazione dei principi individuali e collettivi che muovono i caratteri umani (e a questo termine così difficile da identificare - nessuno sa cosa sia il carattere di una persona - si associano altre parole misteriose legate all'esistenza umana: predisposizione,  destino, fato, propensione, personalità ecc..) 

Uno dei più seri astrologi italiani, Marco Pesatori, ha scritto recentemente (D di Repubblica, 24 maggio 2014):

L'astrologia è strumento per creature dotate di ragione e possibilità di scelta.   Così l'estenuante polemica tra determinismo e libero arbitrio sembra aver poco senso.
Se dal servizio meteorologico si sa che domani il mare ha forza sette, è una sentenza precisa, ma nulla impedisce al bravissimo velista o all'incosciente di prendere la barca a vela per farsi un giro. 
A chi è alto 1,53 nessuno impedisce di tentare il record mondiale di salto in alto, anche se sarà quasi impossibile ottenerlo e forse è meglio che si dedichi al 400 piani o alla maratona.
Che ci sia un disegno o no, non è dato sapere, ma ciò non mette in discussione la realtà o l'illusione di essere proprio noi a scegliere. 

Mi sembra eloquente, e molto interessante.

Fabrizio Falconi

08/05/14

Essere fratelli non si sceglie, lo si diventa (Joaquin e River Phoenix).


Joaquin (sotto) e River (sopra) Phoenix fotografati nel 1985. 


Essere fratelli non lo si sceglie. Lo si diventa. 

Quel che accomuna due esseri umani, l'essere venuti al mondo dalla stessa donna, dallo stesso codice genetico, non è scelto da nessuno, tanto meno da chi si ritrova nella condizione di essere fratello di qualcuno. 

Ma non esiste forse relazione che rende meglio il concetto di responsabilità umana di quello di fratello (non casualmente questo è il termine a cui si ricorre più spesso nei libri sapienziali e nelle parole pronunciate dal Messia nei Vangeli). 

Sono il fratello di qualcuno, non l'ho scelto.  

Ma il destino mi chiama, sotto questa forma, anche se io non so cosa sia il destino. 

Sono chiamato a farmi carico (o a scegliere di non farmi carico, che è la stessa cosa), sono chiamato direttamente in causa, sono interrogato nel profondo di me stesso. 

Un legame misterioso avvolge noi due e non so trovare altro termine più appropriato di relazione

Fratelli non abbiamo scelto di essere.  Ma possiamo diventarlo, e certe volte siamo chiamati drammaticamente ad esserlo, senza nemmeno poterlo sceglierlo. 

Emblematico, fortissimo di significati è il destino dei cinque fratelli Phoenix.  River è morto tragicamente. Joaquin, che ha assistito alla sua morte, che lo ha visto morire tra le sue braccia, è oggi uno dei migliori attori di Hollywood, in virtù, forse, anche di quel dolore che si legge ancora sulla sua faccia. 

Fabrizio Falconi

Joaquin Phoenix, noto per un periodo anche come "Leaf Phoenix" appartiene a una famiglia di artisti, di cui il più noto è il fratello maggiore River, morto tragicamente nel 1993 all'età di 23 anni.

Suo padre è John Lee Bottom, carpentiere, cattolico proveniente da Fontana in California, mentre la madre è Arlyn Dunetz, segretaria, nata nel Bronx da genitori ungherese e russo e di religione ebraica. 

I due s'incontrarono a Los Angeles: John diede un passaggio in auto a Arlyn che stava facendo l'autostop dopo aver abbandonato il primo marito. Vissero per qualche tempo nelle comuni hippie. Divennero quindi missionari della setta religiosa dei Bambini di Dio, in Sud America. 

Ebbero cinque figli: River (deceduto nel 1993), Rain, Joaquin, Liberty e Summer. Joaquin è l'unico che non porta un nome ispirato alla natura; sentendosi escluso, a quattro anni decise di farsi chiamare Leaf ("foglia"), nome che tenne anche come attore fino all'età di 15 anni. Delusi dalla setta dei Bambini di Dio, i genitori di Joaquin rientreranno negli Stati Uniti nel 1978 dove cambiarono il cognome in "Phoenix" (in onore alla Fenice che risorge sempre dalle proprie ceneri). 

Rientrato negli Stati Uniti, Joaquin Phoenix sarà uno dei testimoni della morte del fratello River, avvenuta per overdose di droghe al Viper Room, un club alla moda in parte di proprietà di Johnny Depp, la notte di Halloween del 1993. 


Johnny Depp era presente quella sera nel locale, così come la fidanzata di River Samantha Mathis, il cantante degli Slipknot Corey Taylor, il bassista dei Red Hot Chili Peppers, Flea, e il chitarrista John Frusciante, entrambi amici da tempo. Dopo essere stato visto a colloquio con alcuni spacciatori, River uscì dal locale in condizioni preoccupanti mentre Flea e Depp stavano suonando sul palco; i due si precipitarono fuori, mentre Joaquin chiamava il numero di soccorso pubblico 911. 

I soccorsi però non poterono arrivare in tempo, e quando un'ambulanza giunse sul luogo River era già morto sul marciapiede. La corsa al Cedars-Sinai Medical Center e i tentativi di rianimazione furono inutili e River fu dichiarato morto alle ore 1:51 L'autopsia rivelò in seguito un'overdose di eroina e cocaina, sotto forma di speedball, oltre a tracce di cannabis,Valium e un altro anti-influenzale per il quale non era necessaria la ricetta medica. Tuttavia sul suo corpo non furono ritrovati segni di aghi. 

La drammatica telefonata di Joaquin al 911 fu registrata e ritrasmessa da varie trasmissioni radio e tv. A seguito del decesso di River e dell'atteggiamento invasivo e irrispettoso dei media nella sua vita privata, Joaquin si allontanò da Hollywood per la seconda volta fino al 1995, quando parteciperà a Da morire (To Die For), prova d'autore diretta da Gus Van Sant.

tratto da Wikipedia.



Joaquin Phoenix

14/12/12

La saggezza di Tancredi.




C'era un vecchio, al paese, che non aveva fatto altro, nella sua vita che riparare e vendere scarpe. 

Si chiamava Tancredi.  E il mio ricordo gli assegna un cappello di paglia per l'estate con larghe tese e di feltro d'inverno che sfoggiava immancabilmente mentre sedeva lunghe ore, quando era ormai vecchio e lavorava poco, fuori dal negozio sul Corso. 

Guardava la gente passare.  Scambiava parole, sorrideva ai bambini, si sgranchiva, tornava a sedersi. Controllava che nel negozio tutto andasse bene. 

E' morto in pace, è morto amato. 

Io amo a mia volta queste persone che sono state e sono capaci di realizzare vite semplici, dedicandosi ad una sola cosa, alla cura di una cosa, che diventa il senso compiuto di una vita. 

E' questo che dovrebbe essere il compito di ogni uomo: fare ciascuno il proprio - senza nuocere agli altri, senza realizzare il male - compiere la propria opera.

Tutti sappiamo che ogni cosa umana, raffrontata all'eterno e alla bizzarria della nostra esperienza terrestre mortale, appare - se appena guardata con obiettività - inutile, insensata o folle. 

Ma la rotondità di una vita spesa per un fine, coltivando il proprio talento - qualunque esso sia -  è quello che spezza anche le ruote dell'eterno, mette insieme nascita e morte, intelligenza e sentimento, prolungamento, inizio e fine, destino e origine. 


Fabrizio Falconi



13/12/12

Prima conosci te stesso.





Molte persone non fanno altro che interrogarsi sul destino: vogliono sapere del futuro, di come e se verrà realizzato il proprio talento, di come e se si riceveranno amore o doni dalla vita. 

Sono sempre alla ricerca di qualcosa o di qualcuno che sappia divinare, gettare un lume di chiarezza sul proprio destino, sul perché - fondamentalmente - si è venuti al mondo. 

Molti non sono nemmeno coscienti di avere un qualsivoglia talento (non si parla qui di talento solamente creativo, si parla di tutti i talenti della vita, quello per esempio di saper amare, o di essere generosi o di saper comunicare..).   

Eppure ciascuno ne possiede uno, si tratta di conoscerlo. E soprattutto di farlo fruttare come indica anche il racconto evangelico (Mt 25, 14-30)

Ciò che però spesso sfugge è l'esistenza di una premessa importante senza la quale nessun destino (o daimon o vocazione) può mai essere raggiunto o intra-visto.

Si dovrebbe sapere che proprio al di sotto dell'Omphalos del più famoso oracolo dell'antichità, a Delfi, era scritto a chiare lettere: Γνῶθι σεαυτόν, ovvero:  'Conosci te stesso'.

Nessun responso sul futuro, nessuna conferma o smentita mai arriverà a nessuno, se prima non si lavora su se stessi, duramente, se prima non si conosce veramente chi si è.

Questo vale per ogni campo della vita, da quello affettivo a quello delle relazioni umane, del lavoro, della creatività.

Ad un giovane scrittore che ardeva dal desiderio di raccontare, di diventare poeta e narratore e che al medesimo tempo, si sentiva indeciso su cosa scrivere, cosa raccontare, Aleksandr Sergeevič Puškin rispose con una lapidaria sentenza:  prima conosci te stesso. 


Fabrizio Falconi

Foto in testa: Omphalos di Delfi (copia ellenistica-romana dell'originale andato perduto), conservata nel Museo Archeologico di Delfi.