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24/01/24

"The Long Shadow", la Serie prodotta dalla britannica ITV, una delle migliori di questa stagione


"The Long Shadow" è una bellissima serie inglese, che non è disponibile su nessuna piattaforma italiana, al momento, e che forse in Italia non vedremo mai (per la proverbiale lungimiranza dei distributori italiani...).

E' un peccato, perché, prodotta dalla rete britannica ITV (specializzata in true crime), è di solida, ottima fattura e taglio quasi cinematografico. In 7 corposi episodi di 50 minuti ciascuno, viene minuziosamente ricostruita la più grande caccia all'uomo mai avvenuta in tempi recenti in Gran Bretagna, per dare un volto e un nome a un assassino seriale, che in 5 anni, dal 1975 al 1980, riuscì a evitare la cattura, nonostante l'uccisione di 13 donne (prostitute e non), e l'aggressione di almeno altre 7, e la mobilitazione di un esercito di poliziotti, archivisti, esperti, anatomopatologi, ecc..
Il Killer acciuffato quasi per caso, soltanto dopo 1.900 giorni di indagini, terrorizzò una nazione intera, ribattezzato dalla stampa "lo Squartatore dello Yorkshire" (The Yorkshire's Ripper) per la violenza con cui si accaniva sul corpo delle vittime usando un cacciavite o un coltello da cucina, e per la regione - lo Yorkshire, appunto - in cui compì i suoi crimini: da Leeds a Sheffield, con puntate anche a Manchester.
Particolarmente encomiabile, in questa serie, è l'assenza totale di morbosità, che di solito circonda la messa in scena dei criminali e dei crimini seriali (i quali di solito finiscono per essere enfatizzati). Tutta la vicenda viene mostrata per quello che è, con la ricostruzione perfetta di ambienti, colori, abiti, situazioni di quel periodo storico.
Ed è anche una serie molto istruttiva, perché lungi dal soffermarsi a contemplare l'orrore degli omicidi - talmente concreto che è inutile sottolinearlo - si concentra invece sulle tragiche cause - imputabili alle mediocrità umane di chi conduce le indagini - che permisero ad un banalissimo uomo di tenere in scacco centinaia di uomini e di continuare a uccidere impunemente un numero impressionante di donne, vittime innocenti.
Un altro motivo di interesse della serie risiede nella attualità degli omicidi di genere, i quali anziché diminuire con il diffondersi della libertà sessuale, si moltiplicano esponenzialmente in tutto il mondo occidentale.
I pregiudizi contro le donne, la misoginia, il vero e proprio razzismo sessuale, lo sfruttamento delle prostitute sulle quali si accaniscono i maschi frustrati, descrivono un quadro desolante ma estremamente realistico del punto a cui sono - ancora oggi - i rapporti tra uomini e donne e la frustrazione sessuale che ne consegue, con conseguenze tragiche su menti fragili o malate.
Per la cronaca, il vero Squartatore, che si chiamava Peter Sutcliffe e faceva il camionista, è morto in carcere per Covid nel 2020, dopo 40 anni di galera.
Una serie che merita di essere vista anche per la bravura degli interpreti, al livello della qualità sempre alta della fiction anglosassone, con Toby Jones, bravissimo e sensibile commissario, purtroppo quasi subito estromesso dalle indagini.

Fabrizio Falconi - 2024

01/07/22

Qual è la vera storia di "Lunch atop a Skyscraper" - "Pranzo su un grattacielo", l'iconica foto degli operai sospesi nel vuoto nel 1930?


Come è noto gli irlandesi e gli altri gruppi di immigrati (e i loro discendenti) sono responsabili del moderno skyline di New York, compreso il Rockefeller Center. E nessuna immagine ha simboleggiato questo contributo meglio di una delle foto più riconoscibili del XX secolo, "Lunch Atop a Skyscraper", originariamente intitolata "Builders of The City Enjoy Luncheon".

Questo ritratto di 11 operai del ferro che pranzano con disinvoltura seduti precariamente su una trave d'acciaio a 850 piedi d'altezza ha catturato l'immaginazione di milioni di persone quasi subito dopo la sua pubblicazione sul New York Herald-Tribune il 2 ottobre 1932, ma tutte le informazioni che un tempo si conoscevano sui soggetti e sul fotografo sono andate perse nel tempo. Sebbene sia più comunemente nota come "Pranzo in cima a un grattacielo", l'immagine è stata chiamata con nomi diversi nel corso degli anni, tra cui "Pranzo su una trave" e "Uomini su una trave".

Anche il luogo è stato oggetto di dibattito: Alcuni pensavano che si trattasse dell'Empire State Building, mentre in realtà si tratta di una foto pubblicitaria scattata durante la costruzione del 69° piano dell'RCA Building del Rock Center - oggi conosciuto come 30 Rock - ma grazie al lavoro investigativo di due registi irlandesi, questa e altre informazioni sulla foto sono venute alla luce.

Quasi 12 anni fa, nel 2010, Seán Ó Cualáín e suo fratello Éamonn ne hanno trovato una copia sulla parete di un piccolo pub di Shanaglish, a Galway, in Irlanda. "Accanto alla foto c'era un biglietto di un certo Pat Glynn, figlio di un emigrante locale, che sosteneva che suo padre e suo zio erano sulla trave", racconta Seán. "Sapevo ben poco della foto, se non che ero cresciuto con il mito che tutti gli uomini che vi comparivano erano irlandesi. Quindi eravamo incuriositi. Quando siamo usciti dal pub, il proprietario ci ha dato il numero di Pat e da lì siamo partiti". La loro ricerca per svelare il mistero della foto si è trasformata nel pluripremiato documentario del 2012, Men at Lunch.

La loro ricerca non è stata facile. "La sorpresa più grande è stata che, nonostante il richiamo mondiale della foto, nessuno aveva cercato di scoprire chi fossero gli uomini o il fotografo prima di noi", racconta Seán. "Stavamo letteralmente partendo da zero e senza l'assistenza e l'entusiasmo dell'archivista del Rockefeller Center, Christine Roussel, ci saremmo trovati in grossi guai". Dopo aver esaminato decine di fotografie dell'archivio scattate durante la costruzione del Centro, la Roussel è riuscita a identificare due degli uomini: Joe Curtis, il terzo da destra, e Joseph Eckner, il terzo da sinistra. (Purtroppo, a causa di limiti di programmazione e di budget, i registi non sono riusciti a sapere molto di più su di loro, a parte i nomi).

Per quanto riguarda Pat Glynn, i registi hanno incontrato lui e suo cugino, Patrick O'Shaughnessy, a Boston, dove hanno confrontato le foto di famiglia con gli uomini sulla trave. Entrambi sono convinti che l'uomo all'estremità destra con in mano una bottiglia sia il padre di Pat, Sonny Glynn, mentre l'uomo all'altra estremità sia il padre di Patrick, Matty O'Shaughnessy.

"Le somiglianze fisiche sono impressionanti, ma poiché non sono rimasti documenti di lavoro della costruzione Rockefeller, è molto difficile affermare con certezza al 100% che Sonny e Matty erano sulla trave", dice Seán. Dato che più di 40.000 persone sono state assunte per aiutare a costruire il Rockefeller Center - un'opportunità economica senza precedenti per una popolazione che stava lottando contro la Grande Depressione, molti dei quali stavano affrontando discriminazioni basate anche sulla loro provenienza - è piuttosto sorprendente che non esistano registri.

Tuttavia, quello che si sa è che tra questi lavoratori non c'erano solo irlandesi-americani e immigrati irlandesi, ma anche italiani, scandinavi, europei dell'Est, tedeschi e persino operai Mohawk del Canada. (Per oltre 100 anni, i membri della tribù Mohawk hanno contribuito alla costruzione di quasi tutti i grattacieli più importanti di New York, tra cui il Rockefeller Center, l'Empire State e il Chrysler). Di conseguenza, persone di ogni provenienza, provenienti da tutto il mondo, hanno dichiarato di conoscere gli uomini della foto.

Qual è l'opinione del regista? "Credo che su quella trave ci siano Matty e Sonny", dice Seán. "I documenti di famiglia collocano entrambi a New York all'epoca della foto. Inoltre, una frase detta da Patrick O'Shaughnessy alla fine del film mi è sempre rimasta impressa: 'Non si arriva all'età che ho io adesso senza sapere chi sei e chi è tuo padre'". Si spera che un giorno tutti gli uomini vengano identificati con certezza.

Mentre sono in corso ulteriori ricerche, ora sapete che potete festeggiare gli irlandesi a terra durante la parata o dal ponte di osservazione del Top of the Rock, vicino al luogo in cui questa foto iconica è stata scattata 85 anni fa (o anche sulla strada per l'ascensore sul tetto, dove potete entrare voi stessi nella foto). 

Fonte: Rockfellercenter.com


24/06/22

Jean-Louis Trintignant e il più grande dolore di un padre


Il grande Jean-Louis Trintignant con quella faccia "un po' così", bella, mite e triste, c'era nato e forse rappresentava anche un destino.

Visto che al cinema gli sono toccati spesso ruoli drammatici, o drammaticissimi.

Ma anche nella vita, Trintignant non è stato fortunato.

Il più grande dolore del mondo, quello di perdere una figlia, infatti l'attore francese lo provò, e nel peggiore dei modi.

Nella notte tra il 26 e 27 luglio 2003, mentre si trovava a Vilnius, in Lituania, per le riprese di un film che la vedeva protagonista, Marie Trintignant, la splendida e talentuosa figlia dell'attore, venne percossa brutalmente al viso e alla testa nel corso di un violento litigio dal suo compagno Bertrand Cantat, voce e leader del gruppo rock francese Noir Désir, che era sotto l'effetto di alcool. L'attrice venne soccorsa solo l'indomani intorno alle 7,30. La violenza dei colpi le causò un grave edema cerebrale, che le causò prima il coma e poi la morte, avvenuta il 1º agosto, dopo due interventi chirurgici alla testa.

Il racconto di quella notte aggravò ulteriormente la posizione di Cantat. Nonostante Marie fosse svenuta sul letto - e probabilmente già in coma - il suo assassino chiamò il fratello di Marie soltanto dopo qualche ora. E quando arrivò, lo convinse che "Marie stava solo dormendo" e che "con una aspirina tutto sarebbe passato il giorno dopo." Furono così perse ore preziose che compromisero definitivamente le condizioni della donna e causarono la sua morte.
Cantat fu condannato da un tribunale lituano a otto anni e rilasciato in libertà condizionata, dopo essere stato estradato in Francia, nel 2007, dopo soli quattro anni di carcere.
Sette anni più tardi, la seconda moglie di Cantat morì impiccata, ma la Procura di Bordeaux stabilì il non luogo a procedere nel 2013.
Marie Trintignant è sepolta nel cimitero di Père-Lachaise a Parigi.
Dal 2011 Cantat è un uomo totalmente libero. Dal 2013 ha fondato un nuovo gruppo, i Détroit. Il loro primo album Horizons esce il 18 novembre del 2013 e dal 2014 il gruppo dà inizio a una tournée in tutta la Francia.

Somma ingiustizia. Colpo dal quale Jean-Louis Trintignant non si riprese mai veramente.

- Fabrizio Falconi 2022

01/04/22

L'incredibile destino di Dag Drollet, ucciso dal figlio di Marlon Brando

 


Questa foto è davvero un reperto piuttosto terribile. Fu scattata nel 1988 e ritrae, da sinistra a destra Cheyenne Brando (la figlia di Marlon Brando e dalla tahitiana Tarita, terza moglie di Brando), insieme al fidanzato Dag Drollet (che aveva cominciato a frequentare l'anno prima), e alla madre di lui, Lisette. 

Due anni dopo questa foto, Dag Drollet fu ucciso con un colpo di pistola da Christian Brando, anche lui figlio dell'attore, fratellastro di Cheyenne, la quale all'epoca era incinta di Dag all'ottavo mese. 

Fu un evento scioccante per l'opinione pubblica mondiale: Christian Brando se la cavò con 5 anni di galera (Cheyenne non fu ritenuta testimone attendibile perché gravemente instabile psichicamente e dipendente da droghe). E l'evoluzione delle cose fu ancora più tragica: Christian, morì il 26 gennaio 2008, a 50 anni, a causa di una polmonite fulminante. Cheyenne Brando, invece, si impiccò il 16 aprile 1995 a casa di sua madre a Puna'auia, Tahiti, quando aveva soltanto 25 anni.

Ma perché Christian uccise il fidanzato della sorella? 

Christian Brando al momento dell'arresto

Dag Drollet, come si vede dalla foto, era un bellissimo ragazzo. Suo padre, Jacques Drollet, era membro dell'Assemblea della Polinesia francese. Cheyenne lo conobbe nel 1987, quando aveva 17  anni, a una cena perché la famiglia Brando e i Drollets erano amici di lunga data. 

Due anni dopo, Cheyenne rimase incinta. Su richiesta di Marlon Brando, la coppia si trasferì negli Stati Uniti, nella casa di Marlon's Mulholland Drive in attesa della nascita del loro bambino. 

Il 16 maggio 1990, il fatto di cronaca che mise fine alla vita del giovane:  Drollet fu infatti colpito a morte dal fratellastro maggiore di Cheyenne, Christian , proprio nella casa del padre. 

Christian Brando, che era un attore intento a ricavarsi un suo posto oltre il cliché di essere figlio del grande Marlon Brando, fu subito arrestato e accusato di omicidio di primo grado. Nei primi interrogatori sostenne che la sparatoria era stata accidentale. 

Raccontò che all'inizio di quella serata Cheyenne gli aveva confessato che Drollet la stava abusando fisicamente. 

Più tardi quella notte, Christian affrontò Drollet e questi rimase ucciso. Christian affermò che dalla pistola fosse partito un colpo mentre Drollet cercava di portargli via l'arma. 

Il processo iniziò, con grande eco mediatica. I pubblici ministeri del caso tentarono di citare in giudizio Cheyenne come testimone al processo di Christian, poiché ritenevano che il suo resoconto dell'evento della notte fosse cruciale per dimostrare che la sparatoria era premeditata. 

Tuttavia, Cheyenne rifiutò di testimoniare contro il fratellastro e fuggì a Tahiti. 

Sempre più provata psicologicamente, il 26 giugno 1990 diede alla luce un figlio che chiamò Tuki Brando. 
Cheyenne durante il periodo di riabilitazione psichiatrico


Subito dopo la nascita di Tuki, Cheyenne tentò il suicidio per due volte e fu ricoverata in ospedale psichiatrico per disintossicarsi dalla droga di cui faceva uso. 

A dicembre del 1990, Cheyenne fu dichiarata "disabile mentale" da un giudice francese e ritenuta incapace di testimoniare nel processo di suo fratello. 

Senza la testimonianza di Cheyenne, i pubblici ministeri conclusero di non poter più provare che la morte di Drollet fosse premeditata e presentarono a un patteggiamento a Christian Brando, che accettò l'accordo e si dichiarò colpevole dell'accusa minore di omicidio volontario . Fu condannato a dieci anni di reclusione. 

In totale ne scontò cinque e fu posto in libertà vigilata per tre anni. 

In un'intervista rilasciata dopo il suo rilascio, Christian ha dichiarato di dubitare delle accuse di abusi fisici di Cheyenne contro Drollet, a causa della instabilità mentale della sorella. "Mi sento un completo idiota per averle creduto", disse. 

Negli anni successivi alla morte di Drollet e al processo del fratellastro Christian, la salute mentale di Cheyenne continuò a peggiorare. Entrò ripetutamente in cure di riabilitazione dalla droga e ricoveri in ospedali psichiatrici. 

In questo periodo Cheyenne scatenò le sue accuse anche contro il padre, Marlon Brando, accusandolo  di averla molestata e di essere complice della morte di Drollet: Marlon Brando negò entrambe le accuse. 

A Cheyenne fu successivamente formalmente formulata la diagnosi di schizofrenia, fu isolata dai suoi ex amici e perse la custodia di suo figlio, Tuki, che fu affidato a sua madre, che lo ha cresciuto a Tahiti. 

Il 16 aprile 1995 il tristissimo epilogo: Cheyenne si impiccò a casa di sua madre a Puna'auia, Tahiti. 

Né suo padre né il suo fratellastro Christian poterono partecipare al suo funerale. 

Fu sepolta nel cimitero cattolico romano di Uranie a Papeete nella cripta di famiglia della famiglia di Dag Drollet.

Fabrizio Falconi - 2022 

La tomba di Dag Drollet e Cheyenne Brando a Papeete 



01/01/22

Il modo migliore per cominciare l'Anno: la meravigliosa lettera del Professore morto a Ravanusa, citata ieri sera da Mattarella nel suo discorso di fine anno

 

Nella foto il professor Pietro Carmina - al centro - con i suoi alunni 


E' davvero bellissima la lettera di addio scritta da Pietro Carmina agli studenti nel suo ultimo giorno di scuola, che è stata quasi integralmente citata dal Capo dello Stato nel suo ultimo (?) messaggio di fine anno dal Quirinale. 

Dopo la sua tragica morte nell'esplosione di Ravanusa dell'11 dicembre scorso, le parole del professore siciliano colpiscono il cuore. 

Ecco le parole lasciate ai suoi alunni nell'ultimo giorno prima di lasciare il lavoro:

Ai miei ragazzi, di ieri e di oggi. Ho appena chiuso il registro di classe. Per l'ultima volta. In attesa che la campanella liberatoria li faccia sciamare verso le vacanze, mi ritrovo a guardare i ragazzi che ho davanti. 

E, come in un fantasioso caleidoscopio, dietro i loro volti ne scorgo altri, tantissimi, centinaia, tutti quelli che ho incrociato in questi ultimi miei 43 anni

Vorrei che sapeste che una delle mie felicità consiste nel sentirmi ricordato. Ma una delle mie gioie è sapervi affermati nella vita; una delle mie soddisfazioni la coscienza e la consapevolezza di avere tentato di insegnarvi che la vita non è un gratta e vinci: la vita si abbranca, si azzanna, si conquista. 

Ho imparato qualcosa da ciascuno di voi, e da tutti la gioia di vivere, la vitalità, il dinamismo, l'entusiasmo, la voglia di lottare.

Usate le parole che vi ho insegnato per difendervi e per difendere chi quelle parole non le ha. 

Non siate spettatori ma protagonisti della storia che vivete oggi: infilatevi dentro, sporcatevi le mani, mordetela la vita, non "adattatevi", impegnatevi, non rinunciate mai a perseguire le vostre mete, anche le più ambiziose, caricatevi sulle spalle chi non ce la fa: voi non siete il futuro, siete il presente

Il pullman è arrivato. Io mi fermo qui. A voi, buon viaggio”.

E buon viaggio lo diciamo anche noi, caro professore !


Fabrizio Falconi - 2022 


20/12/21

Chi rubò il cadavere di Charlie Chaplin, morto nel giorno di Natale del 1977 ?


 

Fu un fatto di cronaca che sconvolse la comunità internazionale e i milioni di fan del grande Charlie Chaplin, uno dei grandi protagonisti assoluti del cinema di tutti i tempi, anzi per molti semplicemente "il cinema". 

Quasi come se volesse considerarsi unico anche nella morte, Chaplin, che era reduce da diversi ictus che lo avevano costretto sulla sedie a rotelle, morì proprio nel giorno del Natale. 

Nell'ottobre 1977, la salute di Chaplin era peggiorata al punto che aveva bisogno di cure costanti. La mattina presto del 25 dicembre 1977, il grande attore e regista morì a casa dopo aver subito un ictus nel sonno, nella sua casa svizzera a Corsier-sur-Vivey. 

Aveva 88 anni. 

Il funerale, secondo le precise volontà dello stesso Chaplin, si tenne il 27 dicembre, nel corso di una piccola e privata cerimonia di rito anglicano. 

Chaplin fu sepolto nel cimitero di Corsier-sur-Vevey. 

La notizia della sua morte commosse il mondo intero. E infiniti furono gli omaggi alla sua arte, provenienti da ogni ambiente, in primis quello del cinema, ben sintetizzati dalle parole del regista René Clair che scrisse: "Era un monumento del cinema, di tutti i paesi e di tutti i tempi... il regalo più bello che il cinema ci abbia mai fatto". 

Chaplin lasciò alla vedova più di 100 milioni di dollari. 

Fu forse questo ad allettare i criminali che, nemmeno tre mesi dopo la morte, il 1 marzo 1978, dissotterrarono e rubarono i resti di Chaplin. 

La tomba di Chaplin scoperchiata con il cadavere trafugato

Qualche giorno più tardi, un misterioso signor Rochat telefona alla famiglia Chaplin e chiede 600mila franchi svizzeri (pari a circa 365mila €) per la restituzione del cadavere. 

La vedova, Oona O' Neill,  rifiuta di trattare con i rapitori: "Mio marito è in cielo e nel mio cuore", dice ai giornali, sprezzanti. 

Tocca allora alla figlia Geraldine - anche lei grande attrice - gestire il rapporto con i profanatori della tomba del padre, attraverso decine di telefonate di trattative. 

La polizia svizzera però in breve riesce a mettersi sulle tracce dei due maldestri estorsori, riuscendo ad identificare la provenienza delle chiamate: arrivano dalle cabine pubbliche di Losanna. 

Così vengono catturati gli autori del rapimento della bara di Chaplin: sono due uomini, il ventiquattrenne polacco Roman Wardas e il bulgaro Gantcho Ganev, 38 anni, di professione meccanico, proprio nella città di vodese. I due balordi avevano letto su un giornale locale del rapimento per riscatto della salma di un facoltoso industriale italiano e avevano deciso di provare il colpaccio con Chaplin,  con l'intenzione di ricavare il denaro necessario per aprire un’autofficina. 

Wardas e Ganev appena catturati dalla polizia svizzera

La coppia viene processata a Vevey: Wardas, la mente del duo, si becca quattro anni e mezzo di carcere, mentre Ganev viene condannato ad undici mesi, ma la pena viene sospesa. 

La bara contenente la salma di Chaplin viene ritrovata in un campo di grano appena fuori Novelle, sul lago di Ginevra, a venti chilometri da Vevey, dove Wardas era di solito a pescare. 

Dopo la rimozione della bara, il contadino proprietario del campo appose sul luogo una croce di legno con un bastone da passaggio con scritto “L’ultimo tributo a Charlot”. 

Il cadavere di Charlie Chaplin fu reinterrato nel cimitero Corsier stavolta in una teca di cemento armato, dove tuttora riposa. 

La tomba di Chaplin nel cimitero di Corsier, accanto a quella della moglie, oggi


Fabrizio Falconi - 2021




02/10/20

Come Andy Murray scampò da bambino al Massacro della Scuola di Dunblane

 



Pochi sanno che il celebre Andy Murray, uno dei più grandi tennisti dell'ultimo decennio, e vincitore di tre tornei dello Slam (2 volte Wimbledon e un US Open), si salvò quando aveva solo 8 anni, dal massacro della scuola di Dunblane, la strage avvenuta il 13 marzo 1996 alla Primary School di Dunblane, in Scozia, dove un uomo armato, Thomas Watt Hamilton, uccise a colpi di pistola 16 scolari di età compresa tra i 5 e i 6 anni e la loro insegnante, prima di suicidarsi. Si tratta di uno dei peggiori massacri di questo genere avvenuti nel Regno Unito.
Alle 9.30 del mattino di quel giorno, un uomo di 42 anni, Thomas Watt Hamilton, armato di quattro pistole e munito di paraorecchie, fece irruzione nella palestra della Primary School di Dunblane, dove 29 bambini della prima elementare avevano da poco cominciato l'ora di ginnastica. Hamilton estrasse una dopo l'altra le pistole che aveva in dotazione, iniziando a sparare quasi immediatamente e facendo fuoco sui bimbi e sul personale docente: la mattanza durò circa due-tre minuti. Compiuta la strage, l'uomo rivolse la pistola contro di sé e si tolse la vita. Si calcola che Hamilton usò in tutto 105 proiettili.
Nel pomeriggio, il portavoce della polizia Louis Mann comunicò che i morti, oltre all'assassino, erano 17, 16 bambini e la loro maestra, Gwen Mayor. L'insegnante, che fu uccisa con sei pallottole (di cui una le aveva sfondato l'occhio destro), e 15 bambini erano morti sul colpo, mentre un altro bambino era deceduto dopo il ricovero in ospedale.
Per questo massacro la regina Elisabetta II d'Inghilterra proclamò il lutto nazionale.
L'esecutore della strage, Thomas Watt Hamilton, covava l'idea di vendicarsi dal 1975, anno in cui, ventunenne, fu cacciato dalla Stirling Scout Group, dov'era capo scout, per il sospetto di "attenzioni particolari" nei confronti dei bambini. Da allora, Hamilton iniziò a dedicarsi all'hobby delle armi da fuoco, anche se in questo passatempo incontrò spesso la diffidenza delle società di tiro, che sovente gli negarono la tessera. Dalla testimonianza di una vicina, che era entrata nella casa dell'assassino, si apprese che nella stanza di quest'ultimo stavano appese foto di ragazzini seminudi. Altri vicini raccontarono di aver visto molti giovani entrare ed uscire ogni giorno dalla casa di Hamiton.
Lo stesso Hamilton, cinque giorni prima della strage, aveva inviato un messaggio alla regina Elisabetta II, in cui c'era scritto: "Odio il mondo".
Tra i superstiti della strage, vi furono anche due future star del tennis, i fratelli Andy e Jamie Murray, all'epoca rispettivamente di otto e nove anni. I due fratelli Murray al momento della sparatoria si trovavano in palestra, ma riuscirono a salvarsi, nascondendosi sotto una cattedra. Nel 2004, Andy Murray dedicò la sua vittoria nel torneo juniores di Flushing Meadows proprio alle vittime della strage, che accomunò ai bambini caduti nella strage di Beslan.
Il tennista dichiarò:
«Di quel giorno ricordo poco. So che ho realmente capito l'enormità di quello che era successo - ha raccontato - solo tre o quattro anni dopo, quando il peggio era passato, la gente cominciava pian piano a riprendersi e la vita a tornare alla normalità.»
Andy Murray tornò a parlare del massacro di Dunblane nella sua autobiografia Hitting Back, pubblicata nel 2009. Parlò dell'omicida in questi termini:
«La cosa più orrenda è che conoscevamo tutti quel ragazzo. Mia madre gli dava spesso un passaggio. È stato nella sua auto. È ovviamente qualcosa di terribile sapere che hai avuto un omicida seduto nella tua auto. Accanto a tua madre. »
Andy Murray decise però di raccontare in pubblico quanto successo il 13 marzo 1996 per la prima volta soltanto nel 2013, in un documentario della BBC.
Fabrizio Falconi - 2020

Nelle foto, sopra: Andy Murray oggi e sotto: una foto di Murray bambino a otto anni, con la maglietta della scuola di Dunblane.






31/08/18

Crollo a Roma: Cosa c'è nella Chiesa di San Giuseppe de' Falegnami nel Foro Romano.



Terribili le notizie e le immagini del crollo del soffitto della seicentesca chiesa di San Giuseppe de' Falegnami, al Foro Romano.  Ma qual è la storia della Chiesa ? E quali sono i tesori in essa contenuti ?

Innanzitutto è fondamentale la posizione della Chiesa, che si trova proprio nel cuore del Foro Romano, a sinistra dopo il clivus Argentarius, l'antica strada di Roma che correva a mezza costa sulle pendici del Campidoglio, alle spalle del Foro di Cesare e di cui si è conservato un tratto originale in basolato. La Chiesa sorge proprio sul posto dove scendevano un tempo dal Campidoglio le scale Gemoniae, tra il Tempio della Concordia e il Carcere Mamertino, dove la tradizione vuole che siano stati rinchiusi gli apostoli Pietro e Paolo.

La Chiesa è stata eretta nel 1602 probabilmente da Giovan Battista Montano per la Confraternita dei Falegnami ed essa, come è successo nella storia di Roma ha inglobato l'edificio preesistente, cioè il Carcere Mamertino, che si trova al livello inferiore della Chiesa e che essendone divenuto parte, porta oggi il nome di Cappella di San Pietro. 

Dunque il tesoro più prezioso contenuto nella Chiesa è proprio il Carcere Mamertino, che sembra non abbia riportato danni, e che consta di due ambienti sovrapposti: il superiore il vero e proprio carcer Mamertinus (nome di origine medievale) e quello Tullianum risalente al 390 d.C. . I due ambienti, riuniti, hanno per molti secoli costituito la sede degli uffici della prigione di stato di Roma e di luogo di esecuzioni capitali. 

Dopo il XVI secolo, in base alla leggenda medievale che vi sarebbe stato rinchiuso anche San Pietro (e con l'acqua sgorgata miracolosamente avrebbe battezzato i suoi carcerieri) l'edificio si chiamò San Pietro in Carcere. 

La Chiesa attuale dunque, risale al Seicento:  nel 1540 la Congregazione dei Falegnami aveva preso in affitto la preesistente chiesa di San Pietro in Carcere e nel 1597 fece iniziare i lavori della nuova chiesa, dedicata al loro patrono, San Giuseppe, a Giacomo della Porta. 

I lavori furono proseguiti nel 1602 sotto la direzione di Giovan Battista Montano che progettò la facciata ed alla sua morte (1621) dall'allievo Giovan Battista Soria

La chiesa fu completata nel 1663 da Antonio Del Grande e restaurata nel 1886, con la costruzione di un nuovo abside. 

La facciata si trova rialzata rispetto al piano di calpestio a causa dei lavori eseguiti negli anni trenta del Novecento, che abbassarono la piazza antistante per permettere un accesso diretto al carcere sottostante. 

L'interno è a navata unica con due cappelle per lato; la decorazione è frutto di lavori eseguiti nel XIX secolo. 

Tra le opere più notevoli da ricordare, una Natività di Carlo Maratta (1651), che pare per fortuna essersi salvata dai danni del crollo.



Sulla cantoria in controfacciata si trova l'organo a canne costruito dalla ditta Migliorini nel XX secolo. 

Annessi alla chiesa vi sono un oratorio, con un bel soffitto ligneo, e la cappella del Crocifisso, che risale al Cinquecento, e che è posta tra il pavimento della chiesa e la volta del sottostante Carcere Mamertino.

Fabrizio Falconi

04/05/15

Due fiocchi rosa molto diversi. Mysterium Iniquitatis.


Nasce il nuovo rampollo reale. Gira il mondo la foto di una paffuta neonata. In giornata si apprende anche il nome, Charlotte Elizabeth Diana.

Il nome completo è Charlotte di Cambridge (Charlotte Elizabeth Diana). Le agenzia ci informano che è una principessa britannica, membro della famiglia reale britannica e quarta in linea di successione al trono dei sedici reami del Commonwealth. Seconda figlia di William, duca di Cambridge, e di sua moglie, la duchessa Catherine Middleton. È inoltre nipote di Carlo, principe di Galles, e pronipote della regina Elisabetta II. È inoltre la sorella del terzo in linea di successione al trono del Commonwealth, George di Cambridge.

Per ironia o scherzo della sorte, i principali siti di informazione affiancano poco sopra o poco sotto all'immagine del neonato reale, quella di un altro neonato, molto meno Reale, ma ugualmente reale.

Nella ecatombe dei mari che continua imperturbabile ogni giorno infatti, sono oltre 2.000 i migranti soccorsi dalle navi della Marina Militare nel lungo fine settimana del Primo Maggio nelle acque dello Stretto di Sicilia, tra Lampedusa e la Libia. 

E a bordo del pattugliatore Bettica, che sta portando a riva 654 migranti recuperati in 4 interventi di soccorso, nella notte nasce una bambina. La piccola e la madre, imbarcata a travaglio iniziato, stanno bene. 

A bordo di un rimorchiatore che aveva soccorso alcuni migranti alla deriva in varie imbarcazioni, sono invece decedute due persone. In totale, i morti sono soltanto 10. 

La piccola non ha ancora un nome. O forse sì. Di sicuro non è un nome così lungo come quello della sua coetanea, nata nelle stesse ore, in quel d'Inghilterra. Di sicuro non ha reami. Di sicuro nessun cappellino bianco di lana, proveniente da chissà quale nobile sartoria. Di sicuro, non tarderà a scoprire da sola la differenza. 

Mysterium Iniquitatis. 




08/12/14

Una cagna in mezzo ai maiali - Roma 2014.

William Turner, The Colosseum, 1820


E poi c'è Roma che sembra una cagna in mezzo ai maiali..  Cantava qualche anno fa Francesco De Gregori (la canzone era Viaggi e Miraggi, 1992).

E mai come in questi giorni, la figura sembra calzare giustamente.

Del resto Roma una cagna in mezzo ai maiali è stata per lungo tempo e lunghi secoli durante la sua storia.

Lo è stata anche molto spesso in primis, da parte delle popolazioni che l'hanno, nelle diverse epoche, abitata. Poi per via delle diverse invasioni, dei diversi prìncipi o papi che ne hanno abusato, perpetrando rovina su rovina.

Quel che accade oggi, dunque, con gli scandali di Mafia (parola che in Italia ormai si adatta a qualunque tipo di realtà materiale), non è certamente inedito.

Quel che forse avvilisce ulteriormente quelli che amano questa città (non solo per le vestigia, ma per il presente) è il surplus di cialtroneria, di volgarità, che sembra - proprio come una frotta di maiali intorno ad una cagna - essere calato su questa (un tempo nobile) città.

Dovrei però abdicare ? Dichiararmi definitivamente schifato, apolide, senza patria, dovrei gongolare per l'imminente crollo del Colosseo ?

No.

Mi riservo di dire, con Flaiano:

Tuttavia Roma è la mia città. Talvolta posso odiarla, soprattutto da quando è diventata l'enorme garage del ceto medio d'Italia. Ma Roma è inconoscibile, si rivela col tempo e non del tutto. Ha un'estrema riserva di mistero e ancora qualche oasi. (1)


Fabrizio Falconi
1. Citato in La Fiera Letteraria p. 21, n. 5, 14 marzo 1971.

17/10/10

Le cose che il Cile ha insegnato (a noi e al mondo).


Avendo seguito la vicenda dei minatori cileni sin dall’inizio, anche per ragioni di lavoro, in modo approfondito, vorrei sottoporvi queste piccole riflessioni.

La vicenda, ha secondo me offerto insegnamenti importanti. Molto spesso mi è capitato di pensare a cosa sarebbe successo se questa storia fosse capitata in Italia, oggi.

Ed ecco ciò che ho notato:

1. Innanzitutto il Cile – un paese che per molti degli italiani esiste solo in quanto patria di calciatori o di vaghi ricordi legati a Pinochet – ha fornito una incredibile dimostrazione di efficienza. La macchina dei soccorsi è stata tempestiva, efficace e direi quasi miracolosa, ricordando che questo del disastro cileno è un caso UNICO nella storia, e sin dall’inizio si era compreso che era necessario ricorrere a tecnologie (macro e micro) del tutto nuove, primo per identificare il luogo dove i minatori si trovavano, se sopravvissuti alla catastrofe, secondo per tirarli fuori di lì. I cileni hanno bruciato i tempi. Si parlava di Natale, all’inizio: hanno tirato fuori tutti i minatori due mesi prima, con una operazione tecnicamente perfetta.

2. Il paese, il Cile, ha dimostrato in questi due mesi e mezzo, una compattezza straordinaria: dal momento in cui si è saputo che i minatori erano vivi, nessuno più si è messo di traverso. La politica ha smorzato i toni, il premier e il governo sono stati sostenuti in ogni modo (possiamo immaginare cosa sarebbe successo in Italia ?). I giornali hanno lavorato per i minatori. La gente, il popolo, si è stretto intorno ai minatori, facendoli sentire vivi e necessari.

3. Al momento del salvataggio vero e proprio, i 1700 giornalisti di tutto il mondo accreditati (più di quanti ce ne erano per la morte di Woytila) – ma non li avevano invitati i cileni, erano venuti loro perché si tratta di una storia unica – sono stati tenuti in considerazione, ma lontano dalla botola del pozzo.

4. Intorno a questa botola, c’erano pochissime persone. Il presidente era uno di loro, e non aveva un posto privilegiato. Aspettava il suo turno per abbracciare i minatori che uscivano.

5.I minatori hanno mantenuto per tutta la durata della loro prigionia sottoterra, una dignità spaventosa: pur collegati in diretta, con la video via cavo, hanno evitato sceneggiate, mai crisi di nervi, mai appelli, mai richieste inappropriate, non un litigio, non una prevaricazione. La solidarietà esistente tra di loro è stata anzi completa fino all’ultimo – ognuno di loro aveva espresso il desiderio di uscire per ultimo dal pozzo.

6.Anche una volta usciti, i minatori hanno manifestato una gioia contenuta, sobria, vera. Gli abbracci sotto le telecamere sono stati perfino pudichi. Nessuno di loro ha parlato a vanvera, nessuno di loro ha ‘esternato’. Uno solo, anzi, ha tenuto a precisare di voler essere considerato per quello che è, e cioè ‘un operaio’ e non un artista.

7. Si è detto che le mogli e i parenti erano stati agghindati per le telecamere: niente di più falso. Erano donne che si erano preparate per i loro uomini, per i loro mariti o fidanzati, la cosa più naturale del mondo. Avevano i capelli in ordine e un filo di trucco perché volevano essere belle per loro. E loro, si erano sbarbati e pettinati per venir fuori. Non lo hanno fatto certo per le telecamere.

8.La vicenda è entrata nel cuore dei telespettatori di tutto il mondo per questo: perché ha raccontato la vita vera, le persone vere, le situazioni vere. Il rischio, la morte, la paura, l’abisso, la speranza, la fede, la solidarietà, l’amicizia, la fraternità, la sopravvivenza, il riscatto. Un piccolo compendio di umanità. Di tutto ciò che è legato all’essere umano, alla sua vera essenza.

9. E’ per questo che ieri, seguendo le notizie sui siti e sui TG italiani sono rimasto davvero basito, e mi sono intristito, per l’ennesima volta. La notizia dei minatori cileni – prima notizia in tutti i siti del mondo, ieri, dalla CNN all’ultimo sperduto sito indiano – ha resistito da noi come prima notizia solo poche ore, fino al terzo o quarto salvato. Già a partire dalle undici del mattino, sui siti la notizia è scivolata al secondo posto, scalzata dalla notiziona degli incidenti tra tifosi alla partita Italia-Serbia. I tg della sera hanno aperto tutti con Italia-Serbia (anche Mentana, che ha dato la notizia dei minatori quasi in chiusura di edizione). Davvero una tristezza: ancora una volta la dimostrazione di quanta fatica faccia il bene – tutto ciò che ho riassunto nell’elenco precedente – a diventare notizia, specie nel nostro cortiletto italico. Per noi la notizia degli ennesimi scontri ad una partita di calcio, dell’energumeno serbo incappucciato (nessun morto, per fortuna, ma va bene lo stesso..) è più importante di una storia epica di disgrazia che diventa riscatto e salvezza grazie alla forza di un intero popolo, alla solidarietà di un intero popolo. No, no, per noi vale sempre di più, e meglio, il rosario delle nostre cattive notizie quotidiane.

Fabrizio Falconi

03/04/09

Ultime dal pianeta cronaca - L'innocenza e il vuoto.


Devo dire che certe volte la cronaca, i casi di cronaca, ci dicono del nostro mondo, molto di più di quanto potrebbero decine e decine di trattati di sociologia. La cronaca ci parla con una immediatezza, con una risolutezza brutale, di quello che è diventato il nostro mondo, la nostra società, ci apre gli occhi su quello che non vogliamo vedere e ci illudiamo sia molto diverso.

Quanti discorsi sentiamo sulla gioventù, sull'isolamento, sulla disperazione, sulla mancanza di ideali, o di speranza, sulla pochezza di vite che dovrebbero avere quella genuinità, quella forza potenziale di scardinare il mondo. Eppure per riassumerli tutti in un secondo, basta poco. Sono rimasto come molti - immagino - basito leggendo oggi le rivelazioni della stampa a proposito del 'Delitto di Garlasco'.

C'è sempre una feroce banalizzazione nel modo in cui media propongono alla curiosità morbosa dei lettori o dei telespettatori vicende come questa. E nella banalizzazione di turno, questa volta, ad Alberto, il fidanzato imputato spettava il ruolo del perverso e probabilmente del cinico corruttore che porta la sua 'innocente' fidanzata di fronte all'evidenza dei propri fantasmi, e una volta scoperto, si scopre perfino omicida. Mentre alla fidanzata uccisa spettava il ruolo di vittima innocente, sacrificale.

Ora apprendiamo dai verbali de-secretati (ad arte dalla difesa di Alberto, nel tentativo di ottenere una assoluzione dal rito abbreviato ) , che la realtà è - come sempre - ben più complessa, e si scopre un lato d'ombra della vittima, Chiara, davvero ingombrante, al punto tale che dietro la maschera della 'brava ragazza', studiosa e innocente, ella appare fatta di una pasta non molto diversa di quella del suo fidanzato (ma di quanti altri giovani in circolazione oggi nel nostro paese ??).


Come sempre questa rivelazione può essere scioccante, ma anche salutare.


Che immagine abbiamo noi dei ventenni ? Cos'è che li spinge a cercare, anche dentro vite apparentemente normali, borghesi, tranquille, perfino torpide, emozioni sempre più forti, estreme come tanto si usa dire oggi ? Qual è il vuoto che hanno dentro ? Dove è andata la loro anima ? Che cosa è successo alla loro anima ? All'anima di chi li ha educati, a quella dei loro genitori ? Davvero il compiacimento sessuale, il vouayerismo, la perversione, la ferocia del sangue sembrano essere i nuovi idoli di queste vite ?
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09/01/09

La Famiglia al collasso : 110 vittime negli ultimi 6 mesi.


In Italia si fa un gran parlare di famiglia. Lo abbiamo visto nell'ultima campagna elettorale, dove praticamente tutti i partiti in campo si dichiaravano 'difensori' della famiglia.

Ma di quale famiglia ? Come è diventata la famiglia italiana ?

E' fin troppo ovvio che ogni 'difesa' pregiudiziale del vecchio modello di 'famiglia', in Italia, dovrebbe tener conto di quanti e quali guasti essa ha provocato. Dietro il velo di ipocrisie d'epoca (la moglie 'angelo del focolare' e il marito 'cacciatore' o 'guerriero' ) si celavano spesso veri e propri inferni coniugali, aggravati dalla im-possibilità almeno legale, di separarsi.

Ma detto questo, siamo sicuri, oggi di passarcela molto meglio ? Sembrerebbe di no, visto che da un recente studio emerge come la violenza in famiglia non abbia più confini. Dopo l'ultima vicenda, quella di Caltagirone, in cui una donna ha ucciso suo marito - sull'eterno, drammatico problema dell'affidamento dei figli - si è constatato che nel nostro paese ogni due giorni si consuma una tragedia familiare che esplode in omicidio; questo è il dato riferito agli ultimi 6 mesi. Un fenomeno di preoccupante recrudescenza di questi fatti di sangue che trasformano la famiglia italiana, un tempo considerata isola felice e modello per tutto il mondo, nel teatro del più alto numero di violenze nel nostro Paese, addirittura maggiore di quelle perpetrate dalla malavita organizzata nel suo complesso.


Allora forse bisognerebbe cominciare a chiedersi: è davvero un mondo felice quello che stiamo costruendo, dopo che - emancipandoci - abbiamo conquistato (o crediamo di averlo fatto) ogni possibile libertà personale ? Davvero la realizzazione personale di se stessi - a scapito di tutto e di tutti, anche dei rapporti famigliari che si sono iniziati a costruire - è il valore principale e fondante, che deve venire prima di tutto ? E come mai a una maggiore libertà non corrisponde una maggiore felicità ?


Dalle statistiche pubblicate dall'Associazione nazionale degli Avvocati Matrimonialisti in Italia, emerge che nel nostro paese la durata di una udienza presidenziale, nel corso della quale vengono emessi i primi provvedimenti provvisori sull'affidamento dei figli (anche piccolissimi) , è in media di 27 minuti. In questo esiguo lasso di tempo, il Giudice è chiamato a disporre l’affidamento condiviso dei figli senza avere la possibilità di conoscere, neanche parzialmente, la storia della coppia separanda né le qualità dei due coniugi-genitori.

Non basta: un magistrato, spesso, in un solo giorno è chiamato ad emettere provvedimenti per 20 coppie che si separano. I Tribunali sono al collasso, specie nelle grandi città.


Davvero come ci si può poi meravigliare che un Teatro di questo genere diventi ‘terreno fertile’ per la violenza intrafamiliare che negli ultimi 6 mesi ha causato circa 110 vittime, tra cui anche diversi bambini ?

Non bisognerebbe che tutti, organizzazioni laiche e religiose, ma anche e soprattutto individui, dalla base, dal fondo, comincino a ripensare a dove stiamo andando ? A cosa vogliamo chiedere davvero alle nostre vite ?
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