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07/10/17

Che fine ha fatto l'innocenza ? Una riflessione.

foto di Loretta Lux - The Dove

Una delle parole d’ordine dei tempi sembra essere diventata questa: nessuno è innocente. Tutti sono colpevoli.
Se anzi, si presenta all’orizzonte qualcuno che possegga o che pretenda di avere le qualità dell’innocenza, la regola del cinismo imperante vuole che quell’uno venga immediatamente infangato.
La motivazione che spingerebbe tale forma mentis a rafforzare questo stato collettivo è chiara: se TUTTI sono colpevoli, NESSUNO è veramente colpevole.  E di conseguenza a me è consentito fare quello che voglio.
E’ indubbio però che questo non ha proprio nulla a che vedere con l’innocenza.
La parola innocenza – come spiega la stessa radice etimologica – significa: NON (in) NOCENTEM: cioè che non nuoce.
Ora: il pragmatismo moderno, cancellando questo concetto dall’orizzonte comune – “non esiste nessuno che non nuoce, nessuno che sia DAVVERO innocente” –  dimentica, cancella il fatto che l’Uomo, per sua stessa natura, NASCE innocente.
Un bimbo appena nato E’, per definizione, INNOCENTE: è cioè incapace di pensare e di realizzare il male. Non solo: sembra attitudinalmente capace soltanto di recepire il bene che riceve dalla propria madre sotto forma di attenzione, cibo, conforto, calore.
Ma, come sappiamo, qualcosa deve essere andato storto nella Creazione, perché a un certo punto TUTTI NOI CHE PURE SIAMO STATI INNOCENTIperdiamo questa dimensione di purezza, potremmo dire di neutralità, e con lo sviluppo della coscienza e della consapevolezza entriamo in quel girone dantesco che è la vita adulta, dove mantenersi innocenti è difficilissimo.
Eppure, questo abdicare alla propria estasi innocente ( l’enfant que abdique a son extase come scriveva Mallarmé) è la messa in scena di un eterno dramma, per ognuno di noi:  ciascuno di noi, nella vita, non sembra far altro che ricercare disperatamente quel primario stato di innocenza, sforzandosi di ritrovarne le tracce in qualche fenomeno (spesso del tutto contro figurato) che susciti l’illusione di poter rimettere piede, anche solo per pochi istanti, nel Paradiso Perduto.
Non sarebbe meglio, invece,  cercare di preservare quella nuce di quella benedetta innocenza primaria – che deve essere iscritta nell’animo di ognuno – nella vita di tutti i giorni ? Non sarebbe meglio, pur nella inevitabile contaminazione con un mondo di duri, dove solo “i duri ballano”, non abdicare mai del tutto, rivendicare quell’istinto iniziale, ricorrervi nei momenti di disperazione, riaccendere la meraviglia di fronte alla vita che pure tutti noi abbiamo provato nel momento di mettere piede in questo mondo ? Non si vivrebbe meglio tutti?
E’ forse superfluo ricordare che fu proprio Gesù, il Cristo, l’innocente “totale”: colui che pur incarnandosi, non perse mai nulla della propria innocenza. Al punto tale che, da innocente, sacrificò interamente se stesso sull’altare del cinismo degli uomini, per formulare una salvezza che ci riguarderebbe tutti.
Fabrizio Falconi

18/09/17

Kamasi Washington - "Truth" (VIDEO) - La forza vitale.




Il grande jazzista d’avanguardia Kamasi Washington ha inserito questo brano “Truth” come sesto movimento da Harmony of Difference, un nuovo EP pubblicato da pochissimi giorni. . 

Ad accompagnare il nuovo brano di tredici minuti intitolato “Truth”, un film del celebre regista A.G. Rojas che potete vedere qui in testa.

Il brano di Kamasi Washington è una esperienza totale, come il video è un'esperienza totale. 

E' confortante che ancora l'espressività umana sia capace di questo, e tutti dovremmo rallegrarcene. 

Truth - elaborazione geniale di un motivo di Duke Ellington - è la sintesi della forza vitale, della forza interiore.  L'armonia della differenza alla quale si riferisce Kamasi è la ricchezza stessa della vita che si fa non solo e non tanto esperienza, sperimentazione, ma iniziazione. 

Collezioniamo vite fatte di ricordi ed esperienze sensoriali, ma non sappiamo organizzarle, né valorizzarle. Tutto resta ad un livello epidermico e svanisce in fretta nel nulla. 

Invece, soltanto quello che va e resta nel profondo ha senso e fa crescere. 

La nostra vita vale la pena di essere vissuta soltanto per questo: perché è scoperta che resta: tutto quello che resta fa evolvere verso strati di maggiore consapevolezza, e la consapevolezza porta vera gioia interiore. La gioia - non soltanto di essere al mondo, ché tutti ne sono capaci dai girasoli ai maiali nel cortile - ma di sentire (non di pensare) su se stessi il cambiamento evolutivo, la ricchezza raggiunta, il cambiamento profondo del proprio essere. 

Fabrizio Falconi

12/11/15

Oltre la Mente - La vita a scartamento ridotto.





Due cose realizzano la vita: la consapevolezza e la pienezza. 

Si possono vivere grandi emozioni, grandi sensazioni (ancora più epidermiche), ma se non si è consapevoli di ciò che (si) vive, tutto scorre senza lasciare traccia, tutt'al più pallidi ricordi. 

Ciò avviene perfino per le sofferenze.  Nella nostra vita ce ne sono di molte inautentiche. Crediamo di star male per quel motivo, molto spesso banale. Invece l'origine del malessere è di tutt'altra natura.  Le sofferenze inautentiche infatti, sono definite da Carl Gustav Jung, come nevrosi. 

Anche discernere una vera sofferenza, dunque, si può fare soltanto se si è consapevoli di essa.  Di cosa è che la fa scaturire, di cosa e perché (ci) provoca quella reazione. 

Allo stesso modo avviene con la pienezza.  Sono molti gli stati d'animo della vita, che rimangono tali. Sono stati dell'animo, appunto.  Che vanno e vengono, che piegano a sinistra e a destra la bandierina della nostra anima, come fa la rosa dei venti. 

Ma noi non siamo (solo) stati d'animo.  L'essere umano è fatto di ben altra profondità, che lo rende grave nella sua condizione terrestre, ovvero pesante, radicato al suolo, bisognoso di trovare (e di rendere consapevoli) le sue radici. 

In questo senso, la pienezza è qualcosa che trascende la vita, rendendola degna di essere vissuta, e non soltanto attraversata. Più leggo i pessimisti, più amo la vita, scriveva Cioran (in Lacrime e santi). E se c'è uno che si intende di pessimismo, questo è lui. 

Questo amore per la vita, per la follia della vita, per la imprevedibilità della vita, per la sua forza trascinante è appunto la pienezza.   Anche la sofferenza contribuisce a questo.  La sofferenza, scrive anzi Dostoevskij, è la causa unica e sola della coscienza. 

Ed è molto velleitario pensare di poter raggiungere la pienezza della vita, senza conoscere la (vera) sofferenza.  La sofferenza, anzi, è la stessa misura della pienezza. Come una cartina di tornasole, infatti, la sofferenza rende vero, per contrasto, il piacere, rende vero, per contrasto, lo stare bene, il sentirsi in sintonia con l'onda della vita. 

Senza sofferenza, senza autenticità, e quindi senza consapevolezza e senza pienezza, si vivono vite a scartamento ridotto.  Si vive funzionando, come una macchina, un puro corpo biologico. 

Su questo binario a scartamento ridotto, il panorama è monotono, è sempre uguale: quel che vediamo scorrere dal finestrino, non ci appassiona e non ci scuote. Ci lascia indifferenti. 

Per questo bisogna avere il coraggio di scegliere il binario più veloce, quello che rischia di scaraventarti fuori e di perderti, ma che scuote e incoraggia, dispone prove e concede la forza per superarle. 


Fabrizio Falconi
(C) -2015 riproduzione riservata.
foto in testa dell'autore


12/09/14

"Consumiamo Internet per coprire la nostra solitudine" - Intervista a Thich Nhat Hahn.


riporto l'intervista realizzata da Claudio Gallo de La Stampa a Thenac, in provincia di Bordeaux a Thich Nhat Hanh, uno dei grandi maestri spirituali contemporanei, e pubblicata il 9 settembre scorso.  

Scorre sul finestrino del treno la campagna francese tra Bordeaux e Bergerac, filare dopo filare tra boschi e prati verdissimi che riflettono un’idea di potente dolcezza. È la stessa forza gentile che sembra di ritrovare negli insegnamenti di Thich Nhat Hanh. Monaco buddhista vietnamita, vive insieme con la sua comunità monastica al Plum Village, sulle colline intorno al minuscolo paese di Thenac. Tutti lo chiamano Thay, maestro semplicemente. Ottantotto anni, il volto severo che all’improvviso fiorisce in un sorriso contagioso di fanciullo, fu esiliato dal Vietnam del Sud nel 1973. Scelse l’Occidente, dove era già apprezzato da Martin Luther King e Thomas Merton, conosciuti nei suoi tour americani in favore della pace. In oltre un centinaio di libri ha creato un insegnamento buddhista rivolto agli occidentali, basato sulla Mindfulness: consapevolezza, presenza mentale. Assieme al Dalai Lama è forse il buddhista più celebre nel mondo, ha centri in ogni continente e un seguito di centinaia di migliaia di persone. Non chiede ai suoi seguaci occidentali di abbandonare la propria religione. Tra i quasi settecento italiani presenti al ritiro di fine agosto, molti infatti erano cristiani. 

Thay, che cos’ha da offrire il suo buddhismo alla generazione digitale, ai giovani che stanno tutto il giorno su Internet?  
«Oggi i giovani passano troppo tempo su Internet, questa è una malattia del nostro tempo. Quando passiamo tre ore davanti al computer ci dimentichiamo completamente di avere un corpo. Internet è uno strumento che può essere di grande beneficio o portarci molti problemi. Utilizzare Internet è un tipo di consumo. Consumiamo attraverso le idee, le immagini e i suoni con cui veniamo in contatto e questi possono essere elementi salutari o tossici. Le persone sono spesso sopraffatte dal numero di informazioni che ricevono su Internet. Molti di noi possono sviluppare una vera e propria dipendenza dall’essere online. Perdiamo noi stessi in questo mare di informazioni e quindi non siamo presenti per noi stessi, per i nostri cari e per la natura. Ci illudiamo pensando che rimanendo su Internet possiamo connetterci con gli altri, ma in realtà ci sentiamo sempre più soli. La consapevolezza ci aiuta prima di tutto a moderare il tempo che passiamo su Internet, e allo stesso momento ci aiuta a sapere se quello con cui entriamo in contatto è benefico o se ci fa sentire ancora più disperazione e solitudine. Consumiamo Internet per coprire la nostra solitudine, ma in realtà ci fa sentire sempre peggio. Molto spesso, quando consumiamo news, film, pornografia e pubblicità, stiamo consumando rabbia, violenza, paura e desiderio». 

Il buddhismo considera l’individuo un’illusione: c’è ancora posto in questa visione per la distinzione tra bene e male?  
«Nel XX secolo l’individualismo è stato messo in primo piano e questo ha creato molta sofferenza e difficoltà. Creiamo una separazione tra noi stessi e gli altri, tra padre e figlio, tra uomo e natura, tra una nazione e l’altra. Non siamo consapevoli dell’interconnessione tra noi stessi e tutto ciò che ci circonda. Quest’interconnessione è quello che nel buddhismo chiamiamo “interessere”. Il cammino etico che ci viene offerto dal buddhismo si basa sulla comprensione profonda dell’interessere. Quello che succede all’individuo influenza quello che accade in tutta la società e sull’intero pianeta. Su questo cammino la pratica della presenza mentale ci aiuta a fare una distinzione tra ciò che è bene e male, giusto e sbagliato. Quando siamo consapevoli possiamo vedere i danni che sono stati causati agli animali e al pianeta al fine di produrre carne per il nostro consumo. Con questa consapevolezza mangiare cibo vegetariano diventa un atto di amore verso noi stessi, verso il nostro ecosistema e il pianeta. Molti di noi rincorrono la fama, il potere, i soldi o il piacere dei sensi. Pensiamo che queste cose ci possano portare la felicità, ma al contrario ci possono portare a distruggere il nostro corpo e la nostra mente. Spesso i giovani confondono il sesso con il vero amore, ma in realtà una sessualità vuota può distruggere l’amore, e portare ancora più desiderio, solitudine e disperazione. La presenza mentale ci aiuta a sviluppare la nostra comprensione riguardo l’altra persona. Il vero amore non può esistere senza comprensione». 

È possibile superare la paura della morte?  
«La radice della paura è la nostra visione erronea per quanto riguarda la natura della morte. Abbiamo paura della morte perché pensiamo che una volta morti diventeremo il nulla. La scienza moderna ci insegna che nulla si crea, nulla si perde e che tutto si trasforma. Osservando una nuvola possiamo chiederci se possa morire. Può una nuvola da qualcosa diventare nulla? Osservando in profondità, possiamo vedere che la nuvola può solo diventare pioggia, neve, grandine e poi di nuovo vapore acqueo. Anche la nostra natura è come quella della nuvola. Proprio come la pioggia e la neve sono la continuazione della nuvola, le nostre azioni di corpo, parola e mente ci continuano sempre». 


intervista realizzata da Claudio Gallo de La Stampa a Thenac a Thich Nhat Hanh, pubblicata il 9 settembre scorso.

24/01/14

"Quando non onoriamo il momento presente consentendogli di essere, creiamo il dramma." - Eckhart Tolle.




Gran parte del cosiddetto ‘male’ che avviene nella vita delle persone è dovuto all’inconsapevolezza. Si crea da solo, o, meglio, è creato dall’io. Talvolta io chiamo queste cose “dramma”. Quando siamo pienamente consapevoli, il dramma non entra più nella nostra vita. Vorrei rammentare brevemente come opera l’io e come crea il dramma.

L’io è la mente non osservata che gestisce la nostra vita quando non siamo presenti come consapevolezza testimone, come osservatori. L’io si percepisce come frammento separato in un universo ostile, senza alcuna connessione interiore con ogni altro essere, circondato da altri io che considera potenziali minacce o che cercherà di usare per i propri fini. Gli schemi fondamentali dell’io sono creati per combattere la sua radicata paura e il suo senso di mancanza. Si tratta di resistenza, dominio, potere, avidità, difesa, attacco. Alcune delle strategie dell’io sono estremamente abili, eppure non risolvono mai alcuno dei suoi problemi, semplicemente perché l’io stesso è il problema.

Quando gli io si riuniscono insieme, che si tratti di rapporti personali o di organizzazioni o istituzioni, prima o poi accade il “male”: un dramma di qualche genere, sotto forma di conflitti, problemi, lotte di potere, violenza emotiva o fisica, eccetera. Fra questi vi sono mali collettivi come guerre, genocidi e sfruttamenti, tutti dovuti all’inconsapevolezza accumulata. Inoltre molti tipi di malattie sono causati dalla resistenza continua dell’io, che crea restrizioni e blocchi nel flusso di energia attraverso il corpo. Quando ci ricolleghiamo all’Essere e non siamo più gestiti dalla nostra mente, smettiamo di creare queste cose. Non creiamo e non partecipiamo più al dramma.

Quando due o più io si uniscono insieme, ne consegue un dramma di qualche genere. Ma anche chi vive completamente solo crea il proprio dramma. Quando noi ci sentiamo dispiaciuti per noi stessi, questo è dramma. Quando ci sentiamo in colpa o in ansia, questo è dramma. Quando lasciamo che il passato o il futuro oscurino il presente, creiamo il tempo, il tempo psicologico, la sostanza di cui è fatto il dramma. 

Quando non onoriamo il momento presente consentendogli di essere, creiamo il dramma.

Quasi tutti sono innamorati del proprio dramma di vita particolare. La loro storia è la loro identità. L’io gestisce la loro vita. Vi hanno investito l’intero loro senso del sé. Perfino la loro ricerca (di solito infruttuosa) di una risposta, di una soluzione, o di una guarigione ne diventa parte. Ciò che temono e a cui resistono di più è la fine del loro dramma. Fintanto che SONO la loro mente, ciò che temono e a cui resistono di più è il loro risveglio.

Quando viviamo in completa accettazione di ciò che esiste, questa è la fine di ogni dramma della nostra vita. Nessuno può nemmeno litigare con noi, per quanto ci provi. Non possiamo litigare con una persona pienamente consapevole. Il litigio implica l’identificazione con la mente e una posizione mentale, nonché resistenza e reazione alla posizione dell’altra persona. Il risultato è che le opposte polarità si forniscono energia reciprocamente. Questa è la meccanica dell’inconsapevolezza. Possiamo ancora esprimere la nostra opinione chiaramente e fermamente, ma non vi sarà dietro nessuna forza reattiva, nessuna difesa e nessun attacco. Allora non si trasformerà in dramma. Quando siamo pienamente consapevoli, smettiamo di essere in conflitto. “Nessuno che sia in unione con se stesso può nemmeno concepire un conflitto”: questo si riferisce non soltanto al conflitto con altre persone ma fondamentalmente al conflitto dentro di noi, che viene meno quando non vi è più alcuno scontro fra le esigenze e le aspettative della mente e ciò che esiste.

Eckhart Tolle, tratto da Il potere di adesso - Armenia Editore. 


in testa: opera di Severino Del Bono.

14/01/14

La paura di soffrire - Corrado Pensa.







Un ingrediente essenziale di tutti gli stati mentali negativi o difficili sembra essere la paura, cioè la paura di soffrire.

Paura di imbattersi nello spiacevole, paura di perdere il piacevole.

Spesso noi assomigliamo a una persona che si è barricata in casa e che impiega tutta la propria energia a cercare di impedire che un gruppo di suoi prigionieri (cose piacevoli) possa fuggire e, contemporaneamente a tentare di impedire l'entrata in casa a visitatori ostili (cose spiacevoli).

E malgrado il fatto  che i prigionieri continuano a evadere e che i visitatori continuano a fare irruzione, noi non rinunciamo al nostro vano tentativo e non ci rendiamo conto che, in realtà, c'è un solo vero prigioniero e siamo noi.

Non comprendiamo, cioè, che la nostra paura di soffrire è una fonte primaria di sofferenza, poiché essa o crea sofferenza, oppure intensifica notevolmente la sofferenza obiettiva.

Ora, aprirsi gradualmente allo spiacevole in noi e fuori di noi, e, più sottile e importante ancora, aprirsi alla vasta, potente e paralizzante paura che intride letteralmente ogni minuto di così tante vite, sembra essere una caratteristica cruciale del corretto lavoro interiore.


tratto da Corrado Pensa, La tranquilla passione, Ubaldini editore, Roma, 1994, pag. 14.

illustrazione in testa: the goldfinch (il cardellino), Carel Fabritius, 1654.



11/01/14

Perdono e assoluzione non sono la stessa cosa.




C'è una ragione anche quando si sbaglia.  Ma puoi sapere che hai sbagliato solo se riconosci dentro di te l'errore. 

Ogni crescita umana si basa sul perdono.  Quando riconosci l'errore non l'hai ancora riconosciuto veramente come tale: lo riconoscerai soltanto quando qualcuno potrà perdonarti.  Avrai bisogno di quel perdono e potrai averlo se troverai qualcuno generoso, disposto ad accogliere il tuo errore e il tuo sbaglio. 

Dopo che sarai stato perdonato dall'esterno, dovrai perdonarti tu.  E sarà un lavoro molto più lungo, che potrà durare anche per l'intera tua vita. 

Per questo perdonare (e ancora di più perdonar-si) è così difficile. 

Ma il perdono è l'unica cosa che permette di ri-conoscere l'errore o lo sbaglio (è in termini psico-analitici l'attraversamento dell'Ombra, che unicamente, permette il processo di individuazione del Sé). 

Altra cosa è la pratica, diffusissima, della assoluzione. L'assoluzione non costa nulla. L'assoluzione è un colpo di spugna: nulla è mai successo, il fatto non sussiste. 

Per questo è così facile auto-assolversi. Ti dai la benedizione e ti dici che tutto il mondo sbaglia e dunque è perfettamente legittimo che anche tu sbagli.  Anzi, lo sbaglio nemmeno esiste perché tutti sbagliano. E lo sbaglio dunque, dov'è ?

L'assoluzione è la nostra scolorina dell'anima. L'uomo lo fa dai tempi del Neolitico.  Per vivere e sopravvivere deve costruir-si per forza una quantità di inganni, raccontarsi parecchie frottole alle quali far finta di credere, ogni giorno.

E per questo scopo, l'auto-assoluzione è fondamentale.   Si evitano le verità che si incontrano dentro se stessi, si tengono al sicuro, sotto chiave.   

Le verità, poi, prima o poi si impongono. Le verità sono evidenti, eclatanti, vogliono sempre venir fuori.  Ma si può sempre far finta di niente, anche quando la vita sta per finire. Darsi l'assoluzione, cancellare tutto.  

"I'm imperfect guy in imperfect world," ha twettato pochi giorni fa Lance Armstrong dopo aver ucciso per anni e anni la verità, lo sport, la dignità sua e dei colleghi, aver mentito al mondo intero nel più cinico dei modi.

Il mondo è imperfetto e nessuno mi perdonerà. E anche se dovesse perdonarmi, faccio prima io a darmi l'assoluzione. E buonanotte.

Un mondo di non-perdonati e di in-consapevoli, felici di esserlo.


Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. 





23/09/13

Cosa diciamo quando diciamo 'Mi piace' (o 'Non mi piace) ?





Sento spesso dire, ultimamente: questo Papa mi piace (o non mi piace);  eppoi sento dire Matteo Renzi ? Non mi piace (o mi piace);  E ancora: Napolitano ? mi piace, Balotelli ? Non mi piace. La Kyenge ? Non mi piace. 

Ecco ma mi viene da chiedere: ma cosa è questa cosa che ci fa dire 'mi piace'?

Mi sembra fin troppo facile dire che il  format di un social network a diffusione planetaria sta condizionando pesantemente anche il nostro modo di pensare.

Cosa diciamo esattamente quando diciamo mi piace ? Cosa vogliamo dire ? Cosa vogliamo comunicare ?

Il mi piace è il compito ordinativo, fondativo cui siamo chiamati oggi. Un rituale dell'interrogazione -monocorde, vieto - che sembrerebbe l'unico modo per vestirci di una personalità.

Attraverso i mi piace e i non mi piace, possiamo illuderci di vestire una identità precisa, o più o meno precisa che ci differenzi - si spera - dagli altri. O ci uniformi, il che va bene lo stesso.

Ma il piacere o non piacere deriva appunto e soltanto dal piacere: puro godimento esteriore. Diciamo mi piace se qualcosa o qualcuno ci dà una sensazione di piacere, di soddisfazione.  Diciamo non mi piace, se ci disturba, o non ci soddisfa o non ci gratifica. 

E spesso, sempre più spesso, non abbiamo nemmeno il bisogno, non sentiamo nemmeno l'esigenza di dover giustificare (non parliamo poi di argomentare) questo mi piace o non mi piace: è così è basta.  Cosa vuoi spiegare. Puro istinto, pura formulazione transitiva o non transitiva. La mia epidermide me lo dice, non mi star a chiedere perché.

Ma davvero il pensiero, il pensiero umano può ridursi a questo ?

Dovremmo forse interrogarci cosa (ci) dice questo mi piace e questo non mi piace.
Le cose che non ci piacciono nascondono mondi che nemmeno immaginiamo, quelle che ci piacciono, forse, paludi delle quali non siamo nemmeno consapevoli. 
E come sempre, è tutto dentro di noi (e non sulla superficie).
Solo che, come sempre, non vogliamo vederlo.


Fabrizio Falconi



25/06/13

Di cosa è fatta la nostra paura.




Di cosa è fatta la nostra paura ?

In cosa consiste esattamente ?  La nostra paura è un insieme di paure.  Alcune ci servono per vivere.  Se non provassimo alcune paure, saremmo destinati all'autodistruzione. 

Sono dunque, fisiologiche. 

Altre sono invece, le avvertiamo invece, come zavorre. 

Sentiamo che queste paure rappresentano il modo che il nostro io interiore ha per bloccare ogni cambiamento, ogni crescita ogni possibile evoluzione.  Il rischio del cambiamento è ciò che più ci atterrisce anche se siamo coscienti che - come ha scritto Krishnamurti - l'unica cosa che si ripete costante nella vita è il cambiamento.

Proprio per questo, nel flusso permanente che ha ed è la vita - dove ogni cosa mai si riposa - noi sentiamo il bisogno di creare permanenza, di costruire qualcosa che ci illudiamo non cambi, qualcosa che resti sempre, che non sia mutevole e cedevole come ogni cosa della vita dei viventi. 

Per bloccare dunque il flusso che ci spaventa, le nostre paure ci impongono di aver paura e di fermarci in tempo.   Bloccati dalla paura e dalle paure, ci sentiamo in fondo più sicuri. 

Eppure, come insegnano le diverse psico-analisi - e come insegnano anche le religioni tradizionali - ogni cambiamento è possibile solo se e in quanto siamo disposti ad attraversare le nostre paure.  Le nostre zone d'ombra, come vengono chiamano nella terminologia junghiana. 

Per affrontare le nostre paure occorre il coraggio: la virtù umana che Michel Serres ha definito quella oggi più importante. 

Il coraggio non può essere dato.  

Il coraggio è una qualità umana che sperimentiamo soltanto nella concretezza della nostra vita.  Nessuno, in assoluto, può dirsi un vile o un coraggioso.  Il fatto di esserlo - e di esserlo con se stessi - deriva fondamentalmente da ciò che decidiamo di essere di momento in momento, nel flusso delle nostre vite.

Il giudizio - e l'autogiudizio - ci paralizzano. Soprattutto perché siamo abituati a non dare un volto alle nostre paure, a non parlarne, e a far finta che non esistano. 

Le paure, invece, se vogliamo affrontarle, debbono per prima cosa essere riconosciute.  Accettate.  Non negate, non rimosse. Siamo esseri animali dotati di istinto: la paura fa parte di noi.  Siamo esseri dotati di spirito - ciascuno ne è provvisto, ciascuno nasce diverso da un altro, la nostra individualità unica e irripetibile E' spirito - e di coscienza: la coscienza  e lo spirito ci aiutano a riconoscere e ad accettare le nostre paure. 

A tenerle vicino, a non averne paura.

Solo così, la coscienza e la paura, non negandosi a vicenda, realizzeranno insieme il fine della vita, che è il cambiamento consapevole. L'essere consapevoli del cambiamento.  L'essere capaci di cambiare restando sempre consapevoli di sé.

Fabrizio Falconi


17/09/11

RI-COMINCIARE. Da dove ? (12 cose da cui ripartire): 10. TEMPITERNITA'




Non aspetterò che la felicità scenda di me come una epifania o come una grazia inaspettata.

Soprattutto non farò in modo di pensare che solo creando certe condizioni, la mia felicità potrà arrivare in questa vita.

 Non farò l’errore di pensare che soltanto trovando la persona giusta, il modo giusto, il denaro giusto, la casa giusta, il lavoro giusto, io potrò finalmente essere felice.

E’ un modo naturale di pensare, ma porta fuori strada.

E’ un modo di proiettare la felicità fuori di me. Di farla dipendere unicamente da cause oggettive, come un bimbo che vuole o pretende uno zuccherino. E' anche l'alibi mediante il quale io potrò continuare a lamentarmi sempre, nella mia vita: "non ho quel che voglio, non è quel che voglio".

La felicità non è questo. 

La felicità raggiunta in questo modo, evapora come la nebbia al sole appena raggiunta.

L’unica felicità che conti, dovrò ricordarlo, è quella che deriva dalla pienezza. Pienezza interiore, non esteriore. Noi non siamo otri che debbano essere riempiti. Siamo già riempiti, e lo siamo sin dall’inizio.

La felicità che deriva dalla consapevolezza di sé, e dalla pienezza, è reale e concreta, e finalizza il senso della vita, lo rende tangibile e prezioso oltre che durevole, ci avvicina a un tempo eterno.

Si tratta allora di scoprire la felicità che si nasconde – eternizzata – in un solo attimo.

Magari apparentemente insignificante della nostra vita.

Se sarò capace di riconoscere in quell’attimo, la sospensione esatta e in perfetto equilibrio tra ogni aspettativa futura e ogni rimpianto passato, io sarò realmente felice.

Come scrisse il grande Raimon Panikkar, La realtà non si esaurisce nella temporalità; non è ora temporale e dopo eterna, ma al contempo tempiterna. L’esperienza di tempiternità è vivere il presente come esperienza intensa dell’istante senza riferimento al passato che fu o al futuro che sarà. E’ il presente sempiterno nel quale si realizza un’azione veramente tale, ovvero autentica e, quindi, unica.

Fabrizio Falconi