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11/08/13

Libro sotto l'ombrellone: lasciate a casa le orride trilogie e portatevi dietro Conrad, Stendhal o Fitzgerald.




L'estate è la stagione dei lettori occasionali.  

Chi legge molto, di solito legge tutto l'anno.   In tanti invece, riescono a leggere soltanto d'estate. Interpretano, molti tra costoro, la lettura, come una delle forme diversive,  di divertimento o di svago.  Al pari del cruciverba, della rivista facile e dei vari compendi tecnologici che si infilano nella stessa borsa della spiaggia. 

Eppure un libro non è (solo) un diversivo. 

Un libro può arricchire - e di molto - la nostra vita reale.  Non bisognerebbe dunque sprecare l'occasione, almeno un mese all'anno, di conoscere, di crescere.  Attraverso un buon libro.

Vedo sotto la spiaggia in tanti violentarsi inutilmente con le trilogie trash o con il giallo un tanto al chilo d'importazione o fatto in casa.  E fuoriuscire da queste letture ancora più instupiditi di prima. 

Si pensa che un libro importante sia necessariamente  pesante o noioso
Ma lo dice soprattutto gente che non ha mai nemmeno provato a leggere qualcosa di un pochino più evoluto. Si tratta semplicemente di pigrizia mentale.  E come in tutte le cose simili, basterebbe cominciare, per scoprire un mondo. Per scoprire quanto ci si può arricchire. 

Provate anche con i vostri amici. Fatevi promotori dei buoni libri e della buona lettura. 

Chi legge male, di solito, vive anche male. 

Fatelo anche per loro.  Lasciate a casa, e fate lasciare a casa, o nell'ignobile dispenser dell'autogrill, il brutto seller americano, la puntatona della saga finto-medievale, il polpettone erotico a basso voltaggio. 

Portatevi dietro e consigliate all'amico di portare dietro un grande romanzo.  L'ultimo Conrad ristampato in Italia, per esempio (Il Caso, Adelphi, un romanzo straordinario dove sembra non accadere nulla e invece il lettore è risucchiato in un meccanismo narrativo perfetto), lo Stoner di John Williams (di cui, dopo un anno, si sono accorte finalmente, dopo un anno, addirittura, anche le pagine culturali di Repubblica),  La Certosa di Parma di Stendhal, Tenera è la notte di Fitzgerald. 

Vi divertirete anche, è sicuro.  Ma quando chiuderete uno di questi libri, sarete anche un uomo (o una donna) diversi. E scusate se questo è poco.  

Fabrizio Falconi


16/02/13

Claudio Magris sulle dimissioni del Papa.



Vi riporto l'articolo di Claudio Magris, comparso sul Corriere della Sera il 13 febbraio 2013, sulle dimissioni del Pontefice. 


QUANDO IL NO SERVE AD AFFERMARE LA LIBERTÀ E LA DIGNITÀ DELLA PERSONA

È più facile prendere che lasciare, dire di sì che dire di no. Quasi tutto ci spinge, quasi sempre, a dire di sì dinanzi a ciò che ci viene offerto e alla condizione in cui ci troviamo: la paura di offendere o di far restar male qualcuno, il timore di rimanere fuori gioco, lo sgomento davanti a cambiamenti della nostra vita, antichi e radicati imperativi morali, spesso sacrosanti, che impongono il dovere di agire, di combattere, di restare al proprio posto come i capitani di Conrad al comando di una nave in gran tempesta. È dunque comprensibile che il grande e fermo no detto da Benedetto XVI abbia sconcertato tante persone, fedeli e no, prese alla sprovvista da una rinuncia alla più alta carica e responsabilità del mondo. È comprensibile che ci sia chi ammiri e chi deplori la risoluta decisione del Papa, anche se il legittimo sentimento di consenso o di smarrimento non autorizza nessuno ad ergersi comodamente e arrogantemente a giudice di quella drammatica risoluzione, sofferta ma portata con straordinaria fermezza, una fermezza che forse mai prima questo Pontefice, problematico e talora esitante, aveva dimostrato con altrettanta intensità.


È più facile, in generale, dire di sì, esplicitamente dinanzi a una nuova richiesta o implicitamente restando nella condizione in cui ci si trova. Ma è soprattutto con il no che si affermano la libertà e la dignità di un individuo: rifiutare e dunque mutare ciò che appare immutabile, sfatare la pretesa di ogni situazione consolidata che si crede salda e indiscutibile, non bruciare l'incenso agli idoli, talora mascherati da dei. Il gesto di Joseph Ratzinger è certo un gesto rivoluzionario, che stravolge le regole, le consuetudini e le aspettative felpate e prudentissime della Curia romana, cautele circospette radicate nei secoli e divenute talora Dna, spesso stampate nei lineamenti e nelle facce ineffabili di molti suoi alti e interscambiabili esponenti. Prendere atto, apertamente, di una propria debolezza e inadeguatezza è una delle più alte prove di libertà e di intelligenza. Lukács, il filosofo marxista, non è forse mai stato così grande come quando, ultraottantenne, si è dichiarato incompetente a giudicare l'opera che stava scrivendo e l'ha affidata ai suoi scolari. Il vecchio eschimese che, sentendosi inutile, lascia l'igloo e sparisce nella notte artica dimostra una lucidità e una forza superiori a quelle dei suoi compagni. Proprio per questo, c'è chi sostiene che Benedetto XVI avrebbe potuto - secondo alcuni, dovuto - restare al suo posto, per il bene di tutti. Ma ci si può sostituire a chi vive quel dramma, sul quale noi tranquillamente dissertiamo? Sostituirsi a chi sente nelle sue vene, nelle sue fibre, nelle sue fantasie anche fugaci prima ancora che nei suoi articolati pensieri la propria forza o la propria debolezza e avverte nel suo respiro, nel suo sudore la realtà della sua vita?

Come ha ineguagliabilmente chiarito Max Weber, c'è un'etica della convinzione e c'è un'etica della responsabilità. La prima impone di agire secondo principi assoluti, non discutibili: se sta scritto «non uccidere», non si snuda la spada, qualsiasi cosa possa accadere. La seconda impone di agire pensando alle sue conseguenze: se nessuno avesse snudato la spada davanti a Hitler, bombardando e uccidendo pure tanti innocenti bambini tedeschi, il nazismo sarebbe stato padrone del mondo e Auschwitz sarebbe stata la regola. Entrambe le etiche sono altissime ed entrambe possono degenerare, rispettivamente nel cieco fanatismo impermeabile alla realtà e nella giustificazione di ogni compromesso.

Non sappiamo se Ratzinger abbia agito secondo l'etica della convinzione o secondo quella della responsabilità, ritenendosi inadeguato - cosa più che comprensibile per un uomo della sua età cui il vicariato di Cristo non risparmia alcun decadimento comune a tutti gli uomini - a guidare la Chiesa. Se è così, ha fatto il suo dovere, cosa che era difficile fare. Si possono avanzare tutte le illazioni possibili sui fattori che possono averlo spinto a quella decisione: qualche imminente grave crisi della Chiesa che egli non si sentiva capace di dominare, amarezze, incomprensioni o peggio subite da chi gli stava intorno o chissà quali altri motivi. Ma sulle illazioni, finché restano tali, non si può fondare alcun giudizio. Certo la sua rinuncia al soglio supremo fa specie soprattutto in Italia in cui non c'è quasi nessuno capace di rinunciare al più misero seggiolino - forse perché quel seggiolino è la sua unica realtà, è tutto il suo Io, che senza il seggiolino o la seggetta svapora come un cattivo odore, mentre Joseph Ratzinger non è solo un Papa, è - prima ancora - Joseph Ratzinger.

Il suo gesto rende concreta, umana, la figura di chi si proclama vicario di Cristo ma non per questo, nella dura e opaca vita d'ogni giorno, ne sa più degli altri. Ha portato due croci, due destini pesanti. Il primo è stato il percorso che lo ha condotto, da innovatore fra i più audaci all'inizio del Concilio Vaticano II - fortemente avversato, come altri cardinali e vescovi tedeschi, da conservatori della Curia come Ottaviani - a un ruolo che, soprattutto grazie alle semplificazioni mediatiche, lo ha fatto apparire, per lo più ingiustamente, un conservatore retrogrado. Ha vissuto il doloroso dramma di chi apre arditamente una porta al nuovo e, turbato da tante cose confuse e cattive che si mescolano alla bontà del nuovo, si trova spinto a chiudere quella porta, come un insegnante che giustamente faccia leggere ai suoi allievi Baudelaire o de Quincey e poi, vedendo che molti goffamente si ubriacano di assenzio e di oppio, toglie quelle letture dal programma. È divenuto, ingiustamente, bersaglio di tanti stolti e supponenti dileggi, un bersaglio obbligato del tiro a segno nel grande circo in cui viviamo. È stato ad esempio fischiato e vilipeso per la sua contrarietà al matrimonio omosessuale, ma i suoi fischiatori, stranamente, non sono andati a fare pernacchie e a tirare uova marce alle finestre delle ambasciate di Paesi in cui gli omosessuali vengono decapitati. È divenuto Papa e sul suo pontificato sarà la Storia a giudicare.

Ma si vedeva subito che non era felice di fare il Papa, diversamente dal suo predecessore. Non era, non è a suo agio in quel ruolo, che probabilmente esige una vitalità diversa, una sanguigna e brusca capacità di scuotere la polvere degli eventi dai propri calzari, cosa che era naturale a Giovanni Paolo II, che poteva soffrire - e ha sofferto molto - ma non dava mai l'impressione di essere a disagio. Negli stessi panni, Joseph Ratzinger si è trovato invece forse a disagio e perciò ha dato talora l'impressione di essere indeciso e soprattutto di soffrire troppo il peso della sua responsabilità, cosa che non è sempre un bene per chi esercita il potere.

Ho avuto la fortuna di incontrarlo e di poter parlare liberamente con lui, in un'udienza privata, in occasione della pubblicazione del secondo volume - il più grande - del suo Gesù di Nazaret , che avevo presentato a Roma la sera prima. C'era un'atmosfera di tristezza, nell'aria ovattata di quelle splendide sale e corridoi; dava l'idea di una dorata prigionia. Abbiamo parlato, in italiano e in tedesco, di città care ad entrambi, come Monaco o Regensburg, e di alcuni passi straordinari di quel suo libro su Gesù, ad esempio là dove egli dice, con grande coraggio, che la vita eterna non è una specie di tempo infinitamente prolungato bensì la vita autentica e piena di significato, il kairòs greco, l'istante assoluto della verità. «Ma allora - mi disse quasi con incantevole ingenuità - Lei ha veramente letto il mio libro!», al che gli risposi che non ero un impostore e che, in ogni caso, se proprio avessi deciso di imbrogliare, non avrei scelto per questo il suo libro. Forse l'altissimo ufficio non si confà alla sua natura. Se è così, il suo gesto di rinuncia è anche un riappropriarsi della propria persona, un gesto di libertà che come pochi altri fa di un Papa un uomo, secondo il detto di Shakespeare, che esorta, qualsiasi cosa si faccia, a farla secondo la propria natura.

Claudio Magris

01/09/12

"Lord Jim" di Joseph Conrad - una rilettura 'iniziatica'.




E' sempre curioso scoprire le differenze nella considerazione di un grande romanzo, quando è passato molto tempo dalla prima volta che si è letto.

Per Lord Jim di Joseph Conrad, la differenza è sostanziale: quando lo lessi durante gli anni del liceo, lo interpretai come un puro libro di avventura.

Riletto oggi, mi appare un grande libro iniziatico.  Nel senso che la storia di Jim, la storia della sua perdizione, dopo il quasi involontario atto di codardia, l'abbandono della nave che si crede stia affondando, è diventata ai miei occhi, la grande storia di una iniziazione alla comprensione più profonda della natura umana, che ciascuno deve compiere - quindi anche della sua natura - nel corso della propria vita.

Nelle pagine finali di questa celebre storia, Jim si sacrifica come un eroe sull'altare della sua pura idealità ferita - e riguadagnata proprio grazie a quel sacrificio finale, che appare in-evitabile. 

Qualche pagina prima della fine ho trovato questa frase pronunciata da Jim, che mi sembra paradigmatica dell'intero romanzo: Gli uomini a volte si comportano male senza essere per questo molto peggiori di altri.

Sembra una resa di fronte alla in-sindacabilità dei destini e delle scelte umane di fronte agli incredibili orditi del Fato, che riesce sempre a scombinare qualsiasi certezza noi pensiamo di possedere riguardo a ciò che motiva il nostro agire. Il Fato - si potrebbe dire - ne sa sempre di più. 

Eppure la resa di Jim non è totale, né unilaterale. Lui anzi, come dimostra il sacrificio finale, non si è in fondo mai arreso. Ha soltanto trovato una 'via giusta' (e dunque autentica, e quindi morale, per poter dire di aver vissuto sensatamente, nonostante la macchia originaria e indelebile che lo ha afflitto).

La parola che più mi viene in mente per definire questo romanzo è "struggente". E' struggente il destino di Jim, è struggente la sua vicenda umana - estrema. Struggente e appassionato il racconto che ne fa Marlow, il testimone. 


Tra i tanti gli spunti che offre un grande romanzo come questo, è particolarmente  interessante quello che suggerisce Czeslaw Milosz nella postfazione alla edizione Mondadori, cioè una possibile allegoria del Patna - il vascello -  come la 'Patria', che Jim abbandona senza staccarsene completamente mai.

Questo, pensando alla vicenda umana di Conrad, offrirebbe una lettura molto originale (pensando anche alla Patria non solo come luogo fisico) - addirittura psico-analitica - della storia: senso di colpa (il padre aveva dato tutto, compresa la vita, per la patria polacca), nostalgia, voglia di tradimento e allo stesso tempo di ritorno e di espiazione.

In fondo è anche per questo che l'opera di Conrad, insieme al suo sguardo triste, non smette mai di interrogarci. 

Fabrizio Falconi


09/09/11

"Turisti nel tempo", Intervista a Ian Mc Ewan - di F.Falconi.



Nelle sue ‘passeggiate romane’  ciò che più ha attratto Ian Mc Ewan sono i cancelli elettronici posti a sorveglianza della Cappella Sistina e dei Musei Vaticani: “Messaggi registrati, display elettronici, cartelli dappertutto. Sarebbe molto difficile per un puro di cuore, lì dentro, un apprezzamento innocente dell’opera d’arte, guardare, amare e basta.”

Lo scrittore inglese è nel nostro paese per visitare il set di Cortesie per gli Ospiti, il film che il regista Paul Schrader sta girando per una coproduzione italo americana,  tratto dal suo secondo romanzo, in Italia pubblicato da Einaudi nel 1981.

Prima sorpresa: lo script del film porta la firma di Harold Pinter, non la sua. Come mai: “Pinter è un mio amico – risponde Mc Ewan stringendo gli occhi sotto le lenti da miope – Ci siamo visti prima che lui iniziasse il lavoro. Mi ha fatto qualche domanda. Io penso che o si è coinvolti interamente in un progett, o è meglio non entrarci per niente.”  E’ comunque entusiasta del set, che ha visitato nella mattina, allestito nel grande Teatro Uno degli Studi Pontini, dove Gianni Quaranta, il direttore delle scene, ha ricostruito un intero palazzo veneziano, quello in cui si svolge l’incontro tra la giovane coppia di turisti inglesi e Robert, l’inquietante e ambiguo protagonista del romano.

“ Di meglio era impossibile avere,” commenta Mc Ewan a proposito degli attori: Christopher Walken è Robert, Helen Mirren sua moglie, Rupert Everett e Natasha Richardson, la giovane figlia di Vanessa Redgrave, la coppia di turisti inglesi. Lo scrittore nutre una grande ammirazione per Paul Schrader, con cui condivide il carattere introverso e le parole misurate, retaggio per entrambi, forse, di una educazione severa – Schrader educato dai Gesuiti, Mc Ewan nei più selezionati college inglesi. Da Taxi Driver Schrader è uno dei migliori sceneggiatori americani; come regista ha firmato film controversi, subito diventati cult soprattutto in Europa, come Il bacio della pantera, Mishima, o il recente Patty.  “Quando gira, Schrader ha una cura molto simile a quella che ho io nel controllo della scrittura – dice Mc Ewan – Ma nel film c’è più enfasi, i personaggi sono diversi.”

Come sceneggiatore Mc Ewan, con The ploghsman’s lunch, ha scritto uno dei più bei film inglesi dell’ultimo decennio. “ Per molto tempo il cinema mi ha dato da vivere. Una volta, fino a qualche anno fa, in Inghilterra non avresti mai potuto vivere con i proventi di un libro. Oggi puoi farlo. Non voglio apparire ottimista, ma in Inghilterra, c’è molto fermento in questo periodo. Tra i lettori e tra gli scrittori.   Gente come Timothy Mo o Salman Rushdie, le cui esperienze arrivano da molto lontano, ha portato una nuova linfa alla letteratura e alla lingua britanniche. Non credo affatto che la letteratura risenta in Inghilterra della impasse politico in cui versa il paese. E credo che quando questo governo cadrà, la gente capirà di aver esagerato riguardo ai danni che il governo stesso ha causato.  Non dovremmo confondere il nostro governo con quello di Ceausescu, che limita attualmente l’immagine e la fantasia. Da noi gli scrittori sono liberi.”

E in effetti Mc Ewan ha rappresentato anche tra i giovani scrittori un modello, proprio a causa della sua "totale libertà" di scrittura. I primi racconti - Primo amore, ultimi riti, del 1975 e Fra le lenzuola del '76 - affrontavano temi duri come la pedofilia o l'incesto da un punto di vista del tutto straniato.  Oggi però, dopo Bambini nel Tempo, che Einaudi ha pubblicato in Italia alla fine dello scorso anno, Mc Ewan si scopre diverso. "Credo di essere cresciuto  molto lentamente come scrittore: sto apprendendo molto. Credo che dopo Cortesie per gli Ospiti, il romanzo che ora sta girando Schrader, ci sia stata come una morte dentro di me. Ho lavorato per il cinema, ho allargato i miei interessi.   Così, nel 1983, quando ho cominciato a scrivere Bambini nel Tempo, ho sentito che ero pronto a rischiare un argomento più importante, usando invece di un solo piano narrativo, tre o quattro diversi livelli."

E in effetti gran parte della critica ha parlato di Bambini nel tempo come di un romanzo della 'compiutezza', della 'maturità'. Mc Ewan non è d'accordo: "Semmai si tratta di un punto di partenza - dice - l'inizio di un cambiamento, di una 'crisi di mezza età'. Non sono d'accordo con chi vuole intravedere una svolta. Tutti i miei libri lo sono, forse Bambini nel tempo lo è più degli altri. "

Bambini nel tempo è forse il segnale di una nuova raggiunta condizione, quella di padre. Nel 1982 Mc Ewan ha sposato Penny, che aveva già due figlie di 14 e 16 anni. Dal matrimonio sono nati poi Gregory e William, che oggi ha tre anni.  E se Bambini nel Tempo è l'inizio, quale sarà il seguito ?  Il seguito è già cominciato, perché Mc Ewan ha da poco finito il suo nuovo romanzo. Uscirà contemporaneamente in tutta Europa nel prossimo marzo - distribuito da Einaudi - più o meno nello stesso periodo in cui il film di Schrader sarà pronto per il Festival di Cannes.  "Quello che posso dire a proposito del romanzo che ho appena finito è che non ho mai provato piacere più grande nello scrivere. L'ho scritto molto velocemente in quattordici mesi e ha due titoli diversi. In inglese si chiama The Innocent, ma l'editore lo ha voluto chiamare con il suo primo titolo, Lettera da Berlino. E infatti la storia è ambientata a Berlino e riguarda la fine della guerra fredda.  E' curioso perché alla fine del libro il protagonista decide di ritornare a Berlino dopo molti anni, in compagnia della giovane donna tedesca che aveva amato tanti anni prima, e decide di farlo perché vuole vedere il muro prima che venga abbattuto. E così, non potevo immaginare minimamente che dopo tre mesi che avevo finito il libro, il muro sarebbe stato finalmente abbattuto."

Ed è felice come un bambino McEwan, per nulla preoccupato che questa eccessiva "tempestività" possa essergli rinfacciata.  "Non è comunque un libro politico - vuole precisare - è una storia d'amore tra un uomo inglese e una donna tedesca. Ma la storia d'amore diventa  una specie di terreno di battaglia più grande, che si inserisce nel quadro politico del dopoguerra e coinvolge le lotte tra i servizi segreti di diverse nazioni e la costruzione di un tunnel segreto nel cuore di Berlino."

E' ancora un romanzo a più strati, sembra di capire.  "Sì, ultimamente vengono fuori così e da una parte mi dispiace, perché la lunghezza ideale, quella verso la quale vorrei tornare, è quella del mio primo romanzo, The cement garden. Gli editori mi chiedevano continuamente un romanzo, ma io rinviavo perché non avevo una buona storia da scrivere.  E quando l'ho avuta, è venuta fuori molto rapidamente.  The cement garden è molto corto, la struttura è molto simile a quella di un racconto, ed è proprio la lunghezza alla quale vorrei tornare: cinquantamila parole. La stessa lunghezza di Morte a Venezia di Thomas Mann e di Cuore di Tenebra di Conrad, di Giro di Vite di James e della Metamorfosi di Kafka.  Penso che questi quattro scrittori abbiano fatto le loro cose migliori proprio su questo 'formato'.  E' una lunghezza meravigliosa, la mia idea di libro ideale è quella di un libro che può essere letto in tre ore."

Fabrizio Falconi - "Turisti nel tempo", incontro con Ian Mc Ewan, Il manifesto del 17 dicembre 1989.



31/10/09

Gli altri non sono specchio, ma porta.


Siamo abituati, per forma mentis, a considerare gli altri come mezzo, e non come fine, questo lo sappiamo. Quando abbiamo di fronte qualcuno, anche qualcuno che conosciamo, pensiamo quasi sempre "cosa posso ottenere da lui?" e quasi mai "cosa posso fare io per lui."

Ma gli altri, che noi consideriamo semplicemente in nostra funzione, possono essere anche una enorme risorsa della nostra vita.

Joseph Conrad scriveva: "Vivere secondo le aspettative dei propri amici".

Se provassimo a chiederci ogni giorno: "che cosa si aspetta questo mio caro amico, da me ?" "Cosa si aspetta che io faccia ? Non per lui, ma semplicemente cosa vorrebbe che io facessi della mia vita, nella mia vita ?" come diventerebbe allora la nostra vita ?

E' un rovesciamento ardito. Ma è, niente più e niente meno, che il rovesciamento del cristianesimo. E di quel primo comandamento, quello che viene prima di tutti gli altri, che il Nazareno offrì nel Discorso della Montagna, per tramutare l'inferno della vita reale quotidiana in possibile paradiso in terra (stante che il vero paradiso lo troveremo soltanto oltre).

Scriveva Dag Hammarskjold - di cui abbiamo già parlato in questo blog: "Il mio incontro con gli altri è forse qualcosa di più di uno specchio ? Chi, che cosa, mi darà l'occasione di tramutarlo in porta ? L'occasione o la necessità ? Non sono io forse troppo "razionale ed equilibrato", ossia troppo egocentrico, per cedere dinnanzi ad altro che la necessità ? Una necessità di cui render conto !"

Ecco, se riuscissimo a tramutare l'incontro con gli altri come porta e non come specchio, non solo e soltanto sotto la spinta della necessità, ma anche e soprattutto come occasione personale di crescita, forse la nostra vita sarebbe più piena e più degna.
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