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05/11/16

L'amore e il sesso al tempo degli sms e della chat. (di Richard Brooks).




GLI SMS e GLI INCONTRI D'AMORE - COSI' SI DISTRUGGE POESIA E MORALE - di Richard Brooks 

Contatti multipli e più disincantati - si può passare da un partner all'altro nella stessa serata se arriva un messaggino. Dall’aprile del 2007 il New York Magazine pubblica online pagine di diario delle esperienze sessuali della gente, che narra anonimamente le proprie conquiste e prodezze notturne. 

Alcuni di questi racconti sono insoliti e tristi. Una bancaria che è stata licenziata passa le serate a ubriacarsi per poi svegliarsi al mattino nel letto di uomini sconosciuti. Un operatore finanziario afro-america­no nei week-end gira per il paese per incontrare coppie in cerca di sesso interrazziale.

L’aspetto più interessante di questi diari è però la parte che il cellulare ha avuto nel corteg­giamento. 

Nelle sere in cui escono, gli estensori dei diari spesso inviano sms a diversi possibili partner, cercando di combinare l’incontro migliore. 

Come nota il giornalista We sley Yang, che indaga acutamente il fenomeno sul New York Magazine , chi scrive i diari «usa il cellulare per disaggregare, catalogare e rimpacchettare i suoi bisogni emotivi e fisici, assegnando un partner di­verso a ognuno di essi e sperando in un’esperienza soddisfacente» . 

A queste persone capita spesso di accingersi a passare la serata con un partner e di cambiare poi idea perché gli arriva un sms con una proposta più promettente. Per scongiurare il pericolo di non essere scelti da nessuno, scrive Yang, «tutti sono nell’elenco di riserva di qualcuno, e tutti hanno un elenco di riserva, che tengono aperto con sms interlocutori».

L’atmosfera è fluida, come in un’asta su eBay. Questo comporta l’adozione di strategie di marketing. Non bisogna appari re troppo ansiosi di conclud re. Vanno trovati soprannomi diversi per i vari partner. «Decido di passare la giornata con Quella Che Piange», scrive un assistente legale di 26 anni del l’East Village. Nel condurre le transazioni non bisogna avere troppi scrupoli. «Ho per le mani un super-appiccicoso», scrive una produttrice televisiva. «Mi ha chiesto di uscire di nuovo domenica prossima. Non rispondo» .

La gente che manda il diario delle sue vicende erotiche a una rivista non rappresenta cer­to l’americano medio, ma l’impiego della tecnologia negli approcci sessuali è ormai consuetudine per un gran numero di giovani americani, e riflette una tappa interessante dell’evoluzione sociale del paese.

Una volta — ai tempi di «Happy Days» — il corteggiamento era governato da una serie di regole e cautele. Gli incontri tra i potenziali partner avvenivano di solito nel contesto delle grandi istituzioni sociali: il quartiere, la scuola, il luogo di lavoro, la famiglia. C’erano dei riti sociali accettati — darsi appuntamento, uscire insieme, rimandare il sesso — il cui scopo era guidare i giovani lungo il percorso che andava dalla fase dell’interesse momentaneo a quella dell’impegno duraturo. Negli ultimi decenni questi riti sociali, incompatibili con l’epoca post-femminista, sono divenuti obsoleti e si è andanti alla ricerca di regole di corteggiamento più aperte.

Ci si aspetterebbe che in questa materia una società dinamica sia in grado di aggiornarsi, ma la tecnologia ha reso la cosa molto difficile. Le norme di comportamento implicano ostacoli e restrizioni, che vengono però dissolti dagli strumenti tecnologici, in particolare da cellulari e sms

Ora i corteggiatori si mettono in contatto in un ambito istantaneo e fluido, separato dalle grandi istituzioni sociali e dagli impegni che esse richiedono. Le persone si trovano così a dover fare i conti solo con se stesse. Diventano liberi battitori in un’arena competitiva segnata da relazioni ambigue. La vita sociale somiglia sempre più all’economia, dove si è immersi in una miriade di occasioni, domande e offerte, in un universo di partner potenziali.

La possibilità di raggiungere rapidamente molte persone sembra incoraggiare la segmen­tazione: si cerca di allacciare contemporaneamente relazioni di diverso tipo di con persone diverse. Sembra poi incoraggiare un atteggiamento di provvisorietà. Se si hanno sempre molte opzioni a disposizione diventa naturale adottare la mentalità di chi confronta i prezzi della merce.

Sembra anche incentivare un’atmosfera di generale disincanto. Lungo i secoli i sistemi basati su principi morali, dalla cavalleria medievale agli inni all’amore di Bruce Springsteen, funzionavano tutti più o meno allo stesso modo. Legavano gli interessi egoistici contingenti a significati trascendenti, spirituali. L’amore diventa così una nobile causa, un atto di sacrificio e di impegno disinteressato.

Gli sms e la mentalità utilitaria tendono a distruggere la poesia e l’immaginazione. Per reggere ai brutali contraccolpi del mercato occorre dotarsi di ironico distacco. Nel mondo odierno la scelta di un’automobile è un atto più sacro della scelta di un partner. Questo non significa che i giovani di oggi siano peggiori o più superficiali di quelli del passato. Significa che sono meno aiutati. Una volta la gente viveva all’interno di un’esistenza strutturata, che si occupava di foggiare le emozioni, guidare le pulsioni dal provvisorio al permanente e collegare le esigenze quotidiane a cose più elevate. La saggezza accumulata dalla comunità portava le coppie a trovare un impegno duraturo. Oggi ci sono meno norme che vadano in questa direzione. La tecnologia attuale sembra minare l’instaurarsi del senso di reciproca e stabile affidabilità su cui si costruisce la fiducia.

Copyright New York Times Syndicate
(Traduzione di Maria Sepa)
David Brooks 5 novembre 2009 

26/01/15

In fuga dall'Isola.






Una volta abitavamo, insieme, sul Continente. Il Continente era fatto di terra odorosa e solida. Il Continente è da dove veniamo. Sul Continente abbiamo imparato – a prezzo di guerre e catastrofi – a convivere. Il Continente è la nostra storia, la nostra maledizione e il nostro rimpianto. I greci, sul Continente, hanno prodotto idee. I romani strade. I cristiani una fede.  E per molto molto tempo questo è bastato. Poi, tutto questo non è bastato più. 

Il Continente divenne, senza che quasi ce ne accorgessimo, inabitabile. I nostri padri ci abbandonarono. Molti di loro morirono ammazzati, altri, molti, si disinteressarono di noi. Venti contrari e siccità, una intollerabile promiscuità ci convinse che era l’ora di abbandonare il continente, e andare per mare. 

Qualcuno di noi, per primo, trovò l’Arcipelago. Ora viviamo qui, e la situazione nuova ci mette a disagio. La luce è abbagliante, e ci costringe a tenere gli occhi socchiusi. Il silenzio è abitato da un rumore di fondo indistinto, il rumore del mare, che rende pazzi. Ciascuno di noi è solo. 

 Per comunicare con gli altri di noi, che sono sulle altre isole, abbiamo bisogno di mezzi meccanici. Non sempre funzionano. Ma hanno il vantaggio di illuderci. 

E l’illusione è sempre meglio della realtà, così almeno ci illudiamo che sia. Vivendo sull’isola non sappiamo più bene chi siamo. 

Il tempo è indistinto. Sull’isola, ogni giorno vale come un altro. Sull’isola, non abbiamo punti di riferimento. 

Al punto tale che anche l’isola potrebbe muoversi, nella corrente, senza che ce ne accorgiamo. 

Un barlume di orientamento potrebbe venire soltanto dal cielo, di notte, quando brillano le stelle. Ma alla sera, siamo troppo stanchi per alzare gli occhi al cielo. 

Sull’isola, poi, tutto è relativo: non esistono bello e brutto, perché ci sono soltanto io qui, a giudicare. E ciò che sulla mia isola è bello, non lo sarà sulla tua. Non esiste giusto o ingiusto perché sono io il promulgatore della giustizia dell’isola e non pretendo di amministrarla su un’altra isola. Le isole sono collegate da canali. E’ difficile attraversarli, ma non impossibile. 

Ogni tanto mi assale una feroce nostalgia del Continente. Ma so già che non potrei mai tornarvi. Lo troverei cambiato per sempre, preda della giungla e degli animali feroci. Sull’isola, scavo ogni giorno un pezzetto di terra, e vi deposito qualcosa di me: unghie, denti che cadono, capelli. Fecondo la terra, ma so che nessuna terra può essere fecondata in mezzo alle tempeste del mare. Di notte imbastisco una preghiera. Qualcosa che ricordo di aver imparato da bambino. Poi mi perdo le parole, e devo ricominciare daccapo. 

Lo so, impazzirò se le cose continueranno così. Nessun colore di frutto o di foresta, di corallo o di mare, nessuna visione potrà salvarmi. La mia salvezza è la fuga dall’Isola. E’ quel che farò. Come un folle, mi lascerò portare alla deriva su qualche letto di canne. Sono sicuro che il mondo non è sparito, oltre queste isole. Ne sento, anzi, il soffio in lontananza. Ne sono sicuro. 

Oggi, nel mio taccuino rilegato in pelle scura ho scritto queste parole. Le ho ricopiate, le ha scritte quaranta anni fa un uomo che è morto, quattro mesi dopo averle scritte, in un incidente aereo, in Congo: 

Io non so chi – o che cosa – abbia posto la domanda. Non so quando essa sia stata posta. Non so neppure se le ho dato una risposta. Ma una volta ho risposto sì a qualcuno – o a qualcosa. Da quel momento è nata la certezza che l’esistenza ha un senso e che perciò, sottomettendosi, la mia vita ha uno scopo. Da quel momento ho saputo cosa significhi non guardare dietro a sé, non preoccuparsi del giorno seguente. Guidato attraverso il labirinto della vita dal filo d’Arianna della risposta, ho raggiunto un tempo e un luogo, in cui venni a sapere che il cammino porta a un trionfo, e che il crollo a cui esso conduce è il trionfo; venni a sapere che il premio per l’impegno nella vita è l’oltraggio, e che l’umiliazione più profonda costituisce l’esaltazione massima che all’uomo sia possibile. Da allora la parola coraggio ha perduto il suo senso, in quanto nulla poteva venirmi tolto.  

Queste parole mi hanno dato speranza. E mi sono ricordato che la speranza era la qualità di mio padre, e prima di lui di mio nonno, e dei padri dei miei padri. Ho preso il largo, di sera, e non temevo la notte.

L’isola si allontanava, ma era dentro di me. Io ero l’isola. E la nuova terra, la nuova fertile terra, sarebbe stata l’anima vivente di tante nuove isole, senza più mare a confonderle, a perderle. Pensavo, mentre nuotavo, alla solita domanda insistente: To be or not to be ? E' stato allora che di fronte alla disperazione di Amleto:  the time is out of joint (il mondo è fuori dei cardini), mi sono ricordato della risposta giusta del Bardo: born to set it right (nato per rimetterlo in sesto). E sono arrivato al termine del mare. 


 Fabrizio Falconi - (C) riproduzione riservata) - 2009

22/09/12

Contro il "Pensiero-Corto" dominante.




Penso che sarebbe ora di scrivere un Manifesto contro il Pensiero-Corto. 

Sarà forse dovuto alla mutazione antropologica causata da quella digitale - il fatto che ormai siamo tutti chiamati a pensare in poco, in meno, in sottrazione - ma sembra essere scomparso dall'orizzonte una delle caratteristiche più nobili del pensiero umano: quella di ragionare per sistemi, in grande e in alto e senza esclusioni e preconcetti anche - e soprattutto - di fronte a quello che non comprendiamo.  

E' difficile farlo in un mondo che ti chiede di scrivere - anzi di cinguettare -  in 140 caratteri quello che ti preme nelle meningi. 

Difficile farlo nelle vite sempre più 'a pezzi'  (ricordate l'Harry di Woody Allen ?) frammentate tra mille e apparentemente inutili esigenze di timbrare la nostra presenza in vita (digitale). 

Eppure, a maggior ragione non bisognerebbe rinunciare ad esercitare un pensiero lungo, un pensiero che vada oltre i miseri tracciati delle istanze e dei pregiudizi mentali . 

Il Pensiero-Corto continua ad essere sempre mortificante per chi lo pratica.

Se ne ha un esempio eloquente nel modo limitato in cui spesso si sente liquidare l'indefinito, il misterioso, il non spiegato, il non evidente.

Ci sono molte cose intorno a noi che non comprendiamo e che funzionano. Si pensi al principio omeopatico nel campo medico: nessuno sa come funzioni, però pare proprio che funzioni visto che 300 milioni di persone nel mondo ne fanno uso (11 milioni in Italia).

Anche l'effetto placebo funziona (esistono ormai moltissimi studi che lo dimostrano) e nessuno sa perché.

Eppoi funzionano anche spesso i sogni e le premonizioni o l'intuito quando si sceglie o si respinge qualcuno.

Ma tutto questo il Pensiero-Corto lo chiama 'casualità'.

E' il sintomo di una pigrizia, di una impotenza del pensiero che - se si vuole restare umani - bisognerebbe fare di tutto per combattere, in tutti i campi.

Come scrive C.G. Jung: A chi può procedere malgrado gli enigmi, si apre una via. Sottomettiti agli enigmi e a ciò che è assolutamente incomprensibile. Ci sono ponti da capogiro, sospesi su abissi di perenne profondità. Ma tu segui gli enigmi.  (Liber Novus, Libro Rosso, Bollati Boringhieri, 2011, pag.308).

Fabrizio Falconi

in testa : Men Asleep on a Girder, 20 settembre 1932

04/10/11

Corrado Guerzoni - "Il valore della parola" - Un ricordo.


A proposito di Corrado Guerzoni, scomparso l'altro ieri, a Roma, vorrei riportare qui un ricordo personale che risale al 1987.

Guerzoni era allora direttore di Radiodue, la seconda rete radiofonica della Radiorai - allora seguitissima - (incarico che ricoprì per 12 anni consecutivi) e conduttore in primis di quella fortunata trasmissione che si chiamava "Radiodue 3131".

"Radiodue 3131" era l'erede di quella trasmissione, "Chiamate Roma 3131", condotta all'inizio da Gianni Boncompagni e Franco Moccagatta (prima trasmissione il 7 gennaio 1969) che rivoluzionò completamente il mezzo radiofonico, con l'introduzione delle telefonate degli ascoltatori  (tutta l'epopea del 3131 dal 1969 al 1995, che ha attraversato l'arco di trent'anni cruciali nella storia italiana, è ricostruita in un prezioso volume scritto da Raffaele Vincenti, La prima volta del telefono, edito dalla RaiEri, con dvd, nel 2009).

Guerzoni - con la determinante partecipazione di Lidia Motta, geniale capostruttura della Rai di allora, e suo "braccio destro" - prese in mano la trasmissione nel 1982, cambiandone completamente l'identità.   Da trasmissione 'confidenziale', dal tono tutto sommato 'leggero',  3131, sotto la guida di Guerzoni si trasformò in un vero strumento di ricerca giornalistica.  Ogni argomento veniva affrontato da diversi punti di vista, con l'ausilio di tecnologie allora del tutto sperimentali - lo studio mobile, le radio-macchine, i collegamenti dagli angoli più remoti d'Italia - e con la ricerca di un dialogo con gli ascoltatori basato sul "valore della parola", come strumento creativo, di crescita personale (non di chiacchiera), di conoscenza e consapevolezza, in una parola di responsabilità.

Guerzoni era un giornalista.  Che veniva da una esperienza drammatica: quella di aver esercitato per diversi anni il ruolo di portavoce dell'on. Aldo Moro.  Dopo la sua barbara esecuzione da parte delle BR, Guerzoni lasciò la politica. Tornò al giornalismo e decise di farlo in un modo tutto suo: non gli interessavano tanto le notizie - gli interessavano anzi assai poco - quanto il nostro modo di osservare il mondo e di farne parte.  Era convinto che la parola fosse immedesimazione nell'altro, condivisione, possibilità e capacità delle anime di farsi dia-logo, di partecipare ad una comunità allargata, che si interroga e interroga le proprie ansie e le proprie questioni cruciali.

Guerzoni era un accanito lettore: pur essendo come egli si definiva "incompetente" teoricamente, amava leggere di tutto, poesia e prosa, filosofia e teologia, i classici.

Così, nell'estate del 1987, Guerzoni, insieme a Maurizio Ciampa - filosofo e conduttore del 3131 notte (altro luogo deputato alla sperimentazione comunicativa)  - pensò di provare a scrivere un testo, insieme a colleghi molto più giovani di lui.

Fummo "convocati" in 5: oltre a Ciampa, Francesco Malgaroli, Gabriella Mangia, Stefano Rizzelli ed io.

L'idea era quella di un "work in progress": non avevamo un canovaccio pre-stabilito. Non più di tanto. Guerzoni pensò di realizzare una serie di incontri nel suo ufficio di Viale Mazzini. Incontri nei quali noi lo avremmo sollecitato su questi temi - cosa vuol dire parlare con qualcuno, esiste una coscienza o una verità delle parole, come si può guardare nel cuore del prossimo, che cosa comporta che il mondo ormai sia un enorme luogo dove tutti parlano e quasi nessuno ascolta - e lui avrebbe risposto "a ruota libera"; come una specie di confessione, interrogandosi - lui per primo - sul senso del lavoro che faceva tutte le mattine, quando si accendevano i microfoni nella R7 di Via Asiago.

Ho un ricordo personale fortissimo di quegli incontri. Noi eravamo molto giovani, freschi di studi, e con la presunzione di sapere molte più cose di quelle che in effetti conoscevamo.  Guerzoni però si fidava ciecamente di noi.  Voleva darci questa chance di fare il libro insieme a lui, di vederlo crescere insieme.  Di firmarlo perfino insieme a lui.

Realizzammo parecchi incontri - non ricordo se sei, sette - e furono ore meravigliose.  Il Guerzoni che ricordo durante quegli incontri era per me piuttosto stupefacente. Pur parlando "a braccio" non fu mai, nemmeno una volta, banale.  Le sue riflessioni erano meditate e pacate, ma dimostravano i frutti di una ricerca personale colta e approfondita, sollevavano questioni primarie, per noi che iniziavamo a fare quel lavoro di 'interrogazione della realtà' che è e dovrebbe sempre essere il giornalismo.   Ci offriva, ci offrì la sua visione di quel mondo, che doveva essere prima di tutto 'morale', cioè rispondere ad un senso di responsabilità profonda: quello della in-violabilità del mistero dell'altro, che è sempre di fronte a noi, e che anche quando sceglie di aprire se stesso, la sua anima, i suoi pensieri, resta altro.

Confidava però molto nella capacità della parola di "cambiare gli uomini", e in definitiva di cambiare anzi il mondo. Era questa la speranza - o la fede, o tutte e due le cose insieme - che agitava il suo lavoro e la sua ricerca personale, sempre inquieta, alle prese con la apparente e angosciosa "irremediabilità" del mondo.

Il libro uscì l'anno seguente, pubblicato dalla SEI di Torino, intitolato "Il valore della Parola".

Aveva faticato molto a congedarsi dal libro, concedendo il "visto si stampi".  Nelle conclusioni finali, rendendosi conto che c'era già qualcosa che premeva urgentemente "oltre" il libro,  scriveva: Del resto è la vita che butta per aria i libri, è l'esperienza che facciamo ogni giorno e ogni sera che scompiglia le nostre idee, che soffia nei nostri sentimenti, nelle nostre azioni, nelle nostre reazioni, che ci espone al rischio insito nel vivere stesso."

Vivere, rischiare, esporsi, assumersi "la grave responsabilità" del parlare con la gente, con milioni di persone ogni giorno. L'intera esperienza di vita di Guerzoni - e l'eredità grande che ci ha lasciato a noi che abbiamo avuto la notevole fortuna di lavorare con lui - si è giocata tutta tra questi due apparenti estremi: vita e parola. 

Fabrizio Falconi