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12/10/23

"Il Cielo Sopra Berlino" riesce al cinema - Un sorprendente ricordo personale


Adesso che il film sta riuscendo nelle sale - nel bagliore del nuovo restauro - posso raccontare questo fatto davvero surreale, che mi accadde anni fa.

Come molti altri, io avevo amato smisuratamente quel film di Wenders, e Bruno Ganz (che ci ha lasciato qualche anno fa) era per me, come per molti altri, soprattutto il meraviglioso, malinconico angelo de "Il Cielo sopra Berlino" (The Wings of Desire), il film diretto da Wim Wenders nel 1987, vincitore come regista al Festival di Cannes di quell'anno, edizione che fra l'altro avevo seguito come giornalista accreditato.
Bene, parecchi anni dopo quel film (15 per l'esattezza) - che però avevo sempre in testa, compresi i dialoghi scritti da Peter Handke - una mattina d'inverno decisi di portare mio figlio a visitare Castel Sant'Angelo, qui a Roma.
Doveva essere il 2002, Matteo era dunque molto piccolo. La giornata era cupa, nuvolosa e con parecchio vento, con un cielo che sembrava più berlinese che romano.
Giungemmo sulla Terrazza superiore, quella dominata dal colossale angelo in bronzo che rinfodera la spada sul cielo di Roma, scolpito da Peter Anton von Verschaffelt nel 1753.


Quella mattina, sulla grande terrazza del Castello c'erano pochissimi turisti. Ad un tratto, sembrandomi davvero sulle prime il frutto di una allucinazione, scorsi, vicino al parapetto una figura di spalle, avvolta in un cappotto scuro, che sembrava piuttosto familiare.
Mi avvicinai di qualche passo e aspettai di vederlo meglio.
Con sconcerto mi accorsi che era proprio lui, era proprio Bruno Ganz, con i capelli raccolti da un elastico sulla nuca e il lungo cappotto scuro fino ai piedi. Per un momento pensai perfino che dovessero esserci le sue ali trasparenti, quelle che di cui era dotato nel film di Wenders, le ali dell'angelo, mentre si sporgeva sui tetti estremi di Berlino.
Era solo. Lo spiai per un po'. Sembrava assorto nei suoi pensieri. Più volte rivolse lo sguardo all'angelo enorme in bronzo che lo sovrastava. Rimase più di venti minuti, poi scomparve in fretta giù per le scale.
Non ho mai dimenticato quell'incontro, e ancora mi chiedo che cosa ci facesse lì, da solo, vestito proprio da angelo, come nel film.
Chissà, forse Bruno Ganz un po' angelo lo era veramente.
Forse non lo ha detto a nessuno. Forse in realtà non è nemmeno morto. Ma è volato da qualche parte senza dir niente a nessuno. Mistero. Comunque, posso dire, la più bella - e indimenticabile - "apparizione" della mia vita.

Fabrizio Falconi - 2023

25/09/22

La volta che Werner Herzog umiliò crudelmente il giovane Emmanuel Carrère

 


Tra le pagine del suo libro forse di maggior successo, Limonov, si scopre un interessante e amaro episodio che riguarda l'incontro dell'allora giovane autore, Emmanuel Carrère, con uno dei suoi idoli giovanili, il regista tedesco Werner Herzog. 

L'episodio merita di essere raccontato.

All'epoca, agli inizi della sua carriera letteraria, Carrère stava muovendo i suoi primi passi come critico cinematografico, su importanti riviste specializzate francesi. Il primo articolo esce nel ‘77.  

Carrère, profondo cinéphile, aveva tra i suoi idoli Tarkovskij, Kubrick, Resnais, Bob Rafelson, ma soprattutto Werner Herzog, a cui nell'82 dedicò uno studio monografico, che ancora oggi è in commercio. 

Al Festival di Cannes del 1982, dove Carrère è inviato a nome di una delle riviste con cui collabora all'epoca, gli capita l'occasione di conoscere da vicino Herzog, che si trova al Festival proprio per presentare, in concorso, Fitzcarraldo, il suo capolavoro. 

Così, prima dell'intervista, nella suite dell'Hotel Carlton, Carrère riesce a far recapitare una copia del volume che gli ha dedicato, da poco uscito, al regista tedesco. 

All'appuntamento, Herzog gli viene ad aprire la porta della camera con gli stivaloni da esploratore, e lo fa entrare ma senza degnarlo di un sorriso. Carrère, invece in profondo imbarazzo sorride e scopre con sollievo che il suo libro è proprio lì, in camera, sul piano del tavolino, al quale siederanno per l'intervista.

Carrère cerca di balbettare qualcosa, ma il regista – uomo notoriamente ispido – lo tratta a pesci in faccia, con gratuita crudeltà.

Lo ammonisce, con la sua voce profonda e "meravigliosa", che non ha letto il libro e che non ha intenzione di leggerlo; che si tratta, anzi, di Bullshit. Merda. E che quindi si sbrigasse con l'intervista che vuole fargli. 

Con l'ego sanguinante, lo spavaldo freelance ripiega traumatizzato. Oggi confessa: «Da allora non ho più rivisto Herzog. Dicono che col tempo sia diventato più umano. Anche se l'idea mi terrorizza, sarebbe bello incontrarlo di nuovo. Comunque trovo i suoi lavori successivi molto meno convincenti. Per questo, quando mi hanno chiesto una versione aggiornata del saggio, ho rifiutato». 

Roberto Manassero scrive su Doppiozero: La grandezza del libro, Limonov, è che "Carrère tratta il suo protagonista allo stesso modo di Herzog, cioè con sguardo severo e oggettivo, in virtù dell’ammirata fascinazione che prova per entrambi, sta nell’assoluta onestà intellettuale della scrittura, nella mancanza di rivendicazione soggettiva da parte dell’autore. Per cui Carrère non se la prende mai, non scrive per rivendicare ragioni o lamentare torti."

"Se definisce, come definisce, Herzog un «fascista», o meglio, se vede nell’egoismo superomista di Herzog il nocciolo del fascismo, ammettendo di non capire quali ragioni avesse per trattare in modo sgarbato un ragazzo magari valleitario ma pur sempre appassionato, Carrère usa la vita di un suo simile – di un suo simile che ammira e non capisce – come uno strumento per scandagliare se stesso."

....

"Carrère ha nei confronti del suo personaggio (Limonov, ndr) un rapporto di distanza e ammirazione, di invidia e insieme di disprezzo, e lo dice apertamente, non si nasconde, si butta dentro il suo lavoro con il peso ingombrante delle annotazioni sulla sua vita, e fa capire più di ogni altra cosa, dietro le agili e appassionanti rievocazioni storiche e biografiche, di scrivere soprattutto per se stesso, di scrivere e raccontare, così come per Herzog deve essere stato filmare o commentare immagini create da altri, per capire cosa unisce un essere umano moderato, intelligente e onesto come lo stesso Carrère, o come l’Herzog ormai invecchiato alle prese con la follia di Tradwell (nel suo film Grizzly man, ndr)  davanti all’esempio di una persona evidentemente fuori dal comune, un superuomo, come Carrère a un certo punto definisce sia Limonov sia Herzog, che di eroico e romantico non ha nulla, che anzi scivola spesso nel povero stronzo invidioso e convinto della propria superiorità, ma che sembra essere venuto al mondo per ricordare agli altri il peso delle loro scelte, i limiti delle regole sociali e dei contesti storici che condizionano ogni vita comune."

"Carrère scrive a un certo punto che se oggi Herzog si ricordasse del comportamento poco educato avuto nei suoi confronti, probabilmente si scuserebbe: e in effetti, a giudicare dal tono delle parole che usa alla fine di Grizzly Man, riflettendo sul valore della vita ridicola di Treadwell («E mentre guardiamo gli animali nella loro scelta di vivere, nella loro grazia e ferocia, un’idea si fa sempre più strada: queste immagini non sono tanto uno sguardo sulla natura quanto piuttosto su noi stessi, sulla nostra natura. Ed è questo che secondo me, al di là della sua missione, dà significato alla sua vita e alla sua morte»), viene da pensare, che sì, oggi Herzog si scuserebbe, perché nel dubbio spaventato con cui ammette di giudicare il suo personaggio si coglie la stessa onestà intellettuale che rende autentiche le pagine di Limonov. "

"E in questo, a nostro parere, si intravede uno dei segreti per cui ha pur sempre senso scrivere, filmare e raccontare il reale. Non per capirlo, ma per sentirlo meno alieno e meno distante."

Fabrizio Falconi - 2022 

12/07/22

"Kinski, il mio nemico più caro" - La follia, gli aneddoti, l'ossessione psicotica del suo attore feticcio raccontato in documentario bellissimo da Werner Herzog


"Kinski, il mio nemico più caro (Mein liebster Feind - Klaus Kinski)", è un atto d'amore, prima ancora che un documentario. Visibile su Chili al prezzo di noleggio di 1.99.

Werner Herzog lo ha realizzato nel 1999, otto anni dopo la morte di Klaus Kinski, avvenuta per infarto, a sessantacinque anni.
Come tutti sanno, Kinski divenne negli anni l'attore-feticcio di Herzog, che con lui protagonista realizzò i suoi film più celebrati: "Aguirre, furore di Dio (Aguirre, der Zorn Gottes)" (1972); Nosferatu, il principe della notte (Nosferatu: Phantom der Nacht) (1978); Woyzeck (1979); Fitzcarraldo (1982); Cobra Verde (1987).
Herzog conosceva Kinski da quando era piccolo e ne scoprì subito il lato pazzoide, aggressivo, incontrollabile.
Il documentario inizia infatti con la commovente visita di Herzog alla pensione - oggi completamente trasformata in un borghese bellissimo appartamento - a Monaco, in cui visse da bambino con la madre e la sorella, la stessa in cui un giorno capitò il già esagitato e giovane Klaus, aspirante attore, genio incompreso e difficilmente gestibile.
A partire da questo esordio, Herzog mette in scena, poeticamente, il rapporto nemico/amico che instaurò con Kinski nel corso degli anni. Herzog, per motivi dovuti probabilmente al suo carattere diametralmente opposto, divenne per molti anni l'unico in grado di gestire l'aggressività, l'insopportabilità di Kinski, i suoi leggendari colpi di testa durante le riprese dei film, i litigi furibondi, le minacce, che vengono ricostruiti nel documentario con le riprese originali, i backstage, vera ghiottoneria per gli amanti di cinema.
Nel corso dei 95 minuti, la pellicola suggerisce l'idea che Herzog fu capace - impresa non da poco - di convogliare l'energia bollente di Kinski, le sue intemperanze, ai fini creativi che perseguiva con i suoi film.
Era come se la dinamite di Klaus esplodesse al suo meglio incontrando la miccia di Herzog.
Le scene di Fitzcarraldo e di Aguirre parlano da sole, mostrando quanta follia creativa ci fosse nelle riprese, non solo tra i due ma nell'intero cast.
Herzog parla (anche) di Kinski con enorme affetto, come chi ne abbia compreso la profonda natura ostile (prima di tutto a se stesso) ma anche capace di di-mostrare grande umanità.
Il film è interamente girato nei luoghi dove furono ambientate le riprese dei più famosi film di Herzog, ed è perciò particolarmente suggestivo.
Herzog mantiene il suo punto di osservazione fisso sul Kinski-attore. Evita, prudentemente, di scendere sul versante privato. E fa bene. Probabilmente anche lui sarebbe stato a disagio a girare questo film in tempi più recenti, dopo il 2013. Quando una delle due figlie di Kinski, Pola (l'altra è la celebre Nastassja) dichiarò pubblicamente che suo padre, Klaus Kinski la violentò regolarmente da quando aveva 5 anni fino a quando ne ebbe 19.
Rivelazioni terribili che gettano una luce sinistra sull'uomo Kinski.
Il film è stato presentato fuori concorso al 52º Festival di Cannes.

Fabrizio Falconi - 2022

15/02/22

Il dramma di Nastassja Kinski, alle prese con un "padre-orco"

Klaus Kinski con la seconda moglie Brigitte Ruth Toki e la loro figlia Nastassja

Aveva pianto a lungo, ma poi aveva manifestato tutta la sua ammirazione e fierezza per il coraggio che sua sorella Pola aveva manifestato, nove anni fa, nel 2013, quando aveva dato alle stampe un libro sconvolgente - intitolato "Parole di bambini" -  in cui per la prima volta rivelava gli abusi sistematici subiti dal padre, il famoso attore Klaus Kinski. 

Intervenendo su 'Bild', Nastassja Kinski, icona cinematografica nei decenni '70, '80, '90 aveva detto a proposito delle rivelazioni nel libro della sorella: "Aiuteranno tutte le vittime della pedofilia. Sì, è un momento difficile per me - spiega - Io però sono con mia sorella, la sostengo. Sono profondamente sconvolta. Ma sono anche orgogliosa della forza che ha avuto nello scrivere un libro del genere. Conosco il contenuto. Ho letto le sue parole. E ho pianto a lungo...". 

"Bambini e adolescenti devono essere protetti:" aveva proseguito Nastassja, "devono sapere che ci può essere subito aiuto per loro, quando succede qualcosa di così raccapricciante. Un libro come quello di Pola aiuta tutti i bambini, i giovani, e le mamme che hanno paura del padre, e che mandano giù questa paura e la nascondono nell'anima". "Mia sorella è un'eroina", aggiunge, e così "ha liberato dal peso della segretezza il suo cuore, la sua anima e il suo futuro".

Klaus Kinski con la giovanissima Nastassja

"Queste cose succedono a bambini di tutto il mondo" aveva continuato, "ogni giorno. Più se ne sa, più si può essere di aiuto. Soltanto perché uno si chiama padre, non vuol dire che sia davvero un padre. L'orrore è successo, anche i padri fanno cose orribili". 

Ma cosa successe esattamente nell'infanzia e nella adolescenza di Pola e di Nastassja, figlie dell'attore tedesco morto nel 1991? 

Lo stesso Klaus Kinski aveva rivelato anni prima, in un libro di memorie, le sue perversioni: nel 1975 era infatti apparso in libreria un volume con uno strano titolo: "Sono così pazzo della tua bocca di fragola", che fu poi ritirato dal mercato nella sua edizione originale. 

Cosa scriveva? Kinski sosteneva di portare sua figlia di 3 anni in un bordello, raccontò "Bild". E scriveva: "Se la madre non vuole darmi mia figlia, io gliela strappo dalle braccia". 

Il tabloid ricordava anche che Kinski scriveva di "aver violentato una quindicenne", e di aver alzato il volume dela tv per non farne sentire le urla. 

Nel 1985, a 59 anni, si lamentò pubblicamente del fatto di non poter fare del sesso, legale, con minorenni: "Da noi si va in prigione, in altri paesi si sposano..."

D'altronde i traumi vissuti dalla giovane Nastassja, dovettero avere conseguenze, se è vero che, quando aveva appena 15 anni, e in altri tempi molto lontani dal me too, fece molto parlare una sua relazione con l'allora quarantaduenne Roman Polanski. 

Nastassja, figlia della seconda moglie di Kinski, Brigitte Ruth Tocki, non ha mai voluto rivelare se fosse mai stata a conoscenza delle molestie nei confronti di Pola, la sorellastra, nata dal primo matrimonio della star di “Aguirre, furore di Dio” (1972), con la cantante Gislinde Kuehbeck, e non ha voluto nemmeno mai scendere nei particolari della sua relazione con il padre. 

Ancora Nastassja adolescente, con il padre Klaus 

La settantenne Pola, anche lei attrice, ha raccontato invece senza mezzi termini, che Kinski l’ha violentata regolarmente da quando aveva 5 anni fino ai 19. 

Le sorelle hanno un altro fratellastro, Nikolai, 36 anni. “Lo faceva anche se mi difendevo, come succedeva spesso, o dicevo di non volere: per lui era uguale”, ha ricordato la primogenita.

Bild ha pubblicato anche alcuni estratti delle memorie di Klaus Kinski,  del 1975, in cui l'attore raccontava la sua attrazione per le giovani donne. 

Nel testo racconta di avere portato Pola con sé durante una visita in un bordello, quando aveva appena tre anni, e, in un altro passaggio, afferma di avere tolto la verginità di una minorenne alla presenza della sua sorella 17enne. Inoltre, raccontò che da adolescente era stato a letto con la sorella più piccola Inge. 

Insomma, una vita davvero difficile per Nastassja, che del resto l'allora bellissima attrice portava scritta negli occhi e nel suo malinconico sorriso.

Fabrizio Falconi - 2022


07/02/22

Sam Shepard e Wim Wenders, i dialoghi dettati al telefono: come nacque il capolavoro di "Paris, Texas"



Come sanno tutti quelli che hanno amato e amano Paris, Texas, capolavoro di Wim Wenders, che uscì nel 1984 e vinse in quell'anno la Palma d'Oro al Festival di Cannes, quest'opera si caratterizza, fra le altre cose, per essere quasi del tutto priva di dialoghi. 

Come nacque la magia del film?

Sicuramente tutto risale alla straordinaria amicizia tra Wenders e Sam Shepard, che ci ha lasciato purtroppo il 27 luglio del 2017.

Wim Wenders aveva viaggiato all'epoca a lungo negli Stati Uniti e aveva dichiarato di voler "raccontare una storia sull'America". Il film prese il nome dalla città texana di Paris, ma in realtà non vi fu  ambientata lì nessuna scena. 

Già all'inizio della sua carriera Wenders aveva scattato molte fotografie durante la ricerca di luoghi negli Stati Uniti occidentali, ritraendo luoghi come Las Vegas e Corpus Christi, in Texas . 

Sam Shepard aveva già ha incontrato Wenders per discutere della scrittura e/o della recitazione per il progetto Hammett (diventato poi il film L'amico americano) di Wenders, ma si disse non interessato a scrivere di Hammett.  

I due presero però in considerazione l'idea di adattare vagamente una novella scritta da Shepard, Motel Chronicles e iniziarono a sviluppare insieme una storia di fratelli, uno dei quali ha perso la memoria. 

La loro sceneggiatura crebbe fino a 160 pagine, poiché il rapporto fratello-fratello diminuì di importanza e furono presi in considerazione numerosi finali. 

Il film fu girato in sole quattro o cinque settimane, con solo un piccolo gruppo al lavoro nelle ultime settimane, e la realizzazione fu molto breve e veloce. Ci fu però un'interruzione alla fine delle riprese, durante la quale la sceneggiatura fu poi completata. 

Il film segnava la prima volta che Wenders evitava completamente lo storyboard,  andando direttamente alle prove, sul posto, prima delle riprese. 

Le riprese iniziarono nel 1983 quando la sceneggiatura era ancora incompleta, con l'obiettivo di girare secondo l'ordine della storia. Shepard pianificò di basare il resto della storia sulle osservazioni degli attori e sulla loro comprensione dei personaggi

A causa di continui rinvii per la difficoltà nel reperire i fondi necessari per la produzione Sam Shepard si ritrovò impegnato a lavorare a un altro film quando Paris, Texas raggiunse il punto in cui la sceneggiatura finiva. Wim Wenders fu aiutato da Kit Carson, che era sempre presente sul set essendo il padre di Hunter Carson, il bambino del film, per alcune scene. 

In seguito Wenders spedì ciò che aveva scritto a Sam Shepard, che a sua volta dettò per telefono al regista i dialoghi tra Harry Dean Stanton e Nastassja Kinski delle due scene madri del film, che si svolgono all'interno della cabina del peep-show, e che rappresentano il vero acme del film. 

Wenders e i suoi collaboratori, decisero di non ritrarre un peep show realistico, poiché avevano bisogno di un formato che consentisse una maggiore comunicazione tra i personaggi. 

Kinski non poteva vedere nessuno, solo uno specchio, nelle scene del peep show, e dopo la fine delle riprese ha confessato che questo creava una vera sensazione di solitudine.

Le sfide sono emerse quando il film ha esaurito le finanze, ma Wenders si è sentito sollevato quando  ha completato la scena con la Kinski, osservando: "mi sono reso conto che avremmo toccato le persone in grande stile. Ero un po' spaventato dall'idea".

Era la percezione di essere riuscito - grazie all'aiuto fondamentale di Sam Shepard - a portare a compimento il suo film, poeticamente e creativamente, con quell'ultima lunga scena entrata, con ogni merito, nella storia del cinema. 

Fabrizio Falconi - 2022

27/03/21

Wim Wenders - "Non riuscire ad aiutare qualcuno che ami è la cosa più triste che possa accadere nella vita"



Wim Wenders - "Non riuscire ad aiutare qualcuno che ami è la cosa più triste che possa accadere nella vita" 


di Matteo Persivale


fonte: Corriere della Sera, Venerdì 4 dicembre 2015


Il regista de "Il cielo sopra Berlino" e la storia d'amore con Solveig, la trapezista del film. "Quando cadde dissi a me stesso: basta, le riprese finiscono qui. Ma lei non aveva paura di niente e mi stupì."

"Quasi tutti i miei film, a parte due o tre forse - che non sono poi così belli - sono ambientati in luogo preciso perché le storie che raccontano potevano succedere soltanto là. Ci sono registi che partono dallo stile, altri dai personaggi: io parto sempre dal posto in cui succederà l'azione."

Il cinema ha i suoi poeti e i suoi filosofi: in Wim Wenders ha trovato il suo geografo. Eppure il film più famoso del cineasta tedesco, "Il cielo sopra Berlino" (1987), racconta in bianco e nero le vite degli angeli della città che vegliano sulla città divisa dal Muro che sta per cadere, e anche se non poteva non essere ambientato a Berlino si regge non sulla città ma su uno sguardo, e su un sorriso. Il cuore di quel film batte grazie a Solveig Dommartin. trapezista di un circo piccolo e male in arnese. Un angelo, Bruno Ganz, si innamora, e per lei decide di diventare umano.

Dommartin è stata una delle donne più importanti della vita del regista - che ha avuto cinque mogli - anche se non sono mai stati sposati durante la loro lunga storia d'amore tra gli anni '80 e i primi anni '90. Lei era al suo fianco durante le riprese di "Tokyo-Ga" - di quel film curò il montaggio - e di tre film è stata musa, protagonista e di fatto coautrice: "Il cielo sopra Berlino", "Così lontano, così vicino" e "Fino alla fine del mondo".

La trapezista dal sorriso così dolce da far perdere le ali agli angeli non c'è più, scomparsa nel 2007 per un male improvviso e Wenders - gentilissimo ma altrettanto riservato - non ha mai parlato della sua morte. Ha fatto una eccezione, a sorpresa, in questa intervista con un monologo emozionante, pronunciato a fatica, con la voce molto basso e lo sguardo fisso su un punto indefinito della parete della sua grande stanza d'albergo milanese. Parlando piano. Con tristezza - e tenerezza - infinite. 

La storia mai raccontata

"Solveig non aveva mai paura di niente. E' la parola che la descrive meglio di tutte: era senza paura. Una volta avevamo appena cominciato le riprese di "Il cielo sopra Berlino", cadde da quel maledetto trapezio, cadde per terra in punto dove non c'erano protezioni, da sei metri di altezza. A volte vedi succedere qualcosa - un incidente d'auto per esempio - e le immagini rallentano tanto quanto i tuoi pensieri diventano veloci. Non aveva ancora toccato terra che avevo già pensato: basta è la fine del film, anche se per caso non è rimasta ferita, il film finisce qui. Niente "Cielo sopra Berlino".  Sul set restiamo tutti paralizzati: lei è ancora a terra. Corriamo tutti da lei. Ecco un medico. Qualcuno chiama un'ambulanza. Ma Solveig si alza, piano, si appoggia al braccio del suo istruttore, un ungherese, un acrobata del circo molto esperto che in tre mesi gli aveva insegnato tutto, torna sulla scaletta, sale, riprende la scena daccapo. "Devi tornare subito su, altrimenti la paura ti paralizza", mi dice l'ungherese. E lei è già lassù. Devo dare di nuovo il ciak. Ecco: era senza paura.

Non ha avuto paura neanche alla fine; eravamo rimasti sempre in contatto, anche dopo la fine della nostra storia. Sono stato con lei fino alla fine, quando nessuno poteva più aiutarla. Sono già passati..  dieci anni? (otto ndr.) . E' una delle cose più tristi che ti succedono nella vita, non poter aiutare qualcuno che ami. Una cosa terribile succede davanti ai tuoi occhi e non puoi fare niente.

Fu spaventoso vederla deteriorarsi così velocemente, lei così piena di vita. Per lei ogni giorno era una festa. Solo lei poteva convincere il pubblico che un angelo avrebbe rinunciato a volare per darle una carezza. E alla fine vedere lei, sempre piena di energia, di sorrisi, perdere tutto... 

Abbiamo fatto tre film insieme: alla fine la stampa le fece molto male, a Cannes ricevette per "Fino alla fine del mondo" delle pessime recensioni, fu trattata selvaggiamente dai critici francesi. Portai il film a Cannes in una versione sbagliata, almeno adesso qualcuno può vederlo in dvd nella versione in cui era stato pensato da me e Solveig, può vedere quanto era brava, quanto era speciale. Ma nella versione di Cannes, Solveig era troppo esposta, c'era troppo peso sulle sue spalle. E ha sofferto per quelle recensioni che le rovinarono la carriera. Non sono riuscito a proteggerla allora, e non sono riuscito a proteggerla quando si ammalò. E' un pensiero che non mi abbandonerà mai."

Il "Cielo sopra Berlino" è dedicato "a tre angeli del cinema, Yasuijr (Ozo ndr), Francois (Truffaut ndr) e Andrej (Tarkovskij ndr), tre eroi di Wenders. Non c'è bisogno di aggiungere un'altra dedica, a Solveig, non c'è bisogno di nostalgia: "Semplicemente quel film non esisterebbe nemmeno, senza di lei". 

Solveig Dommartin in "Il Cielo sopra Berlino" di Wim Wenders, 1987

09/12/19

100 film da salvare alla fine del mondo: 48. L'enigma di Kaspar Hauser (Jeder für sich und Gott gegen alle) di Werner Herzog (1974)


Questo blog dedica, ad appuntamenti fissi - ogni lunedì e ogni venerdì - un catalogo personale dei miei 100 film da salvare "alla fine del mondo".  Non saranno ovviamente vere e proprie recensioni, ma un piccolo campionario degli affetti per queste opere che hanno segnato epoche e vite di molti, se non di tutti. 

100 film da salvare alla fine del mondo: 48. L'enigma di Kaspar Hauser (Jeder für sich und Gott gegen alle) di Werner Herzog (1974)


Werner Herzog realizzò il suo capolavoro giovanile nel 1974, quando aveva trentadue anni,  ispirando insieme a Wim Wenders, Rainer Werner Fassbinder, Margaretha von Trotta e altri, quella che fu definita la Nouvelle Vague tedesca degli anni '70. 

Per questo film, l'eccentrico e geniale regista si ispirò alle vicende reali di Kaspar Hauser, che visse durante il XIX secolo, i primi diciassette anni della sua vita incatenato in una piccola cantina con solo un cavallo giocattolo per occupare il suo tempo, privo di ogni contatto umano tranne un uomo, che indossava un soprabito nero e un cappello a cilindro, che lo nutriva e lo curava, picchiandolo spesso. 

Un giorno, nel 1828, lo stesso uomo porta Hauser fuori dalla sua cella, gli insegna alcune frasi e come camminare, prima di lasciarlo nella città di Norimberga . 

Hauser diventa così oggetto di molta curiosità ed è esposto in un circo prima di essere salvato dal professor Georg Friedrich Daumer, che tenta pazientemente di trasformarlo. 

Hauser impara presto a leggere e scrivere e sviluppa approcci non ortodossi alla logica e alla religione; ma la musica è ciò che gli piace di più. Attira l'attenzione di accademici, clero e nobiltà. Subisce quindi una imboscata dallo stesso uomo sconosciuto che lo ha portato a Norimberga. 

L'attacco lo lascia privo di sensi con una testa sanguinante. 

Recupera, ma viene nuovamente misteriosamente attaccato e questa volta, pugnalato al petto. 

Hauser riposa nel letto descrivendo bizzarre visioni che ha avuto dei berberi nomadi nel deserto del Sahara, e poi muore.

L'autopsia dimostrerà che Kaspar Hauser aveva realmente delle anomalie cerebrali, mettendo così a tacere i dubbi dei borghesi turbati dalla sua candida innocenza e trovando, in tal modo, una qualche spiegazione all'enigma.

Un film dallo splendido rigore formale, che affascina e inquieta ancora oggi, anche per la scelta del protagonista: Bruno S., all'anagrafe Bruno Schleinstein (Berlino, 2 giugno 1932 – Berlino, 10 agosto 2010), che era realmente il figlio illegittimo di una prostituta, maltrattato da bambino, e che trascorse gran parte della sua infanzia tra orfanotrofi, istituti di correzione e carceri.

Ottimo pittore e musicista autodidatta, abile nel suonare la fisarmonica e il pianoforte, è stato costretto a lavorare nelle fabbriche, come manovratore di carrello elevatore, mentre il fine settimana si esibiva come musicista di strada eseguendo ballate nei giardini e nei cortili, finché non fu scoperto da Herzog che gli affidò il ruolo di protagonista anche del film successivo, La ballata di Stroszek (1976).


L'Enigma di Kaspar Hauser
(Jeder fur sich und Gott gegen alle)
Germania 1974 
Durata 106 min 
Regia Werner Herzog 
Interpreti e personaggiBruno S.: Kaspar HauserWalter Ladengast: professor DaumerBrigitte Mira: KatheWilly Semmelrogge: direttore del circo


05/07/19

100 film da salvare alla fine del mondo: 33. "Metropolis" di Fritz Lang (1926)



Questo blog dedica, ad appuntamenti fissi - ogni lunedì e ogni venerdì - un catalogo personale dei miei 100 film da salvare "alla fine del mondo".  Non saranno ovviamente vere e proprie recensioni, ma un piccolo campionario degli affetti per queste opere che hanno segnato epoche e vite di molti, se non di tutti. 

100 film da salvare alla fine del mondo: 33. "Metropolis" di Fritz Lang (1926)

Pochi altri film nella storia del cinema hanno influenzato tutto ciò che è venuto dopo, come il capolavoro distopico-kolossal diretto da Fritz Lang nel 1926.


Le immagini del film ispirano da decenni il mondo del cinema, della pubblicità e della musica.  E tanto per citare qualche nome, il Ridley Scott di Blade Runner, il George Lucas di Star Wars o il Terry Gilliam di Brazil sono enormemente debitori al capolavoro tedesco.

L'idea di Metropolis venne a Fritz Lang ammirando lo skyline notturno di New York dal transatlantico con il quale aveva raggiunto gli Stati Uniti qualche anno prima, per la messa in scena del suo I Nibelunghi.

Metropolis venne realizzato dalla casa di produzione tedesca UFA e dal produttore Erich Pommer con una ricchezza di mezzi assolutamente incredibile, con ben diciannove mesi di riprese e un totale di 310 giorni e 60 notti di riprese, 600.000 metri di pellicola impressionata, 36.000 comparse tra uomini, donne e bambini per un costo totale di 50 milioni di marchi tedeschi dell'epoca (che provocò la bancarotta della UFA, la quale fu rilevata dell'editore Hugenberg, membro del partito nazista, che la trasformò nella fabbrica di consenso del Regime.

Metropolis è un film modernissimo e visionario, rappresentando la società della megalopoli Metropolis, che nel 2026 (ci siamo quasi arrivati!) è spaccata in due: vicini al cielo, in vetta ai loro immensi grattacieli, gli aristocratici godono di un'esistenza felice, immersi nel lusso; mentre nelle tenebre delle sconfinate catacombe sotterranee, all'ombra di mostruose macchine che ne dispongono l'esistenza quotidiana, gli operai vivono e lavorano come formiche secondo ritmi ossessivi e disumani.

Per stroncare la ribellione degli operai, il supermagnate Fredersen ordina allo scienziato-mago Rotwang di costruire un robot-femmina che, assunta l'identità della dolce operaia Maria, seduca le masse di lavoratori e le inciti alla rivolta, offrendo così alla classe dominante l'alibi per reprimere una volta per tutte ogni ribellione.

Ma la situazione sfugge ad ogni controllo e a salvare Metropolis saranno proprio il cuore della vera Maria e del suo innamorato, il figlio di Fredersen.

Una parabola definitiva sul potere e le masse, che ha segnato la storia del Novecento e continua a gravitare con i suoi potenti simboli anche sulla contemporaneità. 

Metropolis 
di Fritz Lang
Germania, 1926
durata da 80 minuti a 200 minuti a seconda delle diverse versioni
con Alfred Abel

notizie tratte da "Un secolo di grande cinema", "Il grande cinema di Ciak", vol.II  Milano, Aprile 2000




13/05/19

100 film da salvare alla fine del mondo: 20. Il cielo sopra Berlino (Der Himmel über Berlin) di Wim Wenders (1987)


Questo blog dedica, ad appuntamenti fissi - ogni lunedì e ogni venerdì - un catalogo personale dei miei 100 film da salvare "alla fine del mondo".  Non saranno ovviamente vere e proprie recensioni, ma un piccolo campionario degli affetti per queste opere che hanno segnato epoche e vite di molti, se non di tutti. 

100 film da salvare alla fine del mondo: 20. Il cielo sopra Berlino (Der Himmel über Berlin) di Wim Wenders (1987)


Nella sua piena maturità artistica, e dopo aver già collezionato almeno 5 film fondamentali per la storia del cinema europeo, e non soltanto europeo,  Wim Wenders realizzò Der Himmel über Berlin avvalendosi nuovamente della stretta collaborazione di Peter Handke, il quale scrisse monologhi e dialoghi del film in progress, mentre il film veniva girato (esistono numerosi aneddoti in proposito).

Quel che ne risultò fu una poetica favola metropolitana, dai valori universali.

La storia del film è quella dell'amore di Damiel per un'acrobata circense.  Dalla fine della seconda guerra mondiale, si immagina, Damiel e Cassiel sono gli angeli vigilanti della città di Berlino, sorvegliando e accudendo i pensieri più intimi della gente.

Nelle pause di lavoro, gli angeli s’incontrano alla biblioteca di Stato, dove Omero, il più anziano di tutti, racconta il passato della città e delle sventure che l’hanno afflitta durante la seconda guerra mondiale. 

Gli angeli, con sottile riferimento teologico, possono essere visti soltanto dai bambini, mentre gli adulti non hanno di loro la benché minima percezione. Viceversa, gli angeli vedono il mondo ma senza poterne cogliere gli aspetti più mondani (la loro vista infatti è in bianco e nero). 

Damiel segue, idealmente innamorato, soprattutto Marion, anche lei sorta di angelo, perché lavora come trapezista di un circo che sta per chiudere per mancanza di spettatori. 

Le domande di Marion intercettano le ansie e i dubbi della contemporaneità: il passaggio inesorabile del tempo, l'annullamento dello spazio perpetrato dalla civiltà moderna ha invertito questo rapporto, ed è così che la dimensione del viaggio è stata annullata. Il problema dell'anima e della identità, e quello del male, che grava sempre sull'uomo. 

A Berlino inoltre si girano le riprese di un film giallo ambientato durante la seconda guerra mondiale che ha come protagonista Peter Falk, il “tenente Colombo” di una serie televisiva di sceneggiati polizieschi di grande successo. 

Anche lui, si scoprirà, un angelo decaduto dalla propria condizione che è diventato un essere mortale.  Il quale, nelle sue vesti "umane"  convincerà Damiel a incarnarsi, per amore di Marion. 

Precipitato nella condizione umana, Damiel si ritrova accanto al muro che divide in due la città e vede improvvisamente i colori del mondo, provando tutte le sensazioni degli esseri mortali: quelle piacevoli e quelle spiacevoli. 

E' proprio in questa commistione tra umano e angelico, tra uomo e oltre-uomo che il film gioca le sue suggestioni filosofico-poetiche, da Dante ad Heidegger. 

Un film insomma, che si respira come una profonda riflessione sulla condizione umana, ma che vola alto sulle ali della poesia, nel meraviglioso bianco e nero di Henri Alekan.

L'opera di Wenders, tra i mille premi in tutto il mondo, conquistò la Palma d'Oro al Festival di Cannes del 1987.

IL CIELO SOPRA BERLINO 
(Der Himmel über Berlin) 
Germania, Francia, 1987, 
Regia Wim Wenders 
durata: 128 minuti
con Bruno Ganz, Solveig Dommartin, Peter Falk, Otto Sander, Curt Bois 

14/11/18

Libro del Giorno: "Una volta" di Wim Wenders.



Più che un libro, un oggetto d'arte, questo pubblicato a suo tempo dalle benemerite Edizioni Socrates di Roma.

Si tratta di un magnifico libro fotografico pubblicato da Wim Wenders prima in Germania nel 1993 e poi subito tradotto in Italia, al tempo in cui il regista tedesco era fresco reduce dall'aver girato alcuni dei suoi più noti capolavori, Lo Stato delle Cose (1982), Paris, Texas (1984), Il cielo sopra Berlino (Der Himmel über Berlin), (1987), Fino alla fine del mondo (Bis ans Ende der Welt) (1991) Così Lontano così vicino (In weiter Ferne, so nah!) (1993), e Lisbon Story (1994). 

Una volta è dunque tutto questo: diario di riprese e di sopralluoghi per i set dei suoi film, taccuino di viaggio ("viaggiare è la cosa al mondo che mi piace di più", dichiara lo stesso Wenders nella intervista finale), sperimentazione fotografica (molte delle foto del volume sono state prese da Wenders con polaroid), narrazione (ognuna delle foto o delle serie fotografiche, infatti viene preceduta da un testo che comincia con le parole "una volta"...).

Naturalmente sono protagonisti i paesaggi estremi e desolati così tanto amati da Wenders, che sono al centro dei suoi film (il deserto Australiano e Ayers Rock, messi poi al centro di "Così lontano, così vicino"; la costa portoghese, utilizzata come set per "Lo stato delle cose"; le strade di Lisbona, protagoniste di "Lisbon story", le case in bianco e nero e i quartieri di Berlino, che fanno da sfondo a "Il cielo sopra Berlino"; le lande dell'America più profonda, utilizzate come ambientazione della perdizione di Travis, il protagonista di "Paris, Texas").

Insomma, un lungo viaggio affascinante tra volti di gente perduta, incontrata fugacemente in viaggio e paesaggi fortemente evocativi. 

Impreziosiscono il volume una bellissima introduzione dello scrittore  Daniele Del Giudice (di quanto si sente la sua mancanza oggi) e una lunga intervista finale a Wenders realizzata da Leonetta Bentivoglio, firma de La Repubblica, in cui il grande regista tedesco espone la sua visione del cinema, del lavoro, dell'amore, della vita. 


27/05/17

Wenders: "In ogni sguardo che incroci c'è Dio."



"Rivolgersi al lavoro, al mondo e, in particolare, agli 'altri' e' diverso quando credi di essere guardato da un Dio che ti ama; quando quel Dio manifesta se stesso (o se stessa) in ogni volto umano, in ogni sguardo che incroci". 

Wim Wenders, regista tedesco, tra i piu' noti al mondo intervistato durante il Festival di Cannes, racconta il suo approccio personale e artistico alla spiritualita'. 

Spiega di aver compreso "il fatto che la fede potesse influenzarti come artista" quando, nel 1987, "ho aderito al progetto di un film poetico, totalmente improvvisato, quale 'Il cielo sopra Berlino'. È la storia di due angeli custodi che tengono d'occhio i propri protege's nella citta' di Berlino. Quando mi sono accorto che il compito piu' importante del film era cercare di rendere, di declinare, 'the Angel's gaze at people', lo sguardo degli angeli sulle persone, ma anche di mostrare come gli angeli ci vedono, questo mi ha fatto comprendere che tale opera ha avuto un altro effetto in me, mai sperimentato prima"

Aggiunge Wenders: "Il cinema in verità e' capace di farci guardare il mondo in maniera differente, di rivelarci realmente che uno sguardo di tenerezza e' di fatto possibile".  In particolar modo 'Il cielo sopra Berlino' "non solo ha schiuso dinanzi a noi il mondo visibile, ma ci ha permesso di cogliere dei frammenti di quello invisibile, di quello celeste. Col senno di poi, dunque, e' sembrato come se gli angeli che ho ricercato ed evocato nel film mi avessero concesso una grande lezione sull'atto del vedere".

03/07/15

Il dialogo tra due angeli - Il cielo sopra Berlino.





Cassiel: Alla fermata Zoo del metrò, un impiegato, invece di dire il nome della stazione, improvvisamente ha gridato: "Terra del Fuoco".

Damiel: Bello.

Cassiel: Sulle colline, un vecchio leggeva l'Odissea a un bambino, e il piccolo uditore smise di socchiudere gli occhi. E tu cos'hai da raccontare?

Damiel: Una passante, che sotto la pioggia chiuse di colpo l'ombrello, lasciandosi bagnare tutta. Ah, ecco: uno scolaro, che descriveva al suo maestro come una felce nasce dalla terra. Ha fatto stupire il maestro. Una cieca, che quando si accorse di me si mise a tastare l'orologio. Sì, è magnifico vivere di solo spirito e giorno dopo giorno testimoniare alla gente, per l'eternità, soltato ciò che è spirituale. Ma a volte la mia eterna esistenza spirituale mi pesa, e allora non vorrei più fluttuare così in eterno, vorrei sentire un peso dentro di me, che mi levi quest'infinitezza, legandomi in qualche modo alla terra. A ogni passo, a ogni colpo di vento, vorrei poter dire: "ora", "ora" e "ora". E non più: "da sempre", "in eterno". Per esempio, non so: sedersi al tavolo da gioco ed essere salutato, anche solo con un cenno. Ogni volta che noi abbiamo fatto qualcosa, era solo per finta.


Il dialogo tra i due angeli Damiel e Cassiel tratto da Wings of Desire, Il cielo sopra Berlino (1987) di Wim Wenders, dialoghi di Peter Handke.

27/09/11

La menzogna di una storia - Le recensioni di Wim Wenders critico. di F. Falconi


Chissà cosa direbbe oggi Wim Wenders a proposito di una frase che Hitchcock usava spesso per spiegare il suo modo di intendere il cinema. "L'essenziale è commuovere il pubblico", diceva il grande Hitch "e l'emozione nasce dal modo in cui si costruisce una storia, dal modo in cui si giustappongono le sequenze."

Oggi che il regista di Dusseldorf sta per doppiare il traguardo dei quarantacinque anni e molti dei suoi bellicosi giudizi giovanili sul "cinema dei maestri" sono stati rivisti, rimeditati, in qualche modo adattati ad una crescita artistica che ha portato Wenders stesso, appunto, nell'olimpo dei grandi.

Non che Hitchcock fosse stato un bersaglio privilegiato dei lapidari libelli che il ventiquattrenne Wenders pubblicava su Filmkritik, la più prestigiosa rivista  cinematografica tedesca, equivalente dei francesi Cahiers, ma certo il Wenders di allora avrebbe avuto qualcosa da ridire a proposito di quel riferimento "all'emozione che nasce dalla storia", a cui si richiama esplicitamente Hitchcock. E' noto infatti come l'atteggiamento peculiare  dell'intera generazione del Filmverlag der Autoren, la società autonoma di distribuzione e produzione dalla quale prese le mosse tutto il nuovo cinema tedesco, fosse ostile al concetto tradizionale di "storia" e proponesse invece nuovi modelli basati sull'abbattimento dell'intreccio narrativo.

A fornire nuovi lumi sull'attività critica di Wenders e sui temi fondamentali del suo cinema, ecco un volume (W.Wenders, "Stanotte vorrei parlare con l'angelo", Scritti, 1968/1988 a cura di Giovanni Spagnoletti e Michael Totemberg, Ubulibri) pubblicato con successo in Germania e Francia.

L'autore de Lo stato delle cose entrò a far parte della redazione di Filmkritik nel 1969, quando il mondo aveva conti urgenti da sbrigare e il cinema, quello che aveva cose da dire, era tutto "stelle e strisce". Ovvio dunque che nel libro, nella raccolta delle personalissime recensioni del futuro cineasta ci siano molti passaggi obbligati dell'epoca: l'esaltazione dell'underground, anche se Wenders si dimostra già abile nel saper discernere lo sperimentalismo dall'accademia; la fascinazione dell'on the road, esplicitata nella recensione di Easy Rider e nel plauso al suo eroe, Dennis Hopper che qualche anno dopo ritroverà Wenders ne L'amico americano; la stroncatura d'obbligo per lo spaghetti-western di Leone, accusato di vetero-realismo sacrilego, nei confronti del meraviglioso circo di cartapesta di John Ford e Howard Hawks.

Ma non mancano le sorprese in questa antologia del Wenders critico, esperienza peraltro brevissima, durata solo due anni, prima che nel '70 il giovane Wim passasse dietro la macchina da presa.

Sorprese che derivano soprattutto dal "modulo" della recensione che scavalcando i canoni classici, è qui tutta giocata sui toni e sulle pure emozioni, con infiltrazioni continue di rock'n roll e di citazioni poetiche studiate ad arte per spezzare anche, se possibile, la "storia" di una recensione.


Ma considerazioni inattese e sorprendenti arrivano specialmente nella seconda parte del libro, dove sono raccolti scritti eterogenei di Wenders, pescati un po' ovunque. Così si ha modo di scoprire l'entusiasmo del cineasta per i suoi colleghi Truffaut (Il ragazzo selvaggio), Altman (Nashville), fino ai maestri indiscussi Langa e Bergman che alla fine trovano pagine di vero tributo, di sincero riconoscimento. Rimane semmai nell'ombra, volutamente non illuminato, il rapporto con Fassbinder, grande amico-anniversario.

Nei capitoli conclusivi del libro il Wenders cineasta ricostruisce in lunghi scritti il suo metodo di lavoro basato su un originale e sofferto work in progress.  Illuminante in tal senso è la descrizione minuziosa della vicenda creativa de Il cielo sopra Berlino, un film nato da un'intuizione, niente di più che un'emozione, quella di rivedere la scena di un precedente film, Paris Texas, dove Nastassja Kinski ritrova il figlio e lo abbraccia nella camera d'albergo.  "Questo momento ha avuto su di me un effetto liberatorio," scrive Wenders, "era un'emozione di cui avrei sentito le conseguenze nel film successivo."

E così si procede: con l'accumulo di piccole sensazioni, con il "confronto sul niente" con Peter Handke, l'enfant terrible della letteratura tedesca, che manda al regista i suoi dialoghi scritti di getto, scollegati volutamente da una storia, frutto di rapide intuizioni.

Fino a che il film lentamente prende forma, si concretizza in uno svolgimento che assomiglia innegabilmente a una "storia".  L'abdicazione ad uno sviluppo narrativo diviene inevitabile.

"Ritengo che le storie producano soltanto menzogne" scrive Wenders in un passo del libro, " e la menzogna più grande è che ci sia un contesto. Ma d'altra parte noi tutti abbiamo bisogno di queste menzogne e non ha nemmeno senso costruire una successione di immagini senza una menzogna, senza la menzogna di una storia."

Fabrizio Falconi, La menzogna di una storia - le recensioni di Wim Wenders critico, Paese Sera, 6 settembre 1989.