Visualizzazione post con etichetta cinema svedese. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta cinema svedese. Mostra tutti i post

31/03/20

100 film da salvare alla fine del mondo: 59: La mia vita a quattro zampe (Mitt liv som hund) di Lasse Hallström, Svezia, (1985)


Questo blog dedica, ad appuntamenti fissi - ogni lunedì - un catalogo personale dei miei 100 film da salvare "alla fine del mondo". Non saranno ovviamente vere e proprie recensioni, ma un piccolo campionario degli affetti per queste opere che hanno segnato epoche e vite di molti, se non di tutti. 

100 film da salvare alla fine del mondo: 59: La mia vita a quattro zampe (Mitt liv som hund) di Lasse Hallström, Svezia, (1985) 


Io vivo nella possibilità scriveva quasi due secoli fa Emily Dickinson. 

Ci sono due modi di vivere. 

Quello del sentirsi intero a se stesso, di calcolare la possibilità solo come opportunità, e quello del sentirsi realmente e concretamente aperto al mondo, di vivere cioè la possibilità in quanto tale. 

Possibilità è attraversamento del mondo. Con le sue paludi, le sue zone d'ombra, i suoi territori pericolosi, le sue estasi. 

Non è necessario viaggiare, non è necessario esplorare.  E' necessario aprire il cuore. 
Una operazione niente affatto semplice, niente affatto banale.

E' quello che è chiamato a fare il piccolo Ingemar ne La mia vita a quattro zampe (purtroppo titolo italiano infelicissimo, bruttissimo), di Lasse Hallstrom, Golden Globe per il miglior film straniero nel 1988, quando rimane tristemente orfano.  Il quale avrebbe ogni giustificazione per chiudere, barricare il suo cuore e non desiderare più alcuna possibilità. 

Invece Ingemar imparerà a vivere, nonostante tutto. L'istinto di vivere è più forte in lui del dolore e del lutto e della pesantezza apparentemente insostenibile della vita. 

Io vivo nella possibilità. 

E se io non fossi questo, non sarei nemmeno vivo.  E' questa la grande lezione di un film stilisticamente impeccabile. Da vedere e rivedere.


06/01/20

100 film da salvare alla fine del mondo: 51. Il posto delle fragole (Smultronstället), di Ingmar Bergman (1957)



Questo blog dedica, ad appuntamenti fissi - ogni lunedì - un catalogo personale dei miei 100 film da salvare "alla fine del mondo".  Non saranno ovviamente vere e proprie recensioni, ma un piccolo campionario degli affetti per queste opere che hanno segnato epoche e vite di molti, se non di tutti. 

100 film da salvare alla fine del mondo: 51. Il posto delle fragole (Smultronstället), di Ingmar Bergman (1957)


Ingmar Bergman aveva 39 anni quando realizzò Il posto delle fragole, da molti ritenuto uno dei suoi più grandi capolavori, oltre a essere il lavoro che lo portò al definitivo successo internazionale.

E sembra incredibile ancora oggi che un'opera di così tale complessità, di così profonda meditazione riguardo alla vita e alla sua relazione con la morte, con il senso della vita, alla luce dei passi falsi della memoria, dei consuntivi, della malinconia che ogni uomo deve scontare con il passato degli anni (e anche con la relativa gioia e/o consapevolezza) sia stata concepita e realizzata da un uomo che non aveva ancora compiuto i quaranta anni.

Il film è e fu innovativo sotto ogni punto di vista, presentandosi anche come una sorta di on the road ante-litteram e assolutamente sui generis. 
 
La trama è piuttosto nota: il giorno prima della cerimonia che deve onorare e celebrare la sua lunga carriera come medico, il professor Isak Borg ha uno strano sogno in cui si trova ad affrontare la sua stessa morte. Il giorno successivo, decide di guidare alla volta della Lund University in compagnia di Marianne, sua nuora. 

Durante il viaggio, il vecchio professore fa il punto sulla sua vita viziata dall'egoismo. Rivede la sua giovinezza con "il posto delle fragoline di bosco" dove suo cugino una volta lo ha portato. 

Quindi rivede i suoi ricordi della sua vita di medico di campagna. 

Mentre Marianne guida, Isak si addormenta e fa un sogno in cui si manifestano angosciosi sensi di colpa. Dopo essere stato dichiarato "colpevole di colpa", è accusato della sua freddezza. Poi vede l'infedeltà di sua moglie quarant'anni prima 

Dopo un ultimo rimprovero che Marianne rivolge al patrigno un figlio che le sarebbe piaciuto mantenere nonostante l'opposizione di suo marito, Isak è solennemente incoronato dall'Università di Lund . 

Prima di addormentarsi, cerca di conciliare suo figlio e sua nuora. 

Quindi sogna le scene felici della sua infanzia. 

Il cast del film vede quasi tutti gli attori cari a Bergman. Il protagonista, Victor Sjöström, è un nome illustre del cinema svedese, nonché maestro professionale di Bergman, che lo aveva già voluto per un piccolo ruolo in Verso la gioia (1950). 

Il film, girato fra gli studi della Svensk Filmindustri e la città di Lund, nello Skåne län (la parte più meridionale della Svezia), esce in patria il 26 dicembre 1957.

In Italia sono uscite due versioni in DVD del film, una nel 2002 e un'altra, rimasterizzata, nel 2005. 

Un film che rappresenta la summa del lavoro di Bergman e una meditazione potente e necessaria per ogni spettatore, ieri come oggi.



17/05/19

100 film da salvare alla fine del mondo: 21. Fanny & Alexander (Fanny och Alexander) di Ingmar Bergman (1982)


Questo blog dedica, ad appuntamenti fissi - ogni lunedì e ogni venerdì - un catalogo personale dei miei 100 film da salvare "alla fine del mondo".  Non saranno ovviamente vere e proprie recensioni, ma un piccolo campionario degli affetti per queste opere che hanno segnato epoche e vite di molti, se non di tutti. 

100 film da salvare alla fine del mondo: 21. Fanny e Alexander (Fanny och Alexander) di Ingmar Bergman (1982)


Nel suo ultimo grande film pensato per la televisione e poi realizzato (anche) per il cinema,  Fanny e Alexander (1982), Ingmar Bergman ci ha lasciato una sorta di evidente testamento spirituale.
Quel film rappresenta infatti, meglio di altri, la summa della parabola artistica e della profondissima riflessione spirituale e filosofica sul senso della esistenza, attraverso i riferimenti ad una vicenda autobiografica che il regista aveva già raccontato nel suo libro Lanterna magica.   

In Fanny e Alexander oltre al magnifico racconto familiare che ricostruisce l'infanzia di Alex/Ingmar, le vicende dolorose e gioiose, i traumi e il male, l'amicizia e l'amore e il bene, Bergman sintetizzò in questo film ciò in cui credeva, ciò che credeva di aver capito, sul finire della sua intensa e prolifica parabola artistica e della sua vita, del mistero dell'esistenza.


Negli ultimi anni della sua vita, anche il cinema divenne per Bergman, superfluo. Il congedo dal set, più volte annunciato, si concretizzò con tre piccoli film, Dopo la Prova (1984), Il segno (1986) e Verità e affanni (1997) che non intaccarono l’impressione che il vero testamento spirituale del regista restasse Fanny & Alexander.  Bergman si era già ritirato da tempo nella sua isola di Faro, in una completa solitudine, in una austerità quasi claustrale, interrotta soltanto dalla visita dei suoi otto figli – divenuti nel frattempo quasi tutti attori - degli amici intimi e degli attori, compagni di lavoro dei suoi film più famosi. 
   
“Mangiava poco. Si vestiva male. Non aveva bisogno di comodità: nell’isola di Faro dove ha vissuto quando poteva perché amava quel paesaggio ideale per la rappresentazione di una condizione umana desolante, per lungo tempo è mancata persino l’energia elettrica. Si alzava alle sette del mattino, andava a letto alle dieci di sera ma non sempre dormiva, soffriva di insonnia in maniera angosciosa.”  Così descrisse questo uomo inquieto – inquieto fino alla fine – Lietta Tornabuoni in un articolo commemorativo il giorno dopo la sua morte, avvenuta il 30 luglio del 2007, pochi giorni dopo che il regista aveva compiuto 89 anni.
     
Il film prende l'avvio da una memorabile festa di Natale, in casa Ekdahl, una estesa famiglia dell'alta borghesia di Uppsala, il cui patriarca - Oscar - è anche il capo della compagnia di attori che intorno ad essa, ruota.  Alla improvvisa, dolorosissima morte di Oscar, un uomo buono e fecondo, si apre una crisi che coinvolge direttamente i figli, Fanny e Alexander quando la loro madre si unisce in matrimonio con il diabolico vescovo protestante Vergerus, con conseguenti vessazioni dei due bambini da parte del patrigno.

Per Fanny e Alexander sarà una tragica discesa ad inferos e una altrettanto dolorosa, ma stupefacente rinascita, grazie all'attraversamento - soprattutto da parte di Alex -  di quella che Jung chiamava Ombra, cioè il lato oscuro della propria interiorità.  

Alla fine del film, Bergman mette queste parole in bocca allo Zio Gustaf, il più epicureo e materialista della famiglia Ekdahl, il meno sovrastrutturato potremmo dire, che brinda alla pace ritrovata, all'unità della famiglia, nonostante tutto, alla speranza nel futuro, pur con la profonda consapevolezza delle profonde avversità che la vita può offrire. Questo il testo integrale del discorso. 

L’unico talento che io ho è quello di amare quel piccolo mondo racchiuso tra le spesse mura di questo edificio e soprattutto mi piacciono le persone che abitano qui in questo piccolo mondo. Fuori di qui c’è il mondo grande e qualche volta capita che il mondo piccolo riesca a rispecchiare il mondo grande tanto da farcelo capire un po’ meglio. In ogni modo riusciamo a dare a tutti quelli che vengono qui la possibilità, per qualche minuto, per qualche secondo, di dimenticare il duro mondo che è la fuori. Il nostro teatro è un piccolo spazio fatto di disciplina, di coscienza, di ordine e di amore.

Noi non siamo venuti al mondo per scrutarlo a fondo, no davvero. Noi non siamo preparati, attrezzati, per questo tipo, per certe indagini. La cosa migliore è mandare all'inferno i grandi contesti. Noi vivremo in piccolo, nel piccolo mondo. E ci contenteremo di quello. Lo coltiveremo e lo useremo nel modo migliore. La morte colpisce all'improvviso e all'improvviso si spalanca l'abisso. All'improvviso infuria la tempesta e la catastrofe ci sovrasta. Noi tutto questo lo sappiamo, ma ci rifiutiamo di pensare a queste cose sgradevoli... Attori, attrici, abbiamo un grande bisogno di voi perché sarete voi che ci darete brividi di soprannaturale e soprattutto anche i nostri piaceri terreni. Il mondo è una tana di ladroni, e la notte sta per calare. Il male strappa le catene e vaga nel mondo come un cane impazzito, e tutti ne siamo contaminati: noi Ekdahl come qualsiasi altra persona. Nessuno vi sfugge. 
Per questo dobbiamo essere felici quando siamo felici ed essere gentili, generosi, teneri, buoni. Proprio per questo motivo è necessario e tutt'altro che vergognoso essere felici, gioire di questo piccolo mondo: della buona cucina, dei dolci sorrisi, degli alberi da frutta che sono in fiore, o anche di un valzer. Tengo in braccio una piccola, dolce imperatrice. E' una cosa tangibile eppure incommensurabile. Un giorno mi dimostrerà che ho avuto torto in tutto quello che ho detto ora. Dominerà non solo sul piccolo mondo, ma su ogni cosa. 

In questo discorso finale v'è la sintesi del film-capolavoro e forse della intera parabola creativa del grande Ingmar Bergman. 


Fanny & Alexander è ancora oggi un racconto e un'opera visiva di potenza insuperata.


Fanny & Alexander

(Fanny och Alexander)
di Ingmar Bergman 
Svezia, Francia, Germania Ovest, 1982 
Durata 188 min (cinema), 312 min (TV) 
Fotografia Sven Nykvist 
con Pernilla Allwin, Bertil Guve, Ewa Fröling, Gun Wallgren, Jarl Kulle

 


01/11/18

Dal 5 Novembre torna al cinema "Il settimo sigillo" di Ingmar Bergman restaurato.



Per il centenario della nascita di Ingmar Bergman la Cineteca di Bologna porta in sala dal 5 novembre il restauro, realizzato dallo Svenska Filminstitutet, di uno dei titoli piu' iconici del regista svedese: Il settimo sigillo. 

Dopo l'anteprima, a giugno in Piazza Maggiore a Bologna nell'ambito della 32/a edizione del festival Il Cinema Ritrovato, Il settimo sigillo torna al cinema grazie al progetto della Cineteca di Bologna Il Cinema Ritrovato.

Al cinema, per la distribuzione dei classici restaurati.

Realizzato nel 1957, Il settimo sigillo segue le tracce del cavaliere Antonius Block (Max von Sydow) e del suo scudiero Jöns (Gunnar Björnstrand) che, reduci disillusi delle Crociate, fanno ritorno nella Svezia del Trecento e la trovano in balia della peste e della disperazione.

Sulla spiaggia Block incontra la Morte, e, in una delle piu' efficaci alternanze campo/controcampo mai realizzate, la sfida a una partita a scacchi per prendere tempo e poter compiere un'azione che dia un senso alla sua vita.

L'evocazione visionaria, tragica e farsesca del Medioevo scandinavo racchiusa nel Settimo sigillo ha origini remote che affondano nelle fantasie d'infanzia dell'autore.

Capolavoro tra i capolavori di Bergman, questa grande allegoria dell'uomo in cerca di Dio e in balia della morte, torna a parlarci con la potenza grafica del suo paesaggio e la chiaroscurale profondita' della sua inquietudine.

 "L'idea di realizzare Il settimo sigillo - raccontava Bergman - e' scaturita in me dalla visione dei temi trattati negli affreschi e nelle pitture medievali: i buffoni girovaghi, la peste, i flagellanti, la Morte che gioca a scacchi, i roghi delle streghe e le Crociate. Il film non ha pero' l'ambizione di restituire un'immagine realistica della vita in Svezia durante il Medioevo: e' un saggio di poesia moderna, che traduce le esperienze della vita di un uomo moderno, un saggio tuttavia modellato, sia pure molto liberamente, su spunti medievali. Il mio intento e' stato quello di dipingere come dipingevano i pittori del Medioevo, con lo stesso impegno oggettivo, con la stessa sensibilita' e la stessa gioia".

fonte ANSA

28/02/18

"Tutto ciò che ho visto, tutto ciò che ho capito", una bellissima intervista a Liv Ullmann che quest'anno compie 80 anni.


Pubblico questa bellissima intervista realizzata da Giorgio Vasta e uscita sul Venerdì di Repubblica del 6 Febbraio scorso, che ringraziamo. 
Una scogliera filmata in bianco e nero, le rocce piatte e scabre, sullo sfondo un frammento di mare grigio. Dal limite basso dell’inquadratura compare una donna, indossa un lupetto e una giacca impermeabile: ci guarda, solleva una macchina fotografica, fissa nell’oculare del mirino, scatta, impercettibilmente ci sorride, si volta e si allontana verso la costa caliginosa.
È una scena brevissima di Persona, il film con cui nel 1966 Ingmar Bergman ridefinisce la grammatica della narrazione per immagini, eppure, forse proprio per questa sua fugacità, quel lampo di fotogrammi è uno dei modi in cui il volto di Liv Ullmann – il suo sguardo perentorio e disarmato – si è fatto cinematograficamente indimenticabile.
Quando l’attrice norvegese gira Persona ha ventotto anni – nata a Tokyo nel ’38 trascorre l’infanzia in Canada e poi negli Stati Uniti, dopo la fine della Seconda guerra torna in Norvegia, a Trondheim – e, sebbene prima di allora abbia già recitato in altri film, il ruolo di Elisabet Vogler – l’attrice teatrale che all’improvviso smette di parlare trasformando il silenzio in una strategia di disvelamento – è il suo vero e proprio esordio. Una nuova origine, un ennesimo inizio. Qualcosa che non se ne sta immobile alle nostre spalle bensì davanti a noi, una sostanza di cui sentiamo la mancanza e che per una vita intera continuiamo a cercare. Nel suo capolavoro del 1957, Bergman chiamava questa origine là da venire «il posto delle fragole»; per Ullmann è qualcosa di immateriale.
Rispondendo alle nostre domande da Key Largo, in Florida, dove trascorre l’inverno – la voce fluida e sottile, a tratti esitante – Liv Ullmann racconta: «La mia origine è mio padre, che è morto quando avevo sei anni e che sento sempre intorno a me, ed è mia madre, scomparsa dieci anni fa, alla quale ho domandato scusa per tutto ciò che non ho saputo capire. Ma la mia origine è soprattutto mia nonna, l’odore del suo collo quando da piccola mi prendeva sulle ginocchia per raccontarmi le storie della sua infanzia. Per tutta la vita ho cercato qualcuno che avesse quello stesso odore senza trovarlo né in mia madre né nell’uomo che amo né negli uomini di cui sono stata innamorata».
Il senso del dovere e il senso di colpa sono stati un altro modo in cui l’origine si è manifestata. «In tutti i miei film ho avuto la possibilità di elaborare il mio senso del dovere e di vederlo rappresentato nei ruoli che ho interpretato. Il senso di colpa è stato invece parte integrante della mia educazione, un condizionamento determinato anche dall’essere una donna in un mondo di uomini».
Colpa e dovere sono la corazza che Nora, la protagonista di Casa di bambola di Ibsen – per Ullmann una stella polare, un ruolo così lungamente frequentato da diventare la cartina di tornasole delle sue più personali metamorfosi –, riesce infine a spezzare. «Nel tempo il mio desiderio di liberarmi da questa armatura ha combattuto contro la mia educazione, ma in realtà non sono mai riuscita a svincolarmi del tutto. Ancora adesso, ogni mattina appena mi sveglio mi dico: Oggi sarò Liv, sarò una persona perbene ma non farò quanto gli altri si aspettano da me, solo quello che io penso sia ok. Come Nora, anch’io attendo ogni giorno di percepirmi come meraviglia».
In Cambiare, l’autobiografia pubblicata nel ’77 (seguita nell’85 da un secondo libro di memorie, Scelte), Ullmann racconta che negli anni di più intensa attività – durante i quali viaggia da un continente all’altro (spesso insieme a Linn, la figlia nata nel ’66 dalla relazione con Bergman) lavorando anche con Jan Troell, Terence Young, Richard Attenborough, e in Italia con Monicelli e Bolognini – poteva trovarsi, rientrata a casa, a osservare Tasse, la sua gatta, per rubarleun’espressione da usare in scena. Tutto ciò che esisteva era un patrimonio al quale attingere. «Il mondo è stato il mio partner. Nel mio modo di essere attrice c’è la consapevolezza di possedere qualsiasi sentimento, tutto ciò che ho visto e tutto ciò che ho capito. Quel che ho fatto è stato andare dentro di me, trovare questi sentimenti e tradurli all’esterno: in ogni gesto, anche solo in un’andatura».


Senz’altro in quelle espressioni che i close-up di Bergman hanno saputo osservare come nessun altro, da quella di Jenny in L’immagine allo specchio a quella di Anna Fromm in Passione, da quella di Alma in L’ora del lupo a quella di Eva in Sinfonia d’autunno, passando per il volto di Marianne in quel trattato di anatomofisiologia di una coppia che è Scene da un matrimonio – lo sguardo che slitta dalla felicità all’indifferenza fino a una disperazione del legame da cui affiora un ultimo barlume di solidarietà. «Amo il primo piano perché in quel momento il nostro sguardo arriva vicinissimo all’animo umano. È qualcosa che in teatro non può avvenire ma nel cinema sì, e quando avviene è fantastico: in quel momento la recitazione scompare: l’unica cosa che si deve vedere è la realtà di un volto al di là della realtà».
Passando in rassegna quei ritratti-indagine ci rendiamo conto che per il regista svedese il volto della donna con cui condivise una decina di film e cinque anni di vita(in gran parte trascorsi nella tana-rifugio dell’isola di Fårö, situata tra Russia e Svezia: «un relitto dell’età della pietra», nella percezione di Ullmann) è stato un luogo inesauribile da cui non riusciva a distogliere lo sguardo, come non ci riusciamo noi, oggi, constatando la potenza di quell’ovale così saldamente morbido, ortogonale e poroso, altero e delicato, fatto di granito e di cotone: un volto esemplare, essenziale e complesso, all’apparenza imperturbato ma in realtà – in quella particolare realtà che è il cinema – timido, inquieto, profondamente vulnerabile (un volto, quello di Liv – e quindi di Elisabet Jenny Anna Alma Eva Marianne – che nei prossimi mesi verrà visto innumerevoli volte: alla fine del 2018 Ullmann compirà ottant’anni e nello stesso anno in tutto il mondo si celebra il centesimo anniversario della nascita del regista del Settimo sigillo).
«Tutte le immagini scompariranno» ha scritto Annie Ernaux in Gli anni. Tutte le immagini. Tutto ciò che abbiamo pensato, tutto ciò che abbiamo ricordato. Tutte le percezioni. Prima di allora abbiamo però ancora modo di recuperare qualcosa. E dunque, quando la nostra conversazione sta per concludersi, c’è ancora il tempo per contraddire una certezza. «Trent’anni fa ero sull’isola di Macao. Davanti a me un recinto con un cartello che vietava l’ingresso, oltre il recinto decine di persone con la lebbra. Non intendevo entrare ma un prete cattolico mi si era avvicinato e mi aveva condotto all’interno. Addossata al recinto giaceva una donna molto vecchia: il volto deturpato, i moncherini, un pianto da neonata. Quando mi sono chinata e l’ho abbracciata ho sentito che il suo collo aveva lo stesso odore di quello di mia nonna».
Ciò che sparisce – chi sparisce – diventa di colpo reale: diventa l’origine davanti a noi, il nostro posto delle fragole. Un fantasma che prende la forma di un odore o si concentra in un balenare di fotogrammi: la scogliera, la donna, lo scatto della foto: Liv Ullmann che per un istante – dunque, in quella forma di memoria che è il cinema, per sempre – ci guarda, ci sorride, diventa indimenticabile.
Giorgio Vasta per il Venerdì di Repubblica

15/01/18

Per celebrare i 100 anni di Ingmar Bergman, una straordinaria rassegna di tutti i suoi film al PalaExpo' di Roma.



Nell’atteso centenario della nascita, che tutto il mondo si appresta a celebrare, Bergman 100 rende omaggio al maestro svedese con una selezione dei suoi film più amati a ingresso gratuito, capolavori senza tempo che hanno segnato l’intera storia del cinema e creato il mito di un autore ineguagliabile per ricchezza e complessità dei temi affrontati e per l’inesausta ricerca formale e filosofica. 

Ma la vera forza di Bergman, spesso sottovalutata, è quella di un approccio al cinema fortemente emotivo, vitale e empatico, lontano dal cliché di un’arte intellettuale e oscura e aperto invece al gioco, all’ironia, alla sperimentazione e alla sensualità

“Il rapporto di Bergman con il pubblico - ha scritto giustamente Scorsese – è piuttosto simile a quello di Hitchcock: diretto, immediato”. 

Per comprendere appieno l’universo di questo artista fuori dal comune, la rassegna include poi diversi film e registi che nel corso della carriera Bergman ha indicato più volte come i suoi prediletti, da Chaplin a Fellini, da Tarkovskij a Murnau, da Sjöström a Dreyer: saranno loro gli ospiti speciali di questa straordinaria festa di compleanno a cui ogni appassionato del grande cinema non può mancare. 


Un progetto a cura di Azienda Speciale Palaexpo, Centro Sperimentale di Cinematografia - Cineteca Nazionale, La Farfalla sul Mirino 
In collaborazione con Ambasciata di Svezia in Italia, Svenska Filminstitutet, Ingmar Bergman Foundation

19/04/14

Dieci grandi anime. 8. Ingmar Bergman (3./)



Dieci grandi anime. 8. Ingmar Bergman (3./) 

   In questo senso la parabola di questo grande regista è forse raccontata in un modo che più esemplare non si potrebbe nella trilogia che Bergman dedicò espressamente al problema religioso, e che comprende tre capolavori, Come in uno specchio (1960), Luci d’Inverno (1961) e Il silenzio (1962).  
  Il regista, già famoso,  voleva realizzare con il primo un’opera “completamente nuova”, un’opera da camera per il cinema, e voleva ambientarlo su un’isola del mare del nord. Fu in quell’occasione che qualcuno gli suggerì la brulla isola di Faro,  nel mar Baltico, che con i suoi paesaggi estremi affascinò a tal punto Bergman da indurlo a stabilirvi la sua residenza, alla fine del film. Forse anche la suggestione di questo paesaggio spinse il regista a rendere il suo cinema ancora più essenziale rispetto ai film precedenti, ancora più nudo, radicale, in un crescente “ascetismo visivo”, come lo definì il padre gesuita Luigi Bini (7).  

  Già il titolo del film – Come in uno specchio – fu scelto da Bergman dal testo della Prima Lettera ai Corinzi, quando Paolo scrive: Adesso noi vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; allora vedremo faccia a faccia (7).  Sull’isola il regista rappresenta le vicende dello scrittore David che  trascorre le vacanze estive in compagnia del figlio Minus, della figlia Kårin - recentemente dimessa da una clinica psichiatrica - e del marito di Kårin, Martin. Ognuno di loro costituisce per gli altri una sorta di specchio, nel quale si riflettono le angosce e la difficoltà di comunicare di ciascuno. Nel confronto tra Karin, che crede di vedere Dio nella sua follia – è celebre l’angoscioso sogno in cui Dio si manifesta sotto forma di ragno – e David, che è un peccatore che ha sbagliato tutto nella sua vita, ma è disposto a con-vertire la sua anima, si gioca la dicotomia nel quale ogni uomo si dibatte quando si pone alla ricerca di Dio.  Cercare Dio come fa Karin, e come fanno in molti, non serve a niente, se non a vedere – come in uno specchio – le proprie deformità e le proprie distorsioni, che nulla aggiungono alla propria solitudine come condizione esistenziale.
   
   La ricerca sensata è invece quella di David – che ha perso e sbagliato tutto, ma che è disposto a mettersi in gioco, fino in fondo. E quando il figlio  gli chiede, angosciato: “Dio? Dammi una prova di Dio. Non puoi,”  il padre, David, risponde: “ Sì che posso. Dio è la certezza che l’amore esiste come cosa concreta in questo mondo di uomini… Ogni genere di amore, il più elevato e il più infimo, il più oscuro e il più splendido. Ogni specie d’amore… Non so se l’amore dimostri l’esistenza di Dio o se l’amore sia Dio stesso… Questo pensiero è il solo conforto alla mia miseria e alla mia disperazione. Di colpo la miseria è diventata ricchezza e la disperazione speranza.  E’ come essere graziati in punto di morte.”
      
   Il figlio, Minus, dimostra di aver capito, e risponde pensando alla sorella pazza: “Allora Karin è tutta circondata da Dio, perché noi l’amiamo davvero.”
   
   Il secondo film della trilogia, Luci d’inverno, nacque invece, l’anno seguente, dopo che Bergman era rimasto profondamente colpito dal Diario di un curato di campagna, che Robert Bresson aveva tratto da Bernanos, rielaborando una vecchia idea sulla quale il regista rimuginava da anni e che prendeva lo spunto dalla scena di un uomo che entrato d’inverno, in una piccola chiesa di campagna, chiude la porta si avvicina all’altare e dice al Cristo: “ Resterò qui fino a quando non mi parlerai.”  

    
    Quel che ne venne fuori fu il film forse più drammatico, riguardo ai temi esistenziali, di quelli diretti da Bergman, un film che inizia e finisce con una funzione religiosa, e che mostra il dibattersi del pastore protestante Tomas Ericsson, solo di fronte ai dilemmi della fede, incapace di convertirsi realmente e di trovare risposte in Dio.  Luci d’inverno, che termina in sostanza con un nulla di fatto, fu all’epoca usato, allo stesso modo da coloro che ci vedevano una proclamazione di ateismo e da altri che all’opposto, lo leggevano come una confessione di fede, seppure drammatica e dubitativa.   Lo stesso Bergman non aiutò a decifrare il significato del suo film in un modo o nell’altro: pare che alla fine del manoscritto con la sceneggiatura di Luci d’inverno egli avesse apposto, di suo pugno, le parole Soli Deo Gloria (9).  

    Ma se davvero questo stesse ad indicare la ritrovata fede del pastore Tomas, è tutto da dimostrare.    Quel che è certo è che anche in questo film, Bergman si dichiara convinto che la fede in Dio non la si trova comodamente arroccati nelle formule liturgiche e nei dogmi, ma semmai essa “fiorisce nelle anime che hanno ormai conosciuto la disperazione più nera.”   (10) 

Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. 

7.  Luigi Bini, Ingmar Bergman da “Come in uno specchio” a “Sinfonia d’Autunno”, Milano, Edizioni Letture, 1980, pag.13.
8.  Lettera ai Corinzi, 13, 12.
9. Questo particolare fu rivelato da Jorn Donner ne Il volto del diavolo, articolo su Cineforum del 1966, e confermato da Vilgot Sjoman, amico e portavoce del regista, intervistato dai Cahiers du Cinema, nel numero 165, del 1965, pag. 54.
10.  Così Guglielmo Biraghi, Luci d’inverno, Il Messaggero, 18 aprile 1963.

18/04/14

Dieci grandi anime. 8. Ingmar Bergman (2./)



Dieci grandi anime. 8. Ingmar Bergman (2./) 


  Questo sogno abitato divenne ben presto per il piccolo Bergman quello della immaginazione e dell’immagine, quando, a dodici anni, gli fu regalato un piccolo e rudimentale proiettore: la scoperta di una potenzialità nuova che permetteva di rielaborare magicamente il vissuto, ordinarlo e provare a dargli un senso.
   
  Non appena Ingmar fu capace di usare la sua arte, dopo averne imparato i fondamenti nella leggendaria Svensk Filmindustri dove il ragazzo cominciò a lavorare quando aveva soltanto ventiquattro anni, fu questo l’imperativo: ritrovare  in una stagione perduta ma viva ancora nella memoria, le sue idiosincrasie ma anche le sue passioni, e con esse la rielaborazione di una interpretazione complessiva sul senso dell’esistenza.

  Una attività infaticabile: ben 44 film, che possono tranquillamente leggersi come i capitoli di una profonda e consapevole vicenda umana, innumerevoli allestimenti in teatro,  con i migliori attori disponibili per reinterpretare Shakespeare, cinque diversi mogli e compagni di vita e di lavoro, come Liv Ullmann, una moltitudine di discepoli presunti o reali, e nessun vero erede.
    
   Titoli indimenticabili che hanno segnato come pietre miliari la storia stessa del cinema, dal primo vero successo,  Sorrisi di una notte d’estate, girato nel 1955,  al Settimo Sigillo, dell’anno seguente,  al Posto delle Fragole,  a Persona, negli anni ’60, Sussurri e Grida, Scene da un Matrimonio,  Il  Flauto Magico, L’uovo del Serpente, Sinfonia d’Autunno e Fanny & Alexander, una collezione di capolavori con i quali Bergman ha scandagliato con la precisione e la pazienza di  un entomologo il cuore umano.
   
   A partire da quel senso religioso e da quel silenzio di Dio  che il regista aveva ereditato – come tematiche costanti – dalla figura paterna.  La sua era una teologia della domanda bruciante, ha scritto Gianfranco Ravasi (4) dopo la morte di Bergman, sollecitata dalle sue radici protestanti pietiste.  Egli forse non scopriva mai una risposta che fosse suggello alla sua interrogazione insonne; a noi invece  - e non lo dico solo come teologo ma dando voce a tutti coloro che cercano il senso dell’esistenza con un cuore che batte – gli squarci di luce erano emozionanti come fecondi erano i suoi silenzi e i suoi dubbi. 
   
   E sostanzialmente, il suo cinema era fatto essenzialmente di questo: “dubbi esistenziali, anticlericalismo, disperata ricerca d’amore, di un Dio che non è burocrazia, ma appunto amore.” (5)

    L’imprinting di questa rivolta radicale nei confronti di una religione di facciata, che può diventare strumento di oppressione e di persecuzione, e della ricerca di un senso più autentico del segreto trascendente insito nell’animo umano, è per Bergman pienamente rappresentato nel dato biografico: i temi del suo cinema in qualche modo non fanno che ripercorrere lo strappo con quel forte modello famigliare, messo in discussione violentemente da giovane: già dopo la maturità, come abbiamo visto, e dopo il servizio militare, Ingmar si iscrisse all’Università cominciando a occuparsi sistematicamente di teatro.  Intanto, aveva cominciato a convivere con una giovane attrice a Stoccolma.  Quando i genitori si accorsero che il giovane non dormiva a casa la notte, scoppiò una crisi furibonda.  Il padre lo picchiò, il ragazzo reagì con violenza, abbandonò la canonica e ruppe completamente i ponti con la famiglia per quattro anni, spostandosi al seguito di diverse compagnie, che giravano in lungo e in largo la Svezia.

   
    Questa cesura radicale con la famiglia – una famiglia che vantava una lunghissima tradizione di contadini e preti – segnò anche la svolta personale di Bergman, verso la consapevolezza, alla ricerca di una strada personale al termine della quale qualcuno arrivò a definirlo un ‘ateo cristiano’. (6)

Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. 


4.   Gianfranco Ravasi,  Come un  Getsemani del ‘900: domande brucianti di film in film,  pubblicato su: Avvenire,  31 luglio 2007.
5.  Così Sergio Trasatti, Ingmar Bergman,  Editrice Il Castoro cinema, collana diretta da Fernaldo Di Giammatteo, Milano, 1976.  pag. 3.
6. La definizione è di S. Trasatti, I. Bergman, op. cit. pag.3