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14/09/23

Ricordate "Il Danno" ? Torna, sotto la veste di una nuova miniserie, intitolata "Obsession" su Netflix


Dieci minuti dopo che è partito il pilot della miniserie "Obsession" (4 brevi puntate, visibili su Netflix), del 2023, risuona una frase che negli spettatori più accorti risulta inconfondibile: "Ho subito un danno. Le persone danneggiate sono pericolose. Sanno di poter sopravvivere... "
Si capisce subito, allora, che - anche se il titolo è diverso - si tratta del rifacimento di un celebre film - regia del grande Louis Malle, 1992 - a sua volta tratto dal celebre e fortunatissimo romanzo di Josephine Hart, pubblicato nel 1991, che ha venduto l'incredibile cifra di 5 milioni di copie in tutto il mondo: "Il Danno".
Siamo dunque esattamente come nel romanzo, dentro la storia di uno stimato professionista, William Farrow, brillante chirurgo e rampante politico, altoborghese, felicemente sposato con due figli, che perde completamente la testa per la donna che è la fidanzata di suo figlio Jay, e che suo figlio Jay sta per sposare.
La donna, Anna Barton, ha un passato di storie familiari torbide, piuttosto misterioso: il chirurgo ne resta soggiogato già dal primissimo incontro, e nonostante il vincolo familiare, intraprende con lei una rovente storia sessuale, basata sulla sottomissione, con virate bondage e sadomaso.
C'è subito da dire che la serie - una coproduzione franco-inglese - si fa apprezzare per qualità e sviluppo (non ci sono lungaggini o ovvietà), presentando qualche differenza abbastanza sostanziale con la storia originale (e con il film di Malle). Di più, è di sicuro una delle serie televisive dal contenuto sessuale più esplicito e il legame quasi senza parole tra i due - funereo, nichilista - viene mostrato senza orpelli, un po' come ha insegnato la scuola del film di Bertolucci ("Ultimo Tango a Parigi").
Il segreto del successo della storia e del libro originario risiede probabilmente nella esplorazione del lato oscuro della sessualità, nel suo legame con la morte (il vecchio binomio eros/thanatos) e nella ineluttabilità del danno elaborato attraverso la perversione: d'altronde lo stesso Freud ammoniva che "la nevrosi si può curare, ma con la perversione non si può fare niente."
Chi è stato danneggiato, dunque, è questa la "morale" della Hart, è più forte, più attrezzato per sopravvivere (anche se nella relazione si traveste da quello più fragile) e chi è più vittima è in fondo chi si avvicina e cade nella rete del danneggiato.
E' una tesi forse rassicurante o forse no, ed è per questo che il successo arrivò copioso.
Questa serie è un buon esercizio su (quel) tema, ambientando la vicenda in una Londra gelida e piuttosto lugubre. Gli interpreti sono all'altezza, a parte Richard Armitage nei panni del protagonista, il chirurgo doppiamente fedifrago, che ha una sola espressione per tutta la serie, e rigido e pallido com'è, fa rimpiangere dalla prima scena, il sensuale e sontuoso Jeremy Irons del film di Malle.
Bravissima è invece Charlie Murphy (già vista in Happy Valley 2 e 3), che offre mille sfumature alla fatale, estrema Anna Barton (anche nelle difficili, esplicite scene di nudo).
Bravissima è anche Indira Varma nel ruolo della moglie e Rish Shah in quello dell'innocente vittima, il ragazzo Jay.
Il finale della serie è diverso sia dal libro che dal film di Malle e concede una opzione in più sia ad Anna che a William: la vita può andare avanti anche quando si è fatto il peggio che si potesse fare (e di certo è una tesi molto, molto discutibile).
Insomma, un voto positivo per un lavoro difficile che aveva il compito di misurarsi con un un libro molto famoso e con un film di un grandissimo regista (che non fu, comunque, uno dei suoi migliori).

Fabrizio Falconi - 2023

22/08/23

"Un Beau Matin" un film che fa bene al cuore (ma perché non si riesce a fare un film così in Italia?)


Vedo Un Bel Mattino (Un Beau Matin) su Mubi, uscito nel 2022 e mi chiedo perché sia inimmaginabile oggi un film così, fatto in Italia.
Lo firma una regista franco-danese (danese è la famiglia del padre), Mia Hanson Love, quarantenne, ex moglie di Olivier Assayas, già vincitrice con i suoi precedenti film, di molti premi in festival importanti, tra cui l'Orso d'Argento per la migliore regia alla Berlinale del 2021.
Un Bel Mattino è un film di bellezza disarmante, perché vero. Un film che parla della vita vera, con luminosità, dolore, intensità. La storia semplice e "ordinaria" (senza la minima ombra di retorica) di Sandra, giovane donna rimasta vedova troppo presto, con una figlia piccola, che deve affrontare la malattia del padre - professore di filosofia (come il vero padre di Mia), colpito da una grave malattia neurologica (Sindrome di Benson) e che nello stesso periodo, dopo lunghi anni di solitudine, vive una intensa storia d'amore con un uomo sposato e a sua volta padre di un bambino.
Tutti i tempi dell'amore e della passione, tutto il dolore per la malattia del padre, vivono e passano sul volto di Léa Seydoux, straordinaria attrice, che "vive" il ruolo di Sandra, più che interpretarlo. Con i silenzi, i gesti ordinari, le lacrime, i sorrisi, le fatiche, i dolori a tratti insostenibili.
C'è la lezione, modernizzata dei grandi maestri, c'è la poesia e la leggerezza di Truffaut, c'è lo scandaglio fotografico di Bergman.
E alla fine, quando questo film ti arriva al cuore con le sue immagini e il suo racconto coerente, apparentemente senza bisogno di altro, ti chiedi perché un film così oggi non possa essere fatto da noi.
E puoi darti una risposta tra una serie che provo a elencare in ordine sparso:
- perché in Italia non esiste una attrice come Léa Seydoux
- perché in Italia si "recita" e non si sa più essere, interpretando.
- perché il mondo borghese - o meglio, piccolo borghese, che è quello di quasi tutti - non sappiamo più raccontarlo.
- perché non sappiamo scrivere un copione così essenziale, funzionante, senza bisogno di trucchi o strizzate d'occhio allo spettatore
- perché la vita - come cantava Franco Battiato con Sgalambro - in Italia, è diventata una "parvenza di vita" o perché non è così e semplicemente è vita vera ma nessuno sa più raccontarla.
Non lo so, scegliete voi quale.
Nel frattempo fatevi un bel regalo, con Un Bel Mattino.

Fabrizio Falconi - 2023

01/03/23

Ma perché nessuno parla di "Athena"? Il grande film di Romain Gavras


Ma perché nessuno parla di Athena?

Dopo l'inaugurazione del Festival di Venezia 2022, in concorso ufficiale, e gli applausi, il film di Romain Gavras, 43enne figlio d'arte, del grande Costa-Gavras, sembra caduto nell'oblio.
Eppure si tratta di uno dei film più importanti della stagione, destinato a durare. L'affresco epico - in presa diretta, virtuosisticamente girato - dei durissimi scontri che avvengono ad Athena, banlieu parigina abitata soprattutto da immigrati e figli di immigrati musulmani, prende il via dopo che il video della uccisione di un ragazzo di 13 anni, Idir, apparentemente da parte di poliziotti, diventa virale.
Quando il quartiere viene occupato e messo a ferro e fuoco dai rivoltosi, il film segue le vicende dei 3 fratelli di Idir, direttamente coinvolti nei propositi di vendetta, da una parte e l'altra delle barricate, con la polizia che cerca di riprendere il controllo dei territori occupati e i rivoltosi che prendono in ostaggio un poliziotto per ottenere la consegna dei responsabili della morte di Idir.
E' un film visivamente, esteticamente, drammaturgicamente straordinario, che si vive come se si fosse lì, in mezzo al frastuono e all'orrore - tra Pasolini e Pontecorvo - e non si dimentica.
Alla critica di sinistra - in patria - compresa Libération, non è piaciuto perché distribuito da una grande piattaforma - Netflix - e per motivi politici (alla fine la polizia viene discolpata, non sono stati loro i responsabili, ma un gruppo di estrema destra con false divise della polizia).
All'estero invece, i consensi e gli entusiasmi sono stati pressoché unanimi, da Variety a Rolling Stone.
Già solo il long take iniziale - prodigioso, più di 10 minuti, con utilizzo di droni - varrebbe da solo il prezzo del biglietto, come si diceva una volta.
Ma tutto il film si fa ammirare per coraggio, crudezza, forza emotiva, contenuti impliciti.
Se davvero si voleva un'opera di denuncia contro la follia umana, contro la follia delle faide umane, delle guerre, della violenza, e se soprattutto dalle parti di Hollywood fossero più coraggiosi, sarebbe stato più giusto e doveroso dare 9 candidature ad Athena, piuttosto che all'innocuo e preconfezionato The Banshees of Inisherin, adesso sulla bocca di tutti.

Fabrizio Falconi - 2023

18/02/23

Una buona serie per le vostre serate: "Le Combattenti ("Les Combattantes") dalla Francia, su Netflix


Non è male la serie Le Combattenti (per una volta rispettato l'originale Les Combattantes) visibile su Netflix.
TF1 ci ha investito una cifra astronomica, per una serie: 20 milioni di euro.
L'impegno produttivo si vede: ambientato durante la Prima Guerra Mondiale, è interamente ricostruita la cittadina di Saint-Paulin che si trova sulla strada attraverso la quale i tedeschi sperano di arrivare direttamente a Parigi, ricostruiti minuziosamente ambienti, costumi, battaglie con gran dispiego di comparse.
Per centrare il bersaglio, i produttori hanno richiamato le tre protagoniste della serie Le Bazar de la Charité (tradotto in italiano con l'orribile titolo: Destini in fiamme), uscita un paio d'anni fa, affiancandovi pezzi da novanta come Sandrine Bonnaire e l'inossidabile Tchéky Karyo.
Come la precedente, anch'essa in costume, Les Combattants mette in scena un melodramma nel quale si svolgono quattro destini femminili, nel furore della guerra, nelle malefatte di personaggi disgustosi che della guerra approfittano per qualche loro miserabile interesse.
La sceneggiatura è ben fatta, gli intrecci reggono e si vede piacevolmente fino alla fine, anche se non mancano incomprensibili cose stupide nella messinscena, come una delle quattro protagoniste che va in giro con una pettinatura bionda, mechata, che sembra uscita da un numero di Vanity Fair 2023, e non da un film di guerra ambientato nel 1915.
Sono anche fasulle le strizzate d'occhio scioviniste, e qualche espediente narrativo poco o pochissimo credibile.
Tra le attrici protagoniste la più brava è la rossa Audrey Fleurot, che a quasi 50 anni, sa fare tutto, essere sensuale, materna, melodrammatica, moderna.

Fabrizio Falconi - 2023

18/10/22

Fabrizio Falconi fotografato da Gabriele Pagnini a Cannes nel 1987

 

Fabrizio Falconi fotografato da Gabriele Pagnini a Cannes nel 1987 

Nel Maggio dell'87, mentre seguivo il Festival di Cannes come inviato accreditato - in una edizione di grande livello, purtroppo vinta da un modesto film francese, Sous le soleil de Satan di Maurice Pialat, proclamazione che suscitò polemiche ma era piuttosto prevedibile visto che ricorreva il 40mo anniversario del festival), durante una delle mille corse su e giù per la Croisette mi fermai a bere qualcosa al bar del Majestic, insieme a Gabriele Maria Pagnini con cui avevo fatto amicizia in quei giorni.

Gabriele era ed è ancora uno dei migliori ritrattisti italiani ed era lì per Vogue. Senza nessuna posa, mi scattò al volo (inquadrando appena nell'obiettivo) questa foto, che mi ricorda i tempi belli di quegli anni e che mi piace ritrovare ogni tanto tra le cose.

Al link qui sotto alcune delle bellissime foto di Gabriele ai veri divi:



24/06/22

Jean-Louis Trintignant e il più grande dolore di un padre


Il grande Jean-Louis Trintignant con quella faccia "un po' così", bella, mite e triste, c'era nato e forse rappresentava anche un destino.

Visto che al cinema gli sono toccati spesso ruoli drammatici, o drammaticissimi.

Ma anche nella vita, Trintignant non è stato fortunato.

Il più grande dolore del mondo, quello di perdere una figlia, infatti l'attore francese lo provò, e nel peggiore dei modi.

Nella notte tra il 26 e 27 luglio 2003, mentre si trovava a Vilnius, in Lituania, per le riprese di un film che la vedeva protagonista, Marie Trintignant, la splendida e talentuosa figlia dell'attore, venne percossa brutalmente al viso e alla testa nel corso di un violento litigio dal suo compagno Bertrand Cantat, voce e leader del gruppo rock francese Noir Désir, che era sotto l'effetto di alcool. L'attrice venne soccorsa solo l'indomani intorno alle 7,30. La violenza dei colpi le causò un grave edema cerebrale, che le causò prima il coma e poi la morte, avvenuta il 1º agosto, dopo due interventi chirurgici alla testa.

Il racconto di quella notte aggravò ulteriormente la posizione di Cantat. Nonostante Marie fosse svenuta sul letto - e probabilmente già in coma - il suo assassino chiamò il fratello di Marie soltanto dopo qualche ora. E quando arrivò, lo convinse che "Marie stava solo dormendo" e che "con una aspirina tutto sarebbe passato il giorno dopo." Furono così perse ore preziose che compromisero definitivamente le condizioni della donna e causarono la sua morte.
Cantat fu condannato da un tribunale lituano a otto anni e rilasciato in libertà condizionata, dopo essere stato estradato in Francia, nel 2007, dopo soli quattro anni di carcere.
Sette anni più tardi, la seconda moglie di Cantat morì impiccata, ma la Procura di Bordeaux stabilì il non luogo a procedere nel 2013.
Marie Trintignant è sepolta nel cimitero di Père-Lachaise a Parigi.
Dal 2011 Cantat è un uomo totalmente libero. Dal 2013 ha fondato un nuovo gruppo, i Détroit. Il loro primo album Horizons esce il 18 novembre del 2013 e dal 2014 il gruppo dà inizio a una tournée in tutta la Francia.

Somma ingiustizia. Colpo dal quale Jean-Louis Trintignant non si riprese mai veramente.

- Fabrizio Falconi 2022

16/04/20

100 film da salvare alla fine del mondo: 61. Rosso Sangue (Mauvais Sang) di Leos Carax, 1986


Questo blog dedica, ad appuntamenti fissi - ogni lunedì - un catalogo personale dei miei 100 film da salvare "alla fine del mondo". Non saranno ovviamente vere e proprie recensioni, ma un piccolo campionario degli affetti per queste opere che hanno segnato epoche e vite di molti, se non di tutti. 

100 film da salvare alla fine del mondo: 61. Rosso Sangue (Mauvais Sang) di Leos Carax, 1986


Mauvais Sang, tradotto in Italia con Rosso Sangue, fu diretto da Leos Carax  nel 1986 e andrebbe la pena di rivederlo oggi, anche perché tratta di tematiche molto contemporanee che riguardano la misteriosa diffusione di un virus (all'epoca, ovviamente, tutti pensarono all'AIDS

Il titolo originale del film si riferisce alla poesia di Arthur Rimbaud "Mauvais Sang" (in Una stagione all'inferno ) e il film è denso di riferimenti a lui e all'opera di Louis-Ferdinand Céline.

La storia, come d'abitudine nella filmografia di quell'originalissimo e genialmente stravagante autore che è Leos Carax non segue un andamento regolare e ordinato. 

Le vicenda prende spunto da Marc e Hans, due vecchi gangster, che si ritrovano con i coltelli sotto la gola, dovendo ripagare un debito da uno squalo mutuo soprannominato "l'americano". 

Stanno pianificando il furto in un laboratorio di un vaccino contro una nuova malattia, chiamata STBO, che colpisce le coppie che fanno l'amore senza amarsi. 

Dopo la morte di Jean, che doveva essere l'elemento centrale del colpo, si appellano ai talenti del prestigiatore Alex, suo figlio. Alex, che vuole volare verso nuovi orizzonti dopo la morte di suo padre, lascia la giovane Liza e accetta di far parte della squadra.

Sulla strada per unirsi a loro nel loro nascondiglio, è attratto da una giovane donna in abito bianco, che il caso gli mette davanti nella persona di Anna, l'amante di Marc. 

Alex è sotto l'incantesimo di Anna che rappresenta un amore impossibile. Il furto delle colture dei virus va male: tradito da un amico, Alex viene colto in flagrante. 

Riuscendo a fuggire Alex si unisce a Marc e Hans, non senza incrociare il suo cammino gli scagnozzi americani, che gli spararono allo stomaco e gli rubano il bottino. 

Alex riesce al momento a sopravvivere e la squadra parte per l'aeroporto che deve portarli in Svizzera; lungo la strada, Alex vede la donna vestita di bianco che non era Anna, seduta al suo fianco. Ferito comunque a morte, collassa tra le braccia di Marc e Anna che manterranno una traccia indelebile del loro amore platonico.

Un film esteticamente ricchissimo, quasi estremo, come nello stile di Carax, che qui però raggiunge il massimo della sua efficacia espressiva collegata al tema dell'angoscia e dell'inquietudine che gli è familiare.  

Memorabile l'incredibile piano sequenza con la corsa del protagonista (attore-feticcio di Carax) Denis Lavant, sulle note di Modern Love di David Bowie.

Il film che ha lanciato Juliette Binoche.




24/02/20

100 film da salvare alla fine del mondo: 57. Fino all'ultimo respiro (À bout de souffle) di Jean-Luc Godard (1960)


Questo blog dedica, ad appuntamenti fissi - ogni lunedì - un catalogo personale dei miei 100 film da salvare "alla fine del mondo".  Non saranno ovviamente vere e proprie recensioni, ma un piccolo campionario degli affetti per queste opere che hanno segnato epoche e vite di molti, se non di tutti. 

100 film da salvare alla fine del mondo: 57. Fino all'ultimo respiro (À bout de souffle) di Jean-Luc Godard (1960)

Uno dei più bei film di sempre del cinema francese. Michel Poiccard (Jean-Paul Belmondo) è un gangster che lascia la Cote d'Azur per andare a prendere dei soldi a Parigi; lungo il percorso uccide  un poliziotto che lo vuole fermare per un controllo; a Parigi ritrova l'amante americana (Jean Seberg) e si dà da fare per rintracciare l'emissario, sempre braccato dalla polizia.

Jean-Luc Godard firma con quest'opera, il cui soggetto gli venne ceduto da François Truffaut nel 1959, (anno in cui quest'ultimo presentò a Cannes I 400 colpi), una sorta di manifesto della Nouvelle Vague, movimento formato da giovani e promettenti registi francesi, che nacque alla fine degli anni '50 con spirito di contestazione e innovazione di quelle categorie ormai solidificate del cinema del passato. 

Sfruttando la lezione dell'esperienza neorealista del cinema italiano e del cinema di genere noir americano, A' bout de souffle rivoluziona ogni canone, facendosi bandiera, filologicamente, di una estetica esistenzialista, alla quale il mezzo cinematografico - riprese sempre mobili e sconnesse, montaggio frammentato, particolari iperrealistici, attenzione maniacale per gesti e movimenti degli attori - presta al pieno le sue possibilità tecnico/espressive. 

Anche filosoficamente, il film, è un tributo alle tematiche esistenzialiste: Belmondo e Seberg incarnano i ruoli di due irregolari, che non possono e non vogliono, non potendo, sottostare alle regole grigie della società, e che scelgono di vivere con piena consapevolezza le loro volatili esistenze fino alla fine, fino alla reale eventualità che siano bruciate del tutto. 


Una lezione di stile e di coerenza che ancora oggi appassiona e non perde colpi.



30/09/19

100 film da salvare alla fine del mondo: 41. "Arrivederci, Ragazzi" (Au revoir les enfants) di Louis Malle (1987)




Questo blog dedica, ad appuntamenti fissi - ogni lunedì e ogni venerdì - un catalogo personale dei miei 100 film da salvare "alla fine del mondo".  Non saranno ovviamente vere e proprie recensioni, ma un piccolo campionario degli affetti per queste opere che hanno segnato epoche e vite di molti, se non di tutti. 

100 film da salvare alla fine del mondo: 41. "Arrivederci, Ragazzi" (Au revoir les enfants) di Louis Malle (1987) 

E' sublime il racconto autobiografico che diventa - con l'intervento decisivo dell'invenzione creativa - opera d'arte, come in Arrivederci ragazzi (Au revoir les enfants) il film che nel 1987 è valso a Louis Malle il Leone d'oro alla 44ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia. 

Il maestro francese arrivò alla decisione di girare questo film - divenuto uno dei suoi più importanti - dopo diversi anni di riflessione e dopo aver scritto la prima bozza per una sceneggiatura in 14 giorni. basato sulla storia vera accaduta durante la sua infanzia nel 1944, quando, all'età di undici, entrò nel convitto Petit-Collège ad Avon vicino Fontainebleau. 

Tuttavia, Malle spiegò abbondantemente che il  film non ricalca fedelmente ciò che accadde, sovrapponendosi alla storia, elementi e aneddoti recuperati altrove o puramente immaginari. 

Il progetto era originariamente intitolato My little madeleine (riferimento alla Madeleine de Proust), prima di diventare con il titolo di Au revoir les enfants, un classico mondiale. 

Il film è dunque ambientato in Francia nel Collegio dei Carmelitani Scalzi di Fontainebleau nel gennaio del 1944, dove un ragazzo di nome Julien Quentin viene mandato insieme al fratello maggiore François, durante la Seconda guerra mondiale

Arrivato in quel collegio trova buona parte dei suoi compagni insopportabili ed egoisti e avverte fortemente la nostalgia della madre. 

La sua vita cambia radicalmente quando un coetaneo, Jean Bonnet, viene inserito nella classe. Julien inizialmente percepisce il ragazzo come un rivale, visto che ottiene buoni risultati a scuola e sa suonare bene il pianoforte. Ma con il tempo nota che è un ragazzo riservato e misterioso: non riceve mai posta, parla poco, non si mescola mai con i compagni. Frugando nel suo armadietto Julien scopre il suo segreto: Jean Bonnet è in realtà Jean Kippelstein, un ragazzo ebreo che ha trovato rifugio sotto falso nome nel collegio, per sfuggire alle persecuzioni razziali. 

L'ostilità di Julien si trasforma così in curiosità, poi in amicizia. 

Mentre scorrono i giorni del 1944, la vita nel collegio procede in tutta tranquillità, finché Joseph, un ragazzo povero e zoppo che lavora come inserviente dai preti, viene licenziato. Infatti è stato scoperto a compiere furti di oggetti presenti nel collegio (in particolare cibo) per poi barattarli con oggetti personali degli scolari. 

Il ragazzo, senza un posto dove vivere e consumato dalla rabbia, si fa spia presso l'esercito tedesco, rivelando la presenza di ebrei nel collegio. 

Malgrado i mille sotterfugi inventati dai preti, e i disperati tentativi di salvarli, Jean e altri due ebrei, insieme al direttore del collegio, vengono portati via per intraprendere un viaggio che si concluderà solo con la morte. 

Julien lo guarda allontanarsi e nonostante il sacerdote li saluti dicendo «Arrivederci ragazzi, a presto!», capisce che non lo rivedrà mai più. Alla conclusione del film, il narratore - lo stesso protagonista adulto - informa che sia i suoi compagni ebrei che il sacerdote moriranno successivamente in un campo di sterminio nazista: i ragazzi ad Auschwitz, mentre il prete a Gusen I (Mauthausen). 

L'equilibrio della narrazione raggiunto da Malle in questo film è quello della piena maturità: tutta la vicenda viene raccontata con partecipata intensità, senza la minima sbavatura, trasportando lo spettatore tra le mura di quel lontano collegio in cui si sperimenta l'assurdità inaudita del male e la sua presenza inalienabile.  

Allo stesso tempo, Au revoir les enfants è un vero e potente inno all'amicizia, alla com-passione, alla partecipazione emotiva, alla memoria, alla solidarietà. Quelle doti umane che proprio nei momenti più bui della storia, tornano a riemergere, promettendo agli uomini di poter risorgere, ancora una volta, dal loro abisso. 

Fabrizio Falconi





24/05/19

100 film da salvare alla fine del mondo: 23. "Il raggio verde" (Le rayon vert) di Eric Rohmer (1986)


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100 film da salvare alla fine del mondo: 23. "Il raggio verde" (Le rayon vert) di Eric Rohmer (1986)

Quando Il raggio verde vinse il Leone d'Oro alla Mostra del Cinema di Venezia del 1986, in molti si rallegrarono per il grande riconoscimento che arrivava alla carriera di Éric Rohmer, uno dei più grandi cineasti francesi, paladino di un cinema povero, di rara profondità, attento alla perlustrazione meticolosa dei movimenti dell'animo umano. 

Il raggio verde in particolare era il quinto del ciclo Commedie e proverbi (Comédies et proverbes),  con il quale Rohmer, ispirandosi a detti popolari o orientali, offriva un catalogo balzachiano dell'umanità del suo paese. 

Il raggio verde prende il via da un verso di Arhur Rimbaud, tratto dal poema Chanson de la plus haute tour che è riportato nel fotogramma iniziale: Ah! Que le temps vienne Où les cœurs s’éprennent, cioè Ah! Venga il tempo In cui i cuori si innamorano! ; mentre il titolo del film deriva  dal fenomeno ottico del raggio verde e dall'omonimo romanzo di Jules Verne che ne era stato ispirato, cioè dal quel fenomeno per cui, in certe particolari condizioni atmosferiche, quando il sole sta tramontando sull'orizzonte è possibile percepire, solo per qualche fugace istante un riflesso verde  (dovuto alla rifrazione dello spettro della luce) nell'ultimo spicchio dell'astro prima che si inabissi. E una vecchia credenza sostiene che chi assiste a questo fenomeno conquista la possibilità di guardare con chiarezza nel proprio cuore e nel cuore altrui.

Si parla dunque d'amore.

E si seguono le vicende di Delphine, segretaria in un ufficio di Parigi, interpretata dalla splendida attrice Marie Rivière (la quale collaborò con Rohmer alla scrittura del film e dei dialoghi), la quale vede svanire il suo progetto di vacanze in Grecia quando l'amica con cui sarebbe dovuta partire vi rinuncia.

Delphine si trova a vivere dunque, in piena estate, quel disorientamento esistenziale preludio di quello che qualche decennio più tardi Zygmunt Bauman avrebbe chiamato "tempo liquido". Riceve diversi altri inviti, ma non è convinta: è un po' depressa, sogna il grande amore, si rammarica della sua solitudine, ma non ha sufficiente energia e voglia per lasciarsi coinvolgere da e con persone che non la interessano più di tanto, ritrovandosi a rimbalzare da un posto all'altro, da una situazione all'altro, da un cocktail a un ballo, a una vacanza all'altra, senza scopo.

Non la aiuta nemmeno la psicoterapia, da cui fugge, né i panegirici degli amici che la spingono a rinunciare a ciò che lei sente, cioè ad abbandonare le sue pretese romantiche, l'inseguimento di un vero amore e a lasciarsi vivere divertendosi come fanno tutti. 

Alla fine accetta l'invito di una amica per una vacanza in una casa di Cherbourg, che ha l'effetto di deprimerla ancor di più. E lo stesso avviene con un'altra trasferta di qualche giorno in Savoia, a casa del suo ex compagno. Torna a Parigi. E qui incontra un'altra amica che si offre di prestarle una casa a Biarritz.  Delphine accetta.

Quando è da sola sulla spiaggia di Biarritz, ascolta per caso la conversazione di alcune villeggianti che parlano di un romanzo di Jules Verne, Il raggio verde.

Qualche giorno dopo, mentre si trova a  Saint-Jean-de-Luz con un ragazzo che ha incontrato per caso alla stazione di Biarritz intento a leggere L'idiota di Dostoevskij, e con cui ha fatto amicizia, Delphine nota l'insegna di un negozio, “Il Raggio Verde” e chiede al ragazzo, Jacques, di accompagnarla a vedere il tramonto da un punto panoramico. Nell'attimo in cui il sole si inabissa definitivamente, Jacques e Delphine vedono per un breve momento la luce verde.

Così si chiude il film, lasciando immaginare che le speranze di Delphine possano aver trovato risposta grazie anche all'apparizione di quel misterioso segno.

A Rohmer interessa la descrizione del cuore puro - e perciò inquieto - di Delphine. Non è un caso che Jacques, il ragazzo che forse diventerà il suo amore, stia leggendo proprio L'Idiota. Delphine, in fin dei conti, è un Myskin moderno, un'anima che non sa e non può accontentarsi della prosa che ha intorno e che cerca qualcosa di indistinto, l'abbandono, la passione, il sentimento unico e felice di un amore non condizionato dai requisiti mondani. 

Realizzato come sempre fa Rohmer in formato di 16 mm e costato meno di 200 milioni di lire, questo film realizzò nelle sale incassi record con più di 15 miliardi.

Il segno di una genialità chapliniana di questo autore, capace di ottenere il massimo risultato col minimo impiego di mezzi, parlando direttamente al cuore dello spettatore, delle sue domande irrisolte, della sua inquietudine, annidata dietro ogni vita ordinaria. 

Fabrizio Falconi

25/03/19

100 film da salvare alla fine del mondo: 6. "Effetto Notte (La nuit américaine)" di Francois Truffaut (1973)


Questo blog dedica, ad appuntamenti fissi - ogni lunedì e ogni venerdì - un catalogo personale dei miei 100 film da salvare "alla fine del mondo".  Non saranno ovviamente vere e proprie recensioni, ma un piccolo campionario degli affetti per queste opere che hanno segnato epoche e vite di molti, se non di tutti. 

100 film da salvare alla fine del mondo: 6. Effetto Notte (La nuit américaine) di Francois Truffaut (1973).

La genialità e il sentimento sono le due coordinate su cui si muove Effetto Notte, il capolavoro firmato da Francois Truffaut nel 1973 (premio Oscar per il miglior film straniero quell'anno), che prende il titolo dal noto uso delle lenti artificiali per produrre l'effetto notturno in scene girate di giorno, che in francese si chiama appunto Nuit américaine.

Il film è anzitutto un prodigio tecnico, nel suo sperimentalismo: l'oggetto della storia è infatti proprio la realizzazione di un film, raccontato dal primo giorno di manovella fino all'ultimo giorno di riprese, con la separazione dell'intera équipe di attori e di tecnici.

Interamente girato negli studi della Victorine, a Nizza, dove è riprodotta una vera piazza di Parigi con all'interno i luoghi che servono alla realizzazione di un film:  il pullman dei camerini, quello delle sale di abbigliamento, di trucco, di proiezione di  montaggio, Effetto Notte racconta contemporaneamente 2 storie: quella del film che si sta girando (intitolato Je vous présente Pamela) e quella del backstage, del dietro le quinte, cioè quella che accade veramente tra i cinque attori protagonisti, il regista - Ferrand, interpretato dallo stesso Truffaut - il produttore e i tecnici).

Il film però non assomiglia per niente a 8 e 1/2 di Fellini così come ad altri film che hanno raccontato la lavorazione di una pellicola.

Ciò che interessa Truffaut infatti non è tanto il processo creativo del regista, che sta dietro alla nascita di un film, ma il mondo di aneddoti, di situazioni, di incidenti, piccoli e grandi che costituiscono le relazioni della gente che lavora a un film. 

E il prodigio in cui riesce Truffaut, veramente miracoloso, è proprio questo: che nessuna delle scene che avvengono tra gli attori, nessuno degli incerti, nessuna delle situazioni sembra di per sé particolarmente rilevante, né tutte insieme esse compongono una vera e propria trama; ma è proprio questa dimensione corale a coinvolgere a tal punto lo spettatore che ben presto egli si sente uno dei personaggi dietro le quinte, uno dei personaggi chiamati a dare il suo contributo a questa storia che sta per nascere, che deve nascere.

Si attua così un vero e proprio gioco di specchi in cui si confonde ciò che è vero con ciò che è raccontato, l'osservatore con l'osservato, il falso e il reale, l'essenziale e la maschera. 

Il cinema, ci dice Truffaut come sosteneva Bergman in Fanny e Alexander, è un mondo in movimento che si nutre e vive e rappresenta quello reale e influenza quel mondo a sua volta. 

Un film meraviglioso e poetico che non ci si stanca mai di rivedere.

Effetto Notte
(La Nuit Américaine)
di Francois Truffaut
Francia, Italia, 1973
con Jacqueline Bisset, François Truffaut, Valentina Cortese, Jean-Pierre Aumont.



07/11/15

"Detestavo il mondo intero, in blocco" - Una lettera di Francois Truffaut.





A Helen Scott



                                                                                              Parigi, 13 marzo 1962



Va bene, sono un porco. Ma in queste ultime settimane non le ho più scritto perché i miei pasticci familiari iniziavano ad essere troppo piccanti per gli "amici comuni" (...)
Per quanto la riguarda, sapevo di non dover temere da parte sua nulla di men che opportuno, e nulla che fosse frutto di cattive intenzioni. Ma nella situazione di estremo nervosismo in cui ero, mi son quasi sorpreso a pentirmi  di averla messa fin dall'inizio a parte di tutto.  Specialmente quando, nelle lettere che lei mi scriveva, trovavo allusioni a notizie uscite dal mio entourage: che un certo giorno ero triste, un altro allegro, ecc... Dalla situazione di tensione in cui mi trovo ormai da mesi alla mania di persecuzione il passo è breve.  Detestavo il mondo intero, in blocco. Adesso mi sto progressivamente riconciliando, ma ho ancora nausea di tutto. 
Riconciliato con Madeleine, vado con lei a fare questo viaggio, ma non ne sono affatto entusiasta. In realtà avremmo bisogno di vacanze vere, che ci prenderemo subito dopo. 
Esco da Jules e Jim come da un fallimento umiliante, e non riesco neppure a capire perché. 
Le scriverò ancora domani per gli "affari", questa è una lettera tra amici. Sono molto contento di rivederla presto, e sono anche contento che capiti dopo qualche giorno di sole e di riposo a Mar del Plata e a Rio, che mi permetteranno di comparire davanti a lei con un'aria meno decaduta e meno miserabile. 
mille saluti da

Francois Truffaut

07/03/14

Le notti di luna piena - Rohmer. Le difficoltà di una vita consapevole.




Le notti di luna piena

Notti di luna piena è un film francese diretto da Éric Rohmer, che uscì nelle sale il 29 agosto 1984, e che oggi è un po' dimenticato. 

E' il quarto capitolo di una serie che il grande cineasta chiamò Commedie e Proverbi , ispirandosi ogni volta ad un detto, a un motto popolare. 

In questo caso Rohmer dichiarò che Notti di luna piena si ispirava ad un proverbio della provincia di Champagne: "Chi ha due donne perde l'anima, chi ha due case perde la ragione" .

Più tardi, però, si scoprì che Rohmer si era preso gioco della stampa perché quel proverbio non esisteva e non era mai esistito, avendolo invece il cineasta inventato di sana pianta, per i fini del suo film, di quello che voleva dire. 

Nel film Louise è interpretata da Pascale Ogier, una talentuosa e sfortunata giovane attrice francese che per questo film vinse la Coppa Volpi alla Mostra del Cinema di Venezia di quell'anno ('84) e morì solo pochi mesi dopo, per un infarto, alla vigilia del suo ventiseiesimo compleanno (è sepolta al Père Lechaise di Parigi). 


Pascale Ogier 


Louise è dunque, nel film, una giovane decoratrice d’interni che vive insieme al suo compagno, l’architetto Rémi, in una casa alla periferia di Parigi; la ragazza possiede però anche un appartamento in città, nel quale spesso si ferma a dormire e grazie al quale si sente ancora una donna indipendente. 

Il miglior amico di Louise è Octave, un intellettuale che le fa compagnia durante le serate mondane di Parigi. 

Louise progetta (come dice il proverbio) di dividersi fra due case: un compromesso che riesce a far accettare anche al fidanzato Rémi, ma che tuttavia non eviterà lo sfaldamento del loro rapporto. 

La duplicità del personaggio di Louise è emblematica: da una parte la ragazza è davvero innamorata di Rémi e non vorrebbe compromettere la loro relazione; dall’altra si affanna in un parossistico tentativo di negare il proprio bisogno di stabilità affettiva, fino a concedersi un’avventura clandestina in una notte di luna piena. 

 In questo delizioso ritratto femminile, un’importanza particolare è riservata alla splendida amicizia fra Louise ed Octave (Fabrice Luchini), uno scrittore sposato e padre di una bambina, ma con il bisogno di evadere dalla vita familiare per ritagliarsi i propri spazi. 

In qualche modo, Louise e Octave sono come due anime gemelle, legate fra loro da una meravigliosa complicità (una complicità alla quale si unisce anche l’attrazione fisica che Octave prova per Louise, ma che lei invece non ricambia).

E non a caso nel finale, quando si ritrova sconfitta e sola (Louise, che si è pentita della sua insignificante scappatella con un giovane seduttore dopo una notte in discoteca, scopre che Rémi ha una amante da tempo, una allieva del suo corso di tennis), la ragazza sceglie di telefonare proprio a Octave, per darsi appuntamento con lui e confidare a lui il suo fallimento. 

E' un film che meriterebbe di essere rivisto oggi, quando la pretesa di dividersi, di tenere tutto insieme, sembra essere diventata un paradigma, che forse rispecchia la difficoltà di vivere una vita davvero consapevole.



Le notti di luna piena

03/04/12

Piccole bugie tra amici (Recensione)


 

Sta per uscire anche in Italia Les Petits Mouchoirs (tradotto impropriamente come al solito: "Piccole bugie tra amici"), il film di Guillaume Canet, che in Francia è diventato un piccolo 'caso' con 6 milioni di spettatori e molti articoli sui giornali.

Interpretato da ottimi attori come Marion Cotillard, François Cluzet e Jean Dujardin ('The Artist'), il film - una commedia agrodolce sulle vicende di un gruppo di amici quarantenni alle prese con la scomparsa di uno di loro (tema che sembra molto molto vicino a quello de 'Il Grande Freddo')  -  nella sua semplicità dice alcune cose interessanti sui vizi della contemporaneità occidentale e in particolare sulla condizione della 'generazione di mezzo'. 

Si scopre così che in  queste vite liberate e dissipate, e completamente incentrate sul sesso e sulla sessualità (vissute in modo nevrotico o paranoico), l'ultimo tabù rimasto è quello della omosessualità - ma solo di quella maschile. 

E' l'omosessualità, vera o presunta o immaginata di uno degli amici, a scatenare imbarazzi, reticenze, ironie, e insieme le risate più convinte offerte dal canovaccio della sceneggiatura.

Insieme a questo, l'altro enunciato del film - non molto originale, per la verità - è che questa generazione è fondamentalmente una generazione di immaturi, di persone non formate, di eterni adolescenti, incapaci di prendere una direzione, nella vita, perché eternamente in fuga dalle proprie responsabilità e dal sacrificio, eternamente inebriati dal piccolo o grande sballo continuo, dal divertimento - se possibile - che diventa tetro rituale di solitudine, dal cerebralismo inutile, dalla coltivazione ossessiva del proprio ego, esattamente come fanno gli adolescenti.  

La morte è l'unico antidoto, sembrerebbe decretare il film, l'unico mezzo che serve per crescere.   Per abbandonare i piccoli e grandi isterismi, le nevrosi, ed essere capaci di scoprire la parte autentica di sé, che normalmente si fa di tutto per non ascoltare, nel chiasso insensato di queste vite.

Un film interessante, decisamente troppo lungo - con almeno 40 minuti di troppo - che dimostra la vitalità del cinema d'Oltralpe.