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20/01/20

100 film da salvare alla fine del mondo: 52. Picnic ad Hanging Rock (Picnic at Hanging Rock) di Peter Weir (1975)



Questo blog dedica, ad appuntamenti fissi - ogni lunedì - un catalogo personale dei miei 100 film da salvare "alla fine del mondo".  Non saranno ovviamente vere e proprie recensioni, ma un piccolo campionario degli affetti per queste opere che hanno segnato epoche e vite di molti, se non di tutti. 

100 film da salvare alla fine del mondo: 52. Picnic ad Hanging Rock (Picnic at Hanging Rock) di Peter Weir (1975)


Picnic at Hanging Rock è il film che Peter Weir - all'epoca ventinovenne - girò nel 1975, adattandolo all'omonimo romanzo di Joan Lindsay e che alla sua uscita lanciò in orbita il nome del suo autore, e fece scoprire in occidente una cinematografia, quella dell'Oceania, di cui si sapeva pochissimo o niente. 

Un film divenuto un classico, ancora così attuale che di recente una serie televisiva è stata tratta - piuttosto fedelmente - dal film e distribuita con successo in tutto il mondo. 

Weir, sviluppò su una storia semplicissima, con una trama davvero esile, un film elegantissimo, pieno di riferimenti simbolici e di implicazioni nascoste. 

La vicenda è ambientata in Australia nell'anno 1900, in piena epoca vittoriana: le allieve di una scuola privata per ragazze vanno a fare un picnic ai piedi di Hanging Rock, un'enorme formazione rocciosa nello stato di Victoria , un tempo luogo di culto aborigeno. 

Mentre il sole è al suo apice e le ragazze si arrendono al torpore del pomeriggio, quattro di loro si avventurano in uno stretto passaggio roccioso, come irresistibilmente chiamate dalla roccia. 

Fatta eccezione per una ragazza ingenua che scappa, in preda al panico, le altre tre entrano in una cavità e scompaiono, insieme a uno dei loro insegnanti. 

Ricerche e ricerche sono organizzate per trovarle. Solo uno dei tre sarà trovato vivo ma completamente amnesico.

Il film dunque è volutamente enigmatico e incompleto per quanto riguarda la scomparsa delle ragazze e la soluzione del mistero. 

La prima scritta del film è una versione modificata di una frase di Edgar Allan Poe tratta da Un sogno dentro un sogno: " Quello che vediamo o quello che ci proponiamo sono un sogno, un sogno dentro un sogno " . 

Ad un certo punto del film, una delle ragazze recita le prime due righe del poema Casabianca di Felicia Hemans di cui ha dimenticato il resto (questa frase può essere una metafora di ciò che accade alle ragazze): “ Il ragazzo si trovava sul ponte in fiamme; da dove erano fuggiti tutti tranne lui ... " 

Lo stile di Peter Weir - che in seguito lavorò parecchio anche in America e ha diretto un notevole numero di film importanti (basti pensare L'attimo fuggente, Gli anni spezzati, The Truman Show, ecc..) - ha influenzato notevolmente le nuove generazioni. E Picnic resta una pietra miliare. 



28/10/19

100 film da salvare alla fine del mondo: 43. "Lanterne rosse" (大红灯笼高高挂) di Zhāng Yìmóu, Cina (1991)


Questo blog dedica, ad appuntamenti fissi - ogni lunedì e ogni venerdì - un catalogo personale dei miei 100 film da salvare "alla fine del mondo".  Non saranno ovviamente vere e proprie recensioni, ma un piccolo campionario degli affetti per queste opere che hanno segnato epoche e vite di molti, se non di tutti. 

100 film da salvare alla fine del mondo: 43. "Lanterne rosse" (大红灯笼高高挂)  di Zhāng Yìmóu, Cina (1991)

Il capolavoro di Yìmou che ha aperto, in Occidente, la conoscenza della filmografia di questo grande maestro e di diversi altri esponenti del cinema cinese.

La storia è ambientata nella Cina centrale, durante l'era dei signori della guerra cinese (1916-1928) . Songlian, bellissima, di 19 anni, istruita ma povera, sarà la quarta moglie del ricco Maestro Chen. 

All'arrivo nella tenuta, un palazzo racchiuso da alte mura, viene presentato alle altre donne del maestro: la prima moglie, Yun, la più anziana e molto legata alla tradizione sebbene completamente trascurata dal maestro; poi la seconda moglie, Zhuoyun, dall'aspetto amichevole e loquace; e infine la terza moglie, Meishan, ex cantante lirica cinese , che accoglie Songlian come rivale

Nel gineceo, ciascuna delle quattro mogli di Chen vive in un appartamento la cui porta si apre su un cortile; questo rettangolo stretto delimitato dalle curve sporgenti dei tetti, sembra la metafora visiva del sesso di queste donne

Il peso delle tradizioni è un elemento chiave di questo ambiente chiuso, in cui ogni donna che riceve la visita del marito vince il giorno seguente il diritto di ordinare i servi e di scegliere il cibo del pasto che prendono in comune con il maestro .

Gli intrighi tra le quattro donne, lo studio accurato di un ambiente concentrazionario, eppure formalmente impeccabile, i meccanismi punitivi e gratificanti sullo sfondo della sessualità come misura del potere e delle relazioni.

Un grande film che non si dimentica e che resta nel cuore e nella testa.

Laterne Rosse vinse il Leone d'argento- Premio speciale della Regia al Festival di Venezia del 1992 oltre a innumerevoli altri premi in tutto il mondo.

Lanterne rosse"
(大红灯笼高高挂)  
di Zhāng Yìmóu  
Cina 1991
durata 125 minuti
con Gong Li, Caifei He, Cuifen Cao, Lin Kong


08/07/19

100 film da salvare alla fine del mondo: 34. "Stalker" di Andrej Tarkovskij (1979)


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100 film da salvare alla fine del mondo: 34. "Stalker" di Andrej Tarkovskij (1979)

A Piranesi e al suo mondo fantastico di rovine fatiscenti e territori ombrosi da esplorare, si sono ispirati in tanti, negli ambiti più diversi. 

Emmanuel Carrère, in un saggio di parecchi anni fa citava Piranesi, proprio paragonando la sua imagerie a quella di un regista indimenticato, uno dei grandi del novecento, proveniente dagli estremi territori della Russia, Andrej Tarkovskij.

E lo faceva a proposito di uno dei film più visionari e misteriosi del regista di Zavraz’e (un minuscolo villaggio sulle rive del Volga), Stalker.

In quel film, Tarkovskij prendeva le mosse (come aveva già fatto per il precendete Solaris) da un racconto lungo di fantascienza, Piknik na obocine (Picnic sul ciglio della strada), scritto dai fratelli Arkadij e Boris Natanovic Strugackij nel 1971.

Stalker (girato tra grandi difficoltà produttive, lunghe pause e riprese tra il 1977 e il 1979) racconta del viaggio di tre uomini – uno scrittore alcolizzato,  uno scienziato, e la loro guida, cioè lo stalker (termine che deriva dall’inglese to stalk, avanzare furtivamente), attraverso la Zona, un territorio misterioso e molto pericoloso che attrae e spaventa, nel cui cuore esiste una misteriosa stanza dove vengono realizzati i desideri.

Nessuno sa cosa sia la Zona, esattamente.  Lo stesso Tarkovskij perdeva la sua proverbiale pazienza quando qualche giornalista, durante i festival ai quali Stalker partecipò, chiedeva di spiegare cosa fosse esattamente. La Zona, come ogni simbolo disseminato nei film di Tarkovskij è ad uso e consumo dello spettatore.  E’ lo spettatore a decidere cosa sia la Zona. 

Il film non lo spiega. C’è l’eventualità che sia il lascito di una civiltà extraterrestre, oppure il risultato di una serie di esperimenti militari. Fatto sta che l’accesso al territorio è severamente precluso. E che solo gli intrepidi stalker osano violarlo.  Il paesaggio che si delinea oltrepassato il filo spinato è oscuro e minaccioso: come scrive Carrère, tutto il viaggio dei tre uomini (accompagnato da dispute di carattere filosofico tra lo scrittore e lo scienziato) è costantemente spiazzato dalla collocazione sul paesaggio di “rovine del futuro”  che fanno pensare proprio al genio di Piranesi.

Mi hanno sovente domandato cos’è la Zona, ha scritto Tarkovskij nel suo celebre Scolpire il tempo, che cosa simboleggia, ed hanno avanzato le interpretazioni più impensabili. Io cado in uno stato di rabbia e disperazione quando sento domande del genere. La Zona, come ogni altra cosa nei miei film, non simboleggia nulla: la Zona è la Zona, la Zona è la vita: attraversandola l’uomo o si spezza, o resiste. Se l’uomo resisterà dipende dal suo sentimento della propria dignità, dalla sua capacità di distinguere il fondamentale dal passeggero.

In queste poche righe Tarkovskij dice già molto, suscitando molte nuove domande.

La Zona che è la protagonista del suo film, è un cumulo di rovine; moderne rovine: edifici abbandonati, strade spettrali, anfratti incolti e paludosi: la luce è sempre invernale o notturna, il cammino dei tre uomini è accidentato, irto di difficoltà, e senza nessun vero piacere. 
Rivedendo il film oggi ritorna alla mente il motto di Piranesi: sporcare per trovare.

I tre uomini devono sporcarsi, e parecchio per trovare quello che cercano e che in fondo non sanno nemmeno loro cosa sia.  E’ la sete di conoscenza, in fondo, la curiosità, il desiderio di risposta alle domande che risposte non hanno, a guidarli in questi caseggiati dai vetri sfondati, a questi pavimenti sfondati o pieni di cumuli di terra, a questi canali pieni d’acqua putrida.

Se la Zona è la vita, come dice Tarkovskij, attraversare questo territorio vuol dire sporcarsi le mani e i piedi, come accade a chi vive.  Solo chi rifiuta la vita, rimane pulito e diafano, ma la terra non germoglia in lui, ed è come essere già morti. Sporcarsi insomma è la prerogativa dei vivi.

Attraversare il luogo della catastrofe alla ricerca di risposte. E soprattutto con l’obiettivo di esaudire il proprio desiderio.

Solo che, Tarkovskij, lo sa, spesso gli uomini non sanno nemmeno cosa vogliono veramente.  E così mette in bocca allo Stalker il racconto tragico di un collega, un altro Stalker, un certo Porcospino che, riuscito a penetrare fino alla stanza dei desideri, e chiesto che potesse tornare in vita il fratello, ha finito per diventare ricco una volta uscito dalla Zona, e però, infelice più di prima si è poi suicidato.

Cosa succede ai due viaggiatori, allo scrittore e allo scienziato ?

Giunti sulla soglia della stanza, nessuno dei due ha il coraggio di entrare.  Lo scienziato vorrebbe addirittura distruggere per sempre quel luogo angosciante, estraendo dalla sua bisaccia un ordigno nucleare;  ma anche lo scrittore si rifiuta di entrare, asserendo che i desideri sono, alla fine, quasi sempre ignobili.

Il ritorno dei tre uomini appare dunque come una sconfitta.  L’attraversamento del mare di rovine, sembra non aver prodotto nulla in loro, di non aver procurato nessun cambiamento.

Ma non è così.

Dopo essersi separati nello stesso bar – in rovina – dove si sono incontrati la prima volta, è lo Stalker che seguiamo nel suo ritorno a casa.

Qui egli dà sfogo alla disperazione: ha visto due degli uomini più celebrati, arrendersi di fronte alla porta della fatidica stanza; in definitiva rinunciare alla conoscenza, sopraffatti dai rispettivi pregiudizi.

E’ la constatazione della perdita della fede: il tema che più di ogni altro sta a cuore a Tarkovskij. E’ proprio la mancanza di fede a negare ai due viaggiatori la possibilità del cambiamento.  Ed è proprio lo Stalker l’unico di loro che sarà, misteriosamente, ricompensato. La moglie cerca di consolarlo. Ma alla loro figlia, che è protagonista dell’ultimo lentissimo piano sequenza del film, e che non ha l’uso delle gambe, succede qualcosa: la vediamo recitare a mezza voce una poesia, poi poggiando il viso sul tavolo fissare gli oggetti posati sopra – un bicchiere ed una bottiglia – che si muovono sotto il suo sguardo.  La bambina ha dunque ricevuto in dono misteriosi poteri ?  Se non riuscirà a camminare riuscirà però a spostare gli oggetti con il pensiero ? Non lo sappiamo. Ma ascoltiamo, in sottofondo, le inconfondibili note dell’Inno alla Gioia di Beethoven (sembrano provenire da lontanissimo) che chiudono il film.

Lo Stalker,  che ha attraversato la Zona, sembra, secondo quanto ci dice Tarkovskij aver resistito. Non si è spezzato. In qualche modo, la sua fede (la fede nella vita più che la fede religiosa) è sopravvissuta anche ai dubbi e alle diffidenze dei due uomini sapienti che ha accompagnato con sé; ha saputo distinguere il fondamentale dal passeggero. 

E forse per questo la Zona ha esaudito il suo desiderio (un desiderio altruistico, rivolto alla figlia).

Le rovine dunque, sembrerebbe suggerire Tarkovskij, hanno anche quest’altra incredibile proprietà: non solo quella di far rinascere, ma anche di salvare.

Un tema che stava personalmente a cuore al regista, avendo egli sperimentato la durezza dell’essere un artista libero e creativo negli anni dell’Unione Sovietica.

Gli anni della realizzazione di Stalker sono particolarmente difficili per Tarkovskij.  La notorietà improvvisa che gli ha portato l’aver vinto il Leone d’Oro di Venezia ad appena trent’anni (ex aequo con Valerio Zurlini per Cronaca Familiare) con L’infanzia di Ivan nel 1962, gli ha creato in patria parecchi problemi.  Andrej Rublev, il film seguente arriva al Festival di Cannes del 1966 in ritardo e avventurosamente, dopo aver sopportato molti tagli.  Ciò nonostante la critica internazionale reputa Tarkovskij già un maestro e gli consegna il Premio Speciale della Giuria al Festival di Cannes del 1972 per Solaris.  Ma il crescente apprezzamento internazionale, e il rifiuto di prestarsi in qualsiasi modo alla propaganda interna gli attira forti critiche e un clima sempre più irrespirabile.  Il regime, pur senza sconfessarlo pubblicamente, sa come mettere i bastoni tra le ruote, sa come rendere la vita difficile al regista, anche semplicemente negando permessi burocratici, procrastinando gli appuntamenti con i funzionari, ostentando il silenzio degli uffici amministrativi, negando i fondi e i luoghi per le locations.

Ma Tarkovskij non può che seguire la sua piena libertà creativa, comunque.
Realizza tra mille difficoltà e ostacoli sempre più gravosi prima Lo Specchio (1974)  che raggiunge il culmine del biasimo nazionalistico per la sua scelta di narrare una storia puramente autobiografica, e poi Stalker, che sarà l’ultimo film girato da Tarkovskij in Russia, prima della fuga in Italia.

Negli anni in cui realizza Stalker, il regista vive una stagione di umiliazioni in patria.  La distribuzione dei suoi film è relegata alla terza categoria (opera di èlite) e quindi fuori dai grandi circuiti. Per girare Stalker deve ottenere l’autorizzazione direttamente dal Presidium del Soviet Supremo. Ciò nonostante il film viene presentato fuori competizione al festival di Rotterdam e di conseguenza inibito a partecipare al concorso per la Palma d’Oro al Festival di Cannes.

Tarkovskij è un artista sempre più ingombrante e scomodo. E’ solo un anticipo di quello che avverrà qualche anno dopo quando, a seguito della scelta di Tarkovskij di non tornare in patria, il regime si vendicherà impedendo alla moglie Larissa, insieme ai figli Andrej e Arsenij, di raggiungere il marito: riunione che si concretizzerà soltanto sul letto di morte di Tarkovskij, pochi giorni prima della sua morte avvenuta a Parigi la notte del 28 dicembre 1986.

Nei lunghi mesi di riprese di Stalker, Tarkovskij annota nei suoi diari lo sconforto e la disperazione per il lavoro andato a monte, per tutte le incredibili difficoltà insorte, in gran parte procurate dai grigi burocrati con cui ha a che fare costantemente. Scrive:
Sono successe molte cose. Una specie di catastrofica distruzione, di tale portata che, senza la minima ambiguità, ciò che ne rimane è solo e comunque l’impressione di una tappa superata e di un nuovo traguardo da raggiungere e ciò suscita almeno un po’ di speranza. (…)  Tutto quello che abbiamo girato a Tallin è da buttare. Tutto è fermo per almeno un mese. Alla vigilia dell’inizio della lavorazione di Stalker. Ma se così dev’essere, tutto sarà nuovo. (…) Bisogna ricominciare tutto da zero.  Ne avremo la forza ? 

Le rovine di cui la trama di Stalker è disseminata sembrano dunque coinvolgere anche il film stesso. Tarkovskij descrive la catastrofica distruzione che lo costringe a ripartire da zero. O comunque su quelle fatiscenti rovine che sono state l’inizio del suo film (andato a male per causa soprattutto di un operatore incompetente e per lo sviluppo dei negativi Kodak condotto maldestramente dai laboratori della Mosfilm.

Preso dal nuovo inizio, Tarkovskij non scrive più nulla nel diario per i successivi quattro mesi. Riprende la penna in mano solo a dicembre di quell’anno e il giorno 28  (28 dicembre, lo stesso giorno della sua morte qualche anno più tardi) scrive un solo passo di una citazione tratta da Lao-Tze, che ha inserito alla fine nella sceneggiatura del film, e ha messo in bocca allo Stalker,  in una delle scene più importanti:

La debolezza è sublime, la forza spregevole. Quando un uomo nasce, è debole ed elastico. Quando muore è forte e rigido.
Quando un albero cresce, è flessibile e tenero; quando diviene secco e duro, esso muore. La durezza e la forza sono le compagne della morte. La flessibilità e la debolezza esprimono la freschezza della vita. Perciò chi è indurito, non vincerà. 

Sembra un vero manifesto dell’opera di Tarkovskij.
Lo Stalker recita questo monologo proprio in opposizione alle presunte (rigide) certezze dello scrittore e dello scienziato.

La fragilità e la debolezza sono i paradigmi in cui crede Tarkovskij, e ciò che permette alla fragile e debole poesia dello Stalker di essere ascoltata ed esaudita.
E cosa esiste di più fragile e debole delle rovine ?

Si capisce così per quale motivo Tarkovskij abbia scelto soltanto un teatro di rovine come sfondo per il suo film. Rovine che torneranno ancora – nella magnificenza autunnale della Toscana dell’Abbazia di San Galgano -  a  popolare molte scene del film successivo, Nostalghia.

La vita stessa del regista, durante le riprese del film sembra andare in pezzi. Sempre più angosciato per il suo futuro lavorativo, per la sorte dei familiari e per quelle del film che non riesce a compiersi, Tarkovskij subisce un infarto.

Sono inchiodato a letto ormai da 9 giorni, scrive il 15 aprile del 1978 (14), i medici dicono che forse oggi mi sarà concesso di stare a letto seduto.  Era proprio una cosa che non avrei mai pensato mi potesse succedere: avere un infarto a 46 anni. E al contempo sarebbe stato molto strano se non fosse successo. Che Dio li perdoni.

Il regista si riprende in fretta. Due settimane dopo annota che l’infarto si sta cicatrizzando.

Ma è solo il primo segnale di una salute precaria, che risente delle difficoltà psicologiche, sempre più gravi per Tarkovskij, diviso dalla patria, dalla famiglia e in qualche misura da se stesso.

Il viaggio in Italia, allora che inizia nel luglio 1979, è per lui una vera rinascita. Il regista, accompagnato dal fedele amico Tonino Guerra inizia una peregrinazione in lungo e in largo per la penisola alla ricerca di luoghi idonei per girare il suo vagheggiato progetto di un film italiano, ospite nelle case degli intellettuali, attratti dal carisma di quel russo mistico che non parla una parola né di italiano né di russo.

Per Tarkovskij è anche una occasione di sperimentare nuove vie. Un tratto lo accomuna agli altri due maestri, Bergman e Fellini ed è il fascino per il magico, l'inconsueto, il soprannaturale, l'inspiegabile.

Nella sua curiosa voracità intellettuale, Tarkovskij che ha già avvicinato in patria i temi più lontani come la parapsicologia e gli avvistamenti UFO,  si imbatte anche nella Meditazione Trascendentale.

In quel mese del 1979 è infatti ospite insieme a Guerra di Michelangelo Antonioni,  nella sua splendida villa in Sardegna, sulla Costa Paradiso.

Tarkovskij descrive nei diari la bellezza della villa ("Tamarindi, alberi nani, ammassi rocciosi, c'è dell'acqua tutto intorno...Una spiaggia straordinaria"); descrive i suoi ospiti (Michelangelo è molto gentile, sua moglie Enrica è piena di attenzioni, una padrona di casa perfetta); manifesta i suoi dubbi  (A sentire Tonino, questa casa costa circa 2 miliardi di lire, un milione e settecentomila dollari. La casa. Michelangelo ha troppo "buon gusto"). 

Il 31 luglio, tre giorni dopo il suo arrivo, annota: Oggi ho compiuto il mio primo esercizio di Meditazione Trascendentale, sotto la guida di Enrica.  Domani faremo l'esercizio individualmente.  Gli esercizi, o le tecniche da imparare sono quattro. Alla fine della prima lezione, l'allievo deve offrire al suo maestro (in segno di riconoscenza) un mazzo di fiori, due frutti e un pezzo quadrato di stoffa bianca (un tovagliolo oppure un fazzoletto). Domani dovrò andare a fare un po' di compere con Michelangelo. 
Prima meditazione: Mantra. 

E il giorno dopo, 1 agosto:

Meditazione al mattino. Più profonda, ma avevo la tendenza ad addormentarmi. E'un peccato che il primo giorno di digiuno coincida con il mio giorno di meditazione. Non ho avvertito le "pulsazioni blu". 
In serata la mia meditazione ha funzionato bene. Enrica ha tenuto lezione a me e a Lora (ndr la moglie russa di Tonino Guerra), Ho visto di nuovo dei lampi blu. (15)

Fa una certa impressione immaginare Tarkovskij, Antonioni, Guerra, in quella magica estate del 1979. 

Appena sei anni dopo, nel dicembre 1985, appena terminate le riprese del suo ultimo film,Sacrificio (Offret), sorta di testamento spirituale con la storia di un uomo che assiste al crollo di ogni cosa in cui crede in seguito all'improvviso scoppio di una guerra nucleare, Tarkovskij a Parigi si sottopone ad una radiografia e scopre di avere “un’ombra” nel polmone sinistro. Dieci giorni dopo gli viene diagnosticato un tumore incurabile.

I diari registrano la reazione umana di Tarkovskij, la disperazione, che si rivolge quasi subito ad altro, agli altri, a coloro che ama. La malattia ottiene almeno questo effetto: l’interessamento personale del presidente francese Francois Mitterrand fa sì che Mikhail Gorbaciov, divenuto Segretario Generale del Partito Comunista Sovietico da qualche mese, prenda a cuore la vicenda dei famigliari del regista concedendo finalmente a madre e figlio di uscire dalla Russia e ricongiungersi al padre.

Sono arrivati, Andrjusa e Anna Semenovna ! scrive a grandi lettere Tarkovskij nel suo diario, il 19 gennaio del 1986 e questa pagina è accompagnata dalla prima foto che ritrae insieme padre e figlio, di nuovo insieme dopo cinque anni. Andrjusa è un adolescente,  Tarkovskij è un uomo malato, nel suo letto, gli occhiali sulla federa,  un libro (la Bibbia?) accanto al cuscino.   Gli ultimi mesi trascorrono a Parigi, tra  momentanei miglioramenti, progetti per nuovi film e fitte notazioni sul diario.

Eppure anche l’attraversamento di questa rovina, regala a Tarkovskij, squarci di luce inaspettata.      L’11 aprile, quando la malattia si è fatta più dura, con fortissimi dolori al petto e alla schiena, e i conati di vomito causati dalla chemioterapia, scrive:  Un’immensa speranza è penetrata oggi nell’anima mia: non so come definirla, semplicemente come felicità.   La speranza che la felicità sia possibile.  Fin da stamattina le finestre della mia stanza d’ospedale sono inondate di sole. (16)

Un mese dopo, Sacrificio viene presentato al Festival di Cannes.  La giuria, all’ultima votazione gli preferisce, per la Palma d’Oro, Mission di Roland Joffé. A Sacrificio viene assegnato, tra le polemiche (17), il Gran Premio Speciale della Giuria.  Il figlio,  Andrei, va a ritirare il premio sulla Croisette  al posto del padre.

Nelle settimane successive, che gli restano da vivere,  Tarkovskij continua a riflettere e a scrivere, febbrilmente, su un vagheggiato film sui Vangeli.  Torna sul tema del sacrificio: l’amore è sempre un donarsi agli altri, scrive. E nonostante il termine sacrificio, sacrificale,  comporti un significato quasi negativo ed esteriormente distruttivo (se preso nella accezione del linguaggio parlato) riferito alla persona che si sacrifica, in effetti l’essenza di quest’atto è sempre amore, cioè un fatto positivo, creativo, divino. (18)      Sul tema del sacrificio, dell’incontro tra il sacrificio umano – quello di Giuda Iscariota, ma anche quello di ogni uomo, e dello stesso Tarkovskij, ormai giunto al termine della sua vita  - e quello divino di Cristo, si giocano le ultime riflessioni del grande regista, che sembra consegnare la sua anima, “faccia a faccia con la propria vita”, come scrive il 4 novembre, un mese prima di morire.

Sono anche le considerazioni che concludono il suo libro più famoso, quello nel quale Tarkovskij ha riassunto il suo pensiero teorico, sul cinema, sulla creazione, sull’arte (19) . Nelle ultime pagine di Scolpire il Tempo, scrive:  Il nostro mondo è scisso in due parti: il bene e il male, la spiritualità e il pragmatismo.  Il nostro mondo umano è costruito, è modellato sulla base delle leggi materiali poiché l’uomo ha costruito la propria società sul modello della morta materia. Perciò egli non crede nello Spirito e rifiuta Dio. C’è una speranza che l’uomo sopravviva, nonostante tutti i segni del silenzio apocalittico preannunciato dall’evidenza dei fatti ?  La risposta a questo interrogativo, forse, è  contenuta nell’antica leggenda sulla resistenza dell’albero inaridito, privato dei succhi vitali, che ho preso come base del film più importante nella mia biografia artistica (20).  Un monaco, passo dopo passo, secchio dopo secchio portava l’acqua sulla montagna e innaffiava l’albero inaridito, credendo senz’ombra di dubbio nella necessità di quel che faceva, senza abbandonare neppure per un istante la fiducia nella forza miracolosa della sua fede nel Creatore e perciò assistette al Miracolo: una mattina i rami dell’albero si rianimarono e si coprirono di foglioline. Ma questo è forse un miracolo ?  E’ soltanto la verità.   (21)

I rami dell’albero si rianimano e si coprono di foglie. Rinasce ciò che è inaridito. Guarisce per sempre ciò che è malato: il sogno di Tarkovskij è sempre lo stesso. E’ il sogno dello Stalker.  Le rovine generano. Solo il chicco di grano che muore, germoglia. Non importa se si muore. L’arte rivela la vita, e la conserva. Anche oltre la morte.


Stalker
di Andrej Tarkovskij 
URSS, 1979
Durata 161 minuti
con Anatoliy SolonitsynNikolaj GrinkoAleksandr KaydanovskiyAlisa Frejndlikh, Natasha Abramova, Y. Kostin, R. Rendi, F. Yurma, Oleg Fyodorov




01/06/19

100 film da salvare alla fine del mondo: 25. "Schiava d'amore" (Раба любви), di Nikita Mikhalkov, Unione Sovietica (1976)



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100 film da salvare alla fine del mondo: 25. "Schiava d'amore" (Раба любви), di Nikita Mikhalkov, Unione Sovietica, (1976)

Scritto insieme a Friedrich Gorenstein e a Andrej Končalovskij (fratello di Mikhalkov), Schiava d'amore è il capolavoro giovanile di Nikita Mikhalkov (figlio del grande scrittore e poeta Sergej che è anche tra l'altro l'autore dell'inno nazionale russo), che all'epoca aveva 31 anni. 

Il film racconta le vicende di una diva del cinema muto russo Olga Voznesenskaya (una straordinaria Elena Solovey), ispirato dalla vera vita della divina Vera Kholodnaya . 

Il film è ambientato nell'autunno del 1918, proprio durante la guerra civile russa e la rivoluzione d'Ottobre.

La star del cinema muto, Olga Voznesenskaya, in quei giorni ha appena festeggiato un trionfo, insieme al suo co-protagonista e amante, Vladimir Maksakov, nella commedia romantica "Slave of Love". 

Nel frattempo però i bolscevichi hanno conquistato Mosca e il set cinematografico si trasferisce a sud, a Odessa , per lavorare a una nuova produzione lontano dai combattimenti. 

Olga è una star difficile, a volte capricciosa e narcisista, profondamente avvolta nella sua stessa celebrità. 

Maksakov non accompagna gli altri a Odessa, e Olga rifiuta di apparire senza il suo partner, con le rimanenti scorte di pellicola inutilizzata ormai deteriorata. 

Sul set Olga conosce l'operatore Viktor Potozki, e presto si innamora di lui. Inoltre Fedotov, il capo spia locale della "Guardia Bianca" (un'importante forza antibolscevica nella vera e propria guerra civile del tempo), appare sul set del film con crescente frequenza, mentre i bolscevichi vengono arrestati in tutto il paese. 

Dopo un poco di tempo, attori e personale di supporto arrivano da Mosca, portando con loro nuove provviste affinché le riprese possano riprendere. Maksakov però non è con loro,  e soprattutto si percepisce nell'aria che il gusto del pubblico sta cambiando, per i film muti, e c'è bisogno di abbellimenti e cambiamenti estetici che Olga rifiuta con sdegno.  

Inizia da qui un specie di spy story in cui le vicende del set e del film che non si riesce a finire si mescolano alle vicende che ormai scuotono alle fondamenta la Russia. 

Olga è a pezzi psicologicamente e si rifiuta di continuare il suo lavoro sul set.

La situazione precipita: l'operatore del film, considerato un bolscevico, viene colpito a morte dagli uomini di Fedotov. 

Olga viene rapita a bordo di un tram e portata nel suo albergo, giungendo al sacrificio personale non prima comunque di essere passata dalla parte bolscevica, di aiutare i clandestini e di sparare a un ufficiale "bianco". 

E' forse vero, come fu fatto notare da qualche critico, che nel film Mikhalov offra una visione idealizzata della rivoluzione, non basata sulla realtà in quanto tratta la rivoluzione e l'amore come sinonimi. Scrive: "la seduzione sessuale nel vecchio mondo è rimpiazzata dalla seduzione politica compiuta da Viktor per portare Olga dalla parte della rivoluzione: il suicidio di Olga nel film del vecchio mondo è sostituito dalla resa della sua vita all'ideale di Bolscevismo : salva il film di Viktor e viaggia verso una nuova vita "

Un melodramma che solo la maestria assoluta di Mikhalkov e il suo puro genio cinematografico rende capace di attraversare l'epoca in cui fu girato e diventare un classico. 


Nel 1978 il film è stato votato come uno dei migliori film stranieri dal National Board of Review ed è stato votato come il terzo miglior film straniero dell'anno a sia ai Los Angeles Film Critics Association Awards che ai New York Film Critics Circle Awards . Il New York Times lo definì un "capolavoro inaspettato", mentre è noto l'incredibile entusiasmo manifestato da Jack Nicholson e idal regista Monte Hellman quando lo videro per la prima volta, pensando anche di trarne una versione americana. 

Fabrizio Falconi

Schiava d'Amore
Раба любви 
Nikita MikhalkovUnione Sovietica, 1975 
Durata 94 minuti 
con Elena Solovéj, Aleksandr Kalyagin, Rodion Nachapetov,  Oleg Basilašvili


27/05/19

100 film da salvare alla fine del mondo: 24. "Apocalypse Now" (Apocalypse Now) di Francis Ford Coppola (1979)


Questo blog dedica, ad appuntamenti fissi - ogni lunedì e ogni venerdì - un catalogo personale dei miei 100 film da salvare "alla fine del mondo".  Non saranno ovviamente vere e proprie recensioni, ma un piccolo campionario degli affetti per queste opere che hanno segnato epoche e vite di molti, se non di tutti. 

100 film da salvare alla fine del mondo: 24. "Apocalypse Now" (Apocalypse Now) di Francis Ford Coppola (1979)

La pellicola è ambientata nel 1969, in piena guerra del Vietnam. Il capitano Benjamin L. Willard (Martin Sheen), è appena tornato a Saigon: è un ufficiale dell'esercito americano, già per tre anni in Vietnam, formalmente in ruolo nella 173ª Brigata Aviotrasportata, ma in realtà incaricato di operazioni speciali della CIA. 

L'incarico che gli viene affidato stavolta è molto difficile e pericoloso: per questo altri, prima di lui, hanno rinunciato. Dovrà trovare ed eliminare il pericoloso e folle colonnello Kurtz (interpretato da un demoniaco Marlon Brando) che si asserragliato nel cuore della giungla instaurando, a capo di una colonia di locali, un dominio violento e isolato.

Apocalypse Now è la descrizione di questa discesa ad inferos, di questo viaggio che Willard deve intraprendere per raggiungere Kurtz è che è costellato da prove e da visioni ai limite del fantastico, come quando si imbatte nel capitano William "Bill" Killgore, della “Cavalleria dell'aria” che prima dell'attacco spara Wagner a tutto volume dagli altoparlanti che ha fatto installare sui suoi elicotteri e che, durante il combattimento in corso, decide che deve assolutamente fare surf. 

L'attraversamento della giungla, dei suoi fantasmi e dei suoi territori d'ombra è anche - proprio come nel romanzo ispiratore di Coppola, il "Cuore di Tenebra" di James Conrad - un viaggio all'interno dell'ombra interiore, dei fantasmi più cupi dell'inconscio, dei tabù e degli orrori che galleggiano nel cuore umano. 

Fino all'incontro con l'orrore, con il male per eccellenza: ovvero Kurtz e i suoi guerrieri. Arrivato al cospetto del Colonnello, per Willard non ci saranno molte alternative e l'unica strada possibile si rivelerà tutt'altro che rassicurante, in un memorabile finale di catarsi e violenza. 

L'opera di Coppola è ormai un must assoluto e una delle pietre miliari della cinematografia di ogni epoca. Tutto in questo film, dalla fotografia di Vittorio Storaro al montaggio, alla scenografia, alla recitazione allucinata degli attori principali, alla colonna sonora di Carmine Coppola, è al servizio del mondo estetico che Francis Ford Coppola crea, incantato e incantando, distruggendo l’epica romantica della guerra e tutto l’immaginario che la sorregge. 

La Guerra è una nave di folli, dove l'animo umano si perde alla ricerca e nel terrore dei propri fantasmi, in una morale al contrario portata alle sue estreme conseguenze dall'estremo, lucido immoralismo del colonnello Kurtz e della sua nichilistica concezione del destino umano. 

Un film che è divenuto leggenda - anche a partire dalle incredibili circostanze nelle quali fu diretto e dell'incredibile travaglio psicologico che stremò Coppola, insieme alle difficoltà finanziare che rischiarono molto seriamente di gettarlo sul lastrico per sempre. 

Il film vinse tra le ovazioni la Palma d'Oro al Festival di Cannes e una quantità incredibile di premi in tutto il mondo anche se fu scandalosamente snobbato alla cerimonia degli Oscar dove si aggiudicò soltanto due statuette a fronte delle otto nominations. 

Fabrizio Falconi






24/05/19

100 film da salvare alla fine del mondo: 23. "Il raggio verde" (Le rayon vert) di Eric Rohmer (1986)


Questo blog dedica, ad appuntamenti fissi - ogni lunedì e ogni venerdì - un catalogo personale dei miei 100 film da salvare "alla fine del mondo".  Non saranno ovviamente vere e proprie recensioni, ma un piccolo campionario degli affetti per queste opere che hanno segnato epoche e vite di molti, se non di tutti. 

100 film da salvare alla fine del mondo: 23. "Il raggio verde" (Le rayon vert) di Eric Rohmer (1986)

Quando Il raggio verde vinse il Leone d'Oro alla Mostra del Cinema di Venezia del 1986, in molti si rallegrarono per il grande riconoscimento che arrivava alla carriera di Éric Rohmer, uno dei più grandi cineasti francesi, paladino di un cinema povero, di rara profondità, attento alla perlustrazione meticolosa dei movimenti dell'animo umano. 

Il raggio verde in particolare era il quinto del ciclo Commedie e proverbi (Comédies et proverbes),  con il quale Rohmer, ispirandosi a detti popolari o orientali, offriva un catalogo balzachiano dell'umanità del suo paese. 

Il raggio verde prende il via da un verso di Arhur Rimbaud, tratto dal poema Chanson de la plus haute tour che è riportato nel fotogramma iniziale: Ah! Que le temps vienne Où les cœurs s’éprennent, cioè Ah! Venga il tempo In cui i cuori si innamorano! ; mentre il titolo del film deriva  dal fenomeno ottico del raggio verde e dall'omonimo romanzo di Jules Verne che ne era stato ispirato, cioè dal quel fenomeno per cui, in certe particolari condizioni atmosferiche, quando il sole sta tramontando sull'orizzonte è possibile percepire, solo per qualche fugace istante un riflesso verde  (dovuto alla rifrazione dello spettro della luce) nell'ultimo spicchio dell'astro prima che si inabissi. E una vecchia credenza sostiene che chi assiste a questo fenomeno conquista la possibilità di guardare con chiarezza nel proprio cuore e nel cuore altrui.

Si parla dunque d'amore.

E si seguono le vicende di Delphine, segretaria in un ufficio di Parigi, interpretata dalla splendida attrice Marie Rivière (la quale collaborò con Rohmer alla scrittura del film e dei dialoghi), la quale vede svanire il suo progetto di vacanze in Grecia quando l'amica con cui sarebbe dovuta partire vi rinuncia.

Delphine si trova a vivere dunque, in piena estate, quel disorientamento esistenziale preludio di quello che qualche decennio più tardi Zygmunt Bauman avrebbe chiamato "tempo liquido". Riceve diversi altri inviti, ma non è convinta: è un po' depressa, sogna il grande amore, si rammarica della sua solitudine, ma non ha sufficiente energia e voglia per lasciarsi coinvolgere da e con persone che non la interessano più di tanto, ritrovandosi a rimbalzare da un posto all'altro, da una situazione all'altro, da un cocktail a un ballo, a una vacanza all'altra, senza scopo.

Non la aiuta nemmeno la psicoterapia, da cui fugge, né i panegirici degli amici che la spingono a rinunciare a ciò che lei sente, cioè ad abbandonare le sue pretese romantiche, l'inseguimento di un vero amore e a lasciarsi vivere divertendosi come fanno tutti. 

Alla fine accetta l'invito di una amica per una vacanza in una casa di Cherbourg, che ha l'effetto di deprimerla ancor di più. E lo stesso avviene con un'altra trasferta di qualche giorno in Savoia, a casa del suo ex compagno. Torna a Parigi. E qui incontra un'altra amica che si offre di prestarle una casa a Biarritz.  Delphine accetta.

Quando è da sola sulla spiaggia di Biarritz, ascolta per caso la conversazione di alcune villeggianti che parlano di un romanzo di Jules Verne, Il raggio verde.

Qualche giorno dopo, mentre si trova a  Saint-Jean-de-Luz con un ragazzo che ha incontrato per caso alla stazione di Biarritz intento a leggere L'idiota di Dostoevskij, e con cui ha fatto amicizia, Delphine nota l'insegna di un negozio, “Il Raggio Verde” e chiede al ragazzo, Jacques, di accompagnarla a vedere il tramonto da un punto panoramico. Nell'attimo in cui il sole si inabissa definitivamente, Jacques e Delphine vedono per un breve momento la luce verde.

Così si chiude il film, lasciando immaginare che le speranze di Delphine possano aver trovato risposta grazie anche all'apparizione di quel misterioso segno.

A Rohmer interessa la descrizione del cuore puro - e perciò inquieto - di Delphine. Non è un caso che Jacques, il ragazzo che forse diventerà il suo amore, stia leggendo proprio L'Idiota. Delphine, in fin dei conti, è un Myskin moderno, un'anima che non sa e non può accontentarsi della prosa che ha intorno e che cerca qualcosa di indistinto, l'abbandono, la passione, il sentimento unico e felice di un amore non condizionato dai requisiti mondani. 

Realizzato come sempre fa Rohmer in formato di 16 mm e costato meno di 200 milioni di lire, questo film realizzò nelle sale incassi record con più di 15 miliardi.

Il segno di una genialità chapliniana di questo autore, capace di ottenere il massimo risultato col minimo impiego di mezzi, parlando direttamente al cuore dello spettatore, delle sue domande irrisolte, della sua inquietudine, annidata dietro ogni vita ordinaria. 

Fabrizio Falconi